XIV

da prevosto a leone
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15 dicembre, 2012

Ultimi strascichi del Freudhengrin della Scala


Ieri sera, in una Scala non proprio esaurita (solo causa-neve?) e ulteriormente spopolatasi nei due intervalli, terza rappresentazione dell’opera che ha inaugurato l’ultima celebrazione centenaria di Wagner (+Verdi) dell’era moderna. Perché dico ultima? Perché son pronto a scommettere (oh... tutte le ricchezze di Berlusconi, mica noccioline eh!) che nel 2113 e oltre, di Wagner e Verdi (e forse, ma questo non è sicuro, anche del suddetto Berlusconi) si sarà persa ogni e qualsivoglia traccia. Gli unici teatri d’opera in attività saranno piccole sale esclusive di Pechino e Shanghai frequentate dall’élite del PCC, dove si rappresenterà ininterrottamente Turandot, tassativamente col finale di Hao Weiya, e con Calaf cantato alternativamente da tenori nordcoreani e tibetani.  

Dell’allestimento di Guth si è già (e ho già) scritto abbastanza, e certo non è che a teatro, dal vivo, le cose siano cambiate rispetto a quanto visto in TV. La sola trasposizione dell’opera in epoca moderna ne comporta l’irrimediabile castrazione (via il testicolo storico, via il testicolo religioso, hai detto niente!) Dopodiché tutto si focalizza su… Hauser e Freud, cioè sulla gratuita psicanalisi di Lohengrin ed Elsa.

Parliamoci chiaro: sovvertire la rappresentazione dei caratteri dei personaggi di un’opera - da come emergono in modo inequivocabile (parole e musica) dal testo originale dell’Autore – per inoltrarsi nella sfera del loro subconscio, o del loro inconscio, è operazione massimamente riprovevole, truffaldina e disonesta, in quanto consente al regista di cambiare a suo piacimento (quindi subdolamente, perché nessuno lo può contraddire, fatti alla mano) e addirittura di stravolgere completamente quei caratteri, con ciò stravolgendo anche l’intero impianto e l’intera natura di quell’opera.

Una volta sconfinato sul terreno freudiano, Guth potrebbe tranquillamente proporci Lohengrin nei panni di Hitler (che pure subì, come Hauser, una reclusione fisica, prima di essere cooptato come Führer) ed Elsa in quelli di Winifred Wagner (che ben sappiamo quale infanzia travagliata avesse vissuto) trasformando l’opera nel racconto delle compromissioni di Bayreuth col Terzo Reich (il che non sarebbe poi nemmeno una novità…)

Per di più, questo trucco è strumento miserabile, perchè buono per tutte le stagioni e per tutte le opere che hanno un tenore e un soprano per protagonisti: applicandosi indifferentemente a Lohengrin-Elsa come ad Alfredo-Violetta o a Pollione-Norma, a Tamino-Pamina e persino a Lindoro-Rosina…      

Ma non c’è bellezza nè genialità di presentazione che possa mascherare la (quasi) totale incoerenza fra l’originale e… l’originato. L’unica eccezione è lo squarcio finale del second’atto, dove la recitazione dei personaggi è consistente con l’originale, ma per la semplicissima ragione che lì era stato proprio Wagner ad introdurre una buona dose di psicanalisi! E a parte questo scorcio, se a Wagner fosse stato chiesto di musicare il soggetto di Guth, non avrebbe tenuto buona una sola nota di quelle che vergò sui pentagrammi del suo Lohengrin. È la musica di Wagner che sconfessa ignominiosamente un Konzept siffatto: it’s the music, stupid! In definitiva, qui da psicanalizzare sarebbe il regista, per scoprirne le remote, oscure e rimosse ragioni del suo disprezzo per questo capolavoro. Siamo quasi ridotti a invocare: aridatece li topi…!

Passando alla musica, ancora un’osservazione che si ricollega alla regìa: dopo la prima, si sono alzate alcune voci dispiaciute per la forzata assenza della Harteros