trump-zelensky

quattro chiacchiere al petrus-bar
Visualizzazione post con etichetta carlo felice. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta carlo felice. Mostra tutti i post

29 gennaio, 2018

Torna al Carlo Felice la Norma-fuori-norma


Nel mio personale tour delle Repubbliche marinare, dopo la Venezia del 21 ecco, ieri 28, la Genova del Carlo Felice, che ha ospitato la terza recita di Norma. Beh, mentre la Lanterna (personalmente) mi eccita assai meno di SanMarco, devo dire che il Bellini (e non solo quello di Norma) è davvero altro rispetto allo Spontini (e non solo quello del Pasquale) che pure fu uno dei suoi modelli.

Poco meno di 5 anni fa avevo potuto assistere all’esordio in Norma di Mariella Devia (con il quasi-esordiente Mariotti) a Bologna. E ne avevo scritto come di un evento di prima grandezza, con un epiteto che ho ripreso oggi nel titolo di questo post. A quel tempo la Mariellissima aveva già compiuto i 65, e adesso, 3 mesi dopo questa nuova Norma, lei spegnerà nientemeno che 70 candeline: un cosa da Guinness dei primati! E ovviamente non nella sezione dei Fenomeni da baraccone, ma in quella dei più Grandi artisti lirici di ogni epoca!

Ieri pomeriggio si è fregiata di un ennesimo trionfo, con una prestazione proprio da manuale. Certo, alla sua età le note gravi potranno essere un filino problematiche, ma i centri e gli acuti sono tuttora integri e sbalorditivi. Qualcuno ancora insiste ad avanzare riserve sulla sua voce, che sarebbe di soprano non-abbastanza-drammatico: beh, credo che ieri nessuno abbia potuto tirar fuori sofismi di tal fatta.

La sua allieva (profetessa) Annalisa Stroppa ha discretamente meritato, peccando un po’, secondo me, sugli acuti, spesso piuttosto vetrosi, mentre ha mostrato buona impostazione nei centri: azzeccata comunque la scelta (non è poi una novità, si ricorda la Ludwig con la Callas) di affidare Adalgisa ad un mezzo.

Dei due protagonisti al maschile mi sento di apprezzare Stefan Pop, bella voce squillante, ma un po’ incerto e timoroso (occhi perennemente puntati su Battistoni). Ma di sicuro il tenore rumeno si farà strada, ha solo 30 anni o poco più... Discreto l’Oroveso di Riccardo Fassi, da cui avrei preteso più autorevolezza, sia scenicamente che vocalmente: il suo mezzo è notevole, ma va forse meglio disciplinato.

Elena Traversi e Manuel Pierattelli han dato il loro onesto contributo. Da lodare il Coro di Franco Sebastiani, sempre solido e compattissimo nello strepitoso guerra, guerra!

Andrea Battistoni si agita sempre come un forsennato (forse per cercar di smaltire... ehm, qualche chilo di troppo) e saltella sul podio come da giovane faceva Daniel Oren; quando ci sono brani a piena orchestra scatena i fiati (ottoni in particolare) in accompagnamenti fracassoni che coprono la melodia degli archi. Però nelle scene ad elevato tasso di lirismo (tipo il duetto Norma-Adalgisa dell’atto secondo) si riscatta, trattenendo l’orchestra come si deve, per far risaltare le meraviglie di Bellini.
___
L’allestimento, già visto da maceratesi e palermitani, è della premiata coppia di Teatrialchemici (i siculi Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi). I quali avevano da tempo rivelato al mondo la loro vision dell’opera, che comporta il trasloco dell’Irminsul (che già il libretto aveva bizzarramente spostato in Gallia dalla sua natìa Teutonia) in Sardegna, fra fili, tele, reti, stracci e cordami, materiali ispirati alla compianta Maria Lai : la foresta (scena unica, di Federica Parolini) è una jungla di liane, più enormi gabbie che paiono nasse restate a marcire in mare per anni, e dove non si trova una fogliolina nemmeno a pagarla oro. Di stracci o telami simili son fatti anche i costumi (Daniela Cernigliaro) del popolino, mentre i protagonisti (tutti più o meno appartenenti a... caste) si servono da gucci o versaci. Le luci di Luigi Biondi sono abbastanza efficaci, incluse quelle che illuminano il fondale, che cangia da giorno, a notte, a... rogo.

