Ieri pomeriggio
una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da
molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o
non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina,
andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.
Comunque, peggio
per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra
che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto
in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di
lingua inglese del ‘900.
La regìa di
questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è
particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.
Costretto a suo tempo (Torino) dalle
circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il
fido Tiziano Santi, ha deciso di
mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del
pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o
gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena
finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi
moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e
cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i
vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy
tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in
bocca a Claggart l’espressione mosca
bianca… ecco, abbiamo capito!
Finisco con gli aspetti più goliardici
o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano
luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di
cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali
che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti
torce elettriche.
Ma tutto il resto - che è la parte più
importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere
nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del
potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il
fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di
natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna
di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure
chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò
solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo
le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente
è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il
corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente
asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro
versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua
anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il
fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima
dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.
Di grande impatto anche la scena
dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo
immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena,
Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul
ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non
del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai
e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale
del Lohengrin…
Chiudo lasciando in sospeso il
giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo
ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse
Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di
Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se
non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come
parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.
Tirate le somme, ripeto che giudico
questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
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E di ottima fattura è stata anche la parte
musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri
comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim
e Simon Lim; poi John
Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio
Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli
hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti:
quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos
di Lisbona di
Giovanni Andreoli (che guidò
anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di
Gino Tanasini.
Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto
sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle
scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta
in gran spolvero.
Alla fine i pochi fortunati rimasti in
sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo
trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.
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