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scrivere pescivendola

20 aprile, 2015

Un Billy per pochi intimi

 

Ieri pomeriggio una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina, andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.

Comunque, peggio per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di lingua inglese del ‘900.

La regìa di questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.

Costretto a suo tempo (Torino) dalle circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il fido Tiziano Santi, ha deciso di mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in bocca a Claggart l’espressione mosca bianca… ecco, abbiamo capito!

Finisco con gli aspetti più goliardici o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti torce elettriche.

Ma tutto il resto - che è la parte più importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.

Di grande impatto anche la scena dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena, Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale del Lohengrin…

Chiudo lasciando in sospeso il giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.

Tirate le somme, ripeto che giudico questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
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E di ottima fattura è stata anche la parte musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim; poi John Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti: quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos di Lisbona di  Giovanni Andreoli (che guidò anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di Gino Tanasini.

Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta in gran spolvero.

Alla fine i pochi fortunati rimasti in sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.

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