Ma ovviamente non si potrà tacere dell’interpretazione filo-socio-psicologica, che presenta arditi paralleli fra il mondo dei Druidi e quello globalizzato attuale, e digressioni nell’antropologia e persino nella genetica, visto che il bianco Pollione mette al mondo, ingroppandosi una gallica più slavata di lui, un figlio bianco e uno nero... (Evabbè, già il libretto ha dell’inverosimile, visto che ci si vuol far credere che Norma, personaggio quanto mai in vista, abbia potuto avere non dico una, ma due gravidanze senza che alcuno - suo padre compreso, ed esclusi solo Clotilde, Pollione e, per tramite di costui, Flavio - si accorgesse di nulla.)

L’entrata di Norma lascia davvero perplessi: mescolata in mezzo ai Druidi, si stenta a riconoscerla, fin quando non comincia a cantare. Dico, lasciamo pur perdere i capelli cinti di verbena e la falce d’oro per mietere il vischio (come da libretto) ma la musica è quella che introduce una specie di regina, con il coro che la annuncia (Norma viene) con enfasi e retorica degne di una marcia trionfale! La scena mi ha ricordato da vicino l’apparizione del Lohengrin di Guth (visto anni fa in Scala) che la folla scopre a terra in preda a convulsioni epilettiche, mentre (a parte il libretto che lo descrive arrivare raggiante su una barchetta trainata dal cigno) la musica è quanto di più trionfalistico si possa immaginare. Ma si sa, quando un regista creativo si convince di avere un’idea geniale, pur di realizzarla non guarda in faccia nè a libretto, nè a partitura... e se lo spettatore storce il naso, la colpa è esclusivamente sua, ignorante che non è altro!

Devo dire però che sul lato della recitazione i registi non hanno demeritato, così come nel trattamento della masse, fatte muovere con misura ed appropriatezza. Qualche modesto dissenso nei loro confronti (all’uscita finale) è stato annegato da preponderanti applausi.

Applausi e ovazioni che sono andati a tutti indistintamente, con l’eccezione - in superlativo - per la Mariellissima, da parte di un pubblico stipato in teatro come sardine in barile. Oltretutto in una giornata di sole quasi primaverile, mentre al di qua del Turchino imperversa il nebbione... 

21 marzo, 2016

Il Conte di Essex onorevolmente decollato sotto la Lanterna

 

Ieri pomeriggio un Carlo Felice piacevolmente gremito da una folla entusiasta ha ospitato la seconda recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano (più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3 anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto in questo Roberto Devereux, pure spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al creatore.

Ecco, i tre personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni, mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.

Anna fu gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo) con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il capo in posizione eretta (già, l’esprit de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista del ramo, tale Jean Rombaud da Calais che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le separò di netto la testa dalle spalle.

Per Maria invece si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava di abbandonare il suo corpo straziato.

Ma peggio ancora andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago, gridando lo slogan di prammatica: God save the Queen
   
E le parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene ricordare che per la prima assoluta di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il famigerato God save the Queen!

Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda, guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel 1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel terz’atto (Bagnato il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine - per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia appiccicatavi a posteriori.

Quanto al libretto di Salvadore Cammarano, si può dire abbia davvero un corposo pedigree: di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per Mercadante) dal dramma Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma  un’altra probabile fonte di Cammarano risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques Le Scène-Desmaisons intitolato assai sinteticamente (!) Histoire d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q. Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise. Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia popolare.

È chiaro che il soggetto di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola per la sua esecuzione capitale.

Naturalmente troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra le parole sue Un tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a realizzarsi, che non a quello di Regina

Sara è il suo contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo la sua triste romanza di presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo passo, questa nichilistica prospettiva.

Nottingham è (ma solo a prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione forzata di Sara, che lui ama per dovere convenzionale, mentre lei ha il cuore – anche se non il corpo, stando a Cammarano! - tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale). Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera Sara, l’unica vittima davvero innocente di tutto il dramma.

Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza – ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad Elisabetta).

Ecco, a mo’ di passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
___
Sul piano musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par proprio una versione, diciamo così, à la bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.

Mariella Devia è stata -  c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.

Prestazione di buon livello quella di Sonia Ganassi, alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.

Eccoci appunto al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali 1000 cavalli da mettere a terra, come si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione, che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere da eccessiva foga, accentuando in modo (per i  miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.

Nottingham – come annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante – era Mansoo Kim, che ha anticipato il cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene, diciamo.

Più che positivi Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil) e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro di Pablo Assante ha assolto dignitosamente il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la qualità della prestazione.

Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano, che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
___
Due note sull’allestimento del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani; le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e serenità.

I costumi di Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei personaggi e delle masse.  

Il malsano ambiente di corte è didascalicamente rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari: come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse psicologie dei protagonisti.
___
Come detto, accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella. Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento della trilogia.  

20 aprile, 2015

Un Billy per pochi intimi

 

Ieri pomeriggio una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina, andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.

Comunque, peggio per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di lingua inglese del ‘900.

La regìa di questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.

Costretto a suo tempo (Torino) dalle circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il fido Tiziano Santi, ha deciso di mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in bocca a Claggart l’espressione mosca bianca… ecco, abbiamo capito!

Finisco con gli aspetti più goliardici o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti torce elettriche.

Ma tutto il resto - che è la parte più importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.

Di grande impatto anche la scena dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena, Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale del Lohengrin…

Chiudo lasciando in sospeso il giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.

Tirate le somme, ripeto che giudico questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
___ 
E di ottima fattura è stata anche la parte musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim; poi John Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti: quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos di Lisbona di  Giovanni Andreoli (che guidò anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di Gino Tanasini.

Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta in gran spolvero.

Alla fine i pochi fortunati rimasti in sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.

17 aprile, 2015

L'Indomitable fa scalo a Genova


Questa sera al Carlo Felice va in scena la prima rappresentazione di Billy Budd, in un allestimento del Regio di Torino del 2004, firmato da Davide Livermore. Sarà meritoriamente diffusa in streaming dall’apposito sito del Teatro.


L’opera, il cui libretto Edward Morgan Forster ed Eric Crozier trassero dalla novella di Herman Melville (quello di Moby Dick) andò per la prima volta in scena, diretta dall’Autore, alla Royal Opera House – Covent Garden sabato 1° dicembre del 1951, suddivisa in quattro atti (più Prologo ed Epilogo).


Nel 1960 venne eseguita per la prima volta la nuova versione in 2 atti (qui la registrazione, commentata, della BBC) che fece il suo debutto teatrale giovedi 9 gennaio del 1964, sempre al Covent Garden e venne poi registrata in video nel 1966, ancora dalla BBC. Oggi questa è la versione quasi universalmente rappresentata e di scena a Genova, anche se proprio il Carlo Felice 10 anni fa ospitò quella originale (ne è rimasta traccia in un… refuso sulla pagina di presentazione dello streaming). Le differenze fra la versione del 1960 e quella del 1951 non si limitano alla semplice ristrutturazione (per accorpamento di scene) da 4 a 2 atti, ma constano anche di novità di contenuto, riguardanti in particolare, ma non solo, il primo atto.

Cominciamo con l’osservare che in origine ciascun atto era suddiviso in 2 scene, per un totale di 8, quindi con un perfetto equilibrio strutturale. In particolare, la seconda scena del primo atto conteneva il saluto del Capitano Edward Fairfax Vere all’equipaggio del veliero (Officers and men of the Indomitable, I greet you!) e l’atto si chiudeva enfaticamente con le acclamazioni della ciurma al Capitano, dopodiché il successivo era aperto ancora dal Capitano, ma nel chiuso della sua cabina. Orbene, quella scena è stata quasi del tutto soppressa nella versione definitiva, e in particolare è stato fatto sparire proprio l’indirizzo del Capitano, e ciò che rimane (accorpato alla prima scena) sono semplicemente gli apprezzamenti (Starry Vere!) a lui diretti da Billy e dalla ciurma, che poi viene fatta rientrare sottocoperta dal Nostromo, con l’orchestra che sfuma i suoni e mentre il sipario cala per un breve momento, per alzarsi poi su Vere nella sua cabina.

Il risultato è che l’Atto I della versione definitiva comprende soltanto 3 scene invece di 4, accorpando alla prima scena le due dell’Atto II originale. Il nuovo Atto II accorpa le 4 scene degli atti III e IV originali, ma anche qui con qualche modifica, come il taglio - nella prima scena, dopo la mancata battaglia con la fregata francese - della prima parte del colloquio Vere-Claggart e quello delle ultime battute orchestrali della seconda scena, dove gli archi chiudevano – dopo i famosi 34 accordi consecutivi dell’orchestra (Vere che comunica a Billy il verdetto di condanna) - l’atto III originale; battute che poi venivano riprese all’inizio del successivo atto, ma che diventavano adesso superflue, in assenza dell’intervallo.

Domanda: cosa convinse Britten ad espungere la scena con l’aria di Vere dalla versione definitiva dell’opera? Pare che due siano state le ragioni principali: la prima fu il disagio manifestato dall’interprete (Peter Pears, che evidentemente aveva una certa… influenza su Britten) di fronte al carattere eroico (e anche… imperialista, pur nell’austero patriottismo) di quell’aria, che mal si addiceva alle sue caratteristiche vocali; la seconda fu un’acuta quanto perfida osservazione del famoso critico musicale Ernest Newman, che senza mezzi termini accusò quella scena di essere una scopiazzatura (sia pure in chiave nobile e seriosa) di quella parodistica e da avanspettacolo del primo atto dell’operetta HMS (Her Majesty’s Ship) Pinafore (1878) della premiata coppia Gilbert&Sullivan, dove il Capitano Corcoran canta My gallant crew, good morning!, contrappuntato dagli sculettamenti della ciurma (qui da 15’36”).
___
Anche la definizione dei ruoli e l’assegnazione delle tessiture delle voci degli interpreti ai personaggi fu quasi certamente influenzata dai particolari rapporti che intercorrevano tra il compositore e Peter Pears: non altrimenti si spiegano un paio di circostanze assai sospette, fra loro probabilmente legate da uno stretto nesso causa-effetto.

La prima è rappresentata dalla centralità assunta nell’opera dal personaggio del Capitano Vere, che nel racconto di Melville ha sì un ruolo importante, ma non quanto quelli di Billy e del cattivone Claggart; e poi là muore in battaglia, mentre qui nell’opera lo ritroviamo, vecchio ma vivo e vegeto, in Prologo ed Epilogo, quindi a dare un’impronta di sé all’intera vicenda, che ci viene di fatto presentata dal suo personale punto di osservazione.

La seconda è rappresentata dalla (solo apparentemente?) strampalata assegnazione della voce acuta di tenore ad un uomo maturo (Vere, appunto, ben sopra i 40) e di quella più grave di baritono al personaggio del titolo, un giovane poco più che ragazzo (avrà sì e no 20 anni) che potrebbe benissimo essere figlio del Capitano.

Ecco quindi la più verosimile catena causa-effetto: Vere è il personaggio che (assai più di Billy) si attaglia alle caratteristiche di Pears, e allora a) deve assumere un ruolo centrale nell’opera, e b) deve essere un tenore! (Tutto il resto consegue…)
___
Il soggetto del Billy è immancabilmente di quelli prediletti da Britten: la violenza delle Istituzioni della Società sugli individui più deboli e indifesi, oltre che innocenti. E uno dei tanti risvolti di questa violenza ha – altro Leit-motif squisitamente britteniano, ma pienamente supportato e condiviso dal librettista Forster e in qualche modo rintracciabile anche nella novella di Melville - i connotati della repressione dell’omosessualità: non tanto quella materiale e plebea, fatalmente indotta dalla mancanza di gentil sesso a bordo di una nave da guerra (questa è un’opera di soli uomini!) ma quella di natura psichica, che si manifesta in forma maligna (Claggart-Billy) ma anche benigna (Vere-Billy) portando però ad una drammatica convergenza Claggart-Vere sul comune obiettivo (conscio o inconscio) consistente nell’eliminazione dell’oggetto del loro peccaminoso desiderio.

Trattandosi poi di un soggetto a sfondo bellico (1797, UK vs France) esso si presta anche a qualche frecciatina pacifista. E comportando l’esecuzione sommaria di un poveraccio che oltretutto ha attenuanti in quantità per il suo omicidio (come minimo, preterintenzionale) consente a Britten di farci venire a nausea la pena di morte. Ma non vi manca neppure l’antinomia bene-male, Cristo-Satana (Billy-Claggart) e addirittura un’allegoria Abramo-Isacco (Vere-Billy). Michele Girardi, in occasione di una rappresentazione alla Fenice nel 2000, è arrivato a proporre un parallelo con l’Otello di Verdi, e non solo per la chiara e universalmente riconosciuta parentela Claggart-Jago, ma anche per la prossimità del rapporto Vere-Billy con quello Otello-Desdemona!    

Insomma, un soggetto che si presta a mille (beh… a diverse) chiavi di lettura, tutte legittime, purchè nessuna diventi totalizzante ed esclusiva, chè altrimenti si viene a perdere proprio la complessità e la poliedricità che dell’opera sono i principali pregi.   
___
Sul piano strettamente musicale Britten si mantiene fedele alla tonalità, limitandosi ad arricchirla con qualche scala pentatonica e qualche politonalità (vedi il contrasto maggiore-minore fra SIb e SI naturale, che ritorna più volte) mentre approfondisce l’impiego dei Leit-motive con i quali caratterizzare situazioni, concetti e/o personalità.

Il più significativo dei quali (un semplice inciso costituito da una quinta ascendente seguita da una seconda minore, altre volte maggiore, pure ascendente) compare già nel Prologo in bocca al Capitano Vere, che si chiede: cosa ho fatto? ricordando quelle vicende di cui fu protagonista e testimone sul suo vascello Indomitable nell’estate del 1797 in acque francesi:


Motivo che viene catalogato come dell’Ammutinamento, poichè ritorna nel canto dei marinai sottoposti alla disumana disciplina di bordo:


Accompagna poi i riferimenti espliciti ai gravissimi casi di ammutinamento (Spithead e Nore) ricordati nell’opera:


Ma il motivo è anche intonato da Billy sul suo saluto di addio alla nave mercantile (Rights o’ Man) dalla quale è stato prelevato a forza:


Questa sembrerebbe a tutta prima una circostanza gratuita - dato che l’ammutinamento è proprio l’ultima cosa che passa per la testa al ragazzo - ma spiegabilissima sul lato psicologico: è ciò che i presenti (ufficiali di bordo) associano al nome del mercantile, che in bocca a Billy diviene, per loro e ossessivamente, un simbolo di ribellione!

Oltre che in innumerevoli altre circostanze, il tema (o sue manipolazioni alla fiamminga, tipo il moto retrogrado) compare anche ad accompagnare esternazioni di Claggart e di Vere (vedasi Prologo ed Epilogo); ciò si spiega benissimo sul fronte della problematica omosessuale: per i due la sola presenza a bordo del bellissimo giovane rappresenta una minaccia, il rischio di ammutinamento delle loro stesse coscienze contro le oppressive ed oscurantiste regole della società in cui occupano posizioni di rilievo. Non a caso Claggart pianificherà scientificamente la distruzione di Billy, di cui successivamente Vere avallerà (pur potendola impedire) la condanna capitale.  

Quanto ai personaggi principali, essi si caratterizzano - più che con veri e propri temi che li identificano ad ogni apparizione - con motivi o atmosfere sonore che ne richiamano la personalità: Billy è accompagnato da figurazioni brillanti degli strumentini, o da tremoli delle trombe, strepiti delle tavolette di legno e singhiozzi dei legni (la sua balbuzie) o dal malefico tritono (DO#-SOL, al momento dell’uccisione di Claggart); la tonalità che spesso lo contraddistingue è LA maggiore (serenità, innocenza). Claggart si caratterizza per motivi di quarte discendenti seguite da seconde minori-maggiori ascendenti; la tonalità prevalente è FA minore. Vere fin dall’inizio si distingue per l’ambiguità dei suoi comportamenti, evocata dall’instabilità tonale (SIb-SI) mentre è il DO maggiore a rappresentare la sua autorità e la sua ascendenza sulla ciurma (che in quella tonalità ne esalta le virtù).

Spesso e volentieri i motivi si intersecano o vanno ad aggredire territori altrui: ad esempio Vere è a volte inquinato dalle quarte discendenti di Claggart, a testimonianza dell’influenza che il cattivone ha su di lui. Altri motivi ricorrenti evocano atmosfere particolari, come la ferrea e proterva disciplina militare, un motivo marziale che ritorna a sottolineare gli interventi autoritari degli ufficiali; o il motivo cupo e deprimente che segue la ridiscesa della nebbia che rende impossibile l’ingaggio con la nave nemica, motivo che poi pervade l’Interludio che precede la seconda scena dell’Atto II, dove si evoca un’altra e ben più pericolosa nebbia: quella che occupa la mente di Vere!    

A proposito, come nelle altre sue opere, Britten ha corredato il Billy di alcuni Interludi orchestrali, uno dei quali in realtà si costituisce come una vera e propria scena, ma priva di parole e di… immagini. Sono le 34 battute – fra la seconda e la terza scena dell’Atto II - che accompagnano Vere che entra nella cabina dove è rinchiuso Billy, cui il Capitano deve comunicare la sentenza di condanna all’impiccagione comminatagli dalla Corte marziale per avere ammazzato Claggart. Noi – come già volle Melville - non vediamo, né sentiamo alcunchè di quest’ultimo colloquio a quattr’occhi, possiamo solo congetturarci sopra, e i 34 accordi di questa particolarissima frase musicale (tutte triadi, una semibreve per battuta) ci lasciano immaginare del suo contenuto… ciò che meglio preferiamo:     

1
FA M
f
ottoni
18
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
2
LA M
ff
tutti
19
DO M
pp
corni
3
REb M
mf
legni
20
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
4
DO M
p
archi
21
RE M
pp
trombe+tromboni
5
RE m
mf
legni+corni
22
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
6
LAb M
ff
tutti
23
DO M
pp
corni
7
RE M
mf
archi
24
FA# m
p
sax+trombe+tromboni
8
SIb m
p
legni
25
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
9
LA m
pp
trombe+tromboni
26
LAb M
pp
archi
10
SIb M
pp
corni
27
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
11
LAb M
p
legni
28
DO M
pp
corni
12
FA m
pp
corni
29
REb M
ppp
archi
13
DO M
p
archi
30
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
14
FA# m
f
flauti+trombe+tromboni
31
DO M
pp
corni
15
SIb M
mf
legni-flauti
32
FA M
pp
legni-oboi-sax-cfagotto
16
DO m
p
archi
33
RE M
ppp
trombe+tromboni
17
LA M
pp
ottoni
34
DO M
ppp
corni
   
Effettivamente si tratta di una serie piuttosto ardua da decifrare (chissà se Britten si è portato nella tomba l’algoritmo da lui impiegato per generarla… oppure se gli è venuta così, a sentimento, o ancora se ha estratto le successive tonalità, gli strumenti e le dinamiche da un cappello, chissà…) L’unica caratteristica scientificamente rilevabile è che si tratta di accordi nelle sole 13 su 24 tonalità (maggiori + minori) che contengono almeno una nota della triade di FA maggiore, da cui inizia e su cui sfocia l’Interludio. E quali sono le note di quella triade? FA-Claggart / LA-Billy / DO-Vere (!!!) 

L’Epilogo ha un punto culminante su un SIb maggiore pieno, che sembrerebbe implicare per Vere una ritrovata pace e serenità (where she’ll anchor forever…) al riparo da ogni pericolo, rappresentato dal precedente SI minore, ma le ultime battute del Capitano si allontanano ancora da quella tonalità, che permane nel quasi indistinguibile borbottìo dei timpani e sfuma (IV-V-III grado) su… Vere commanded the Indomitable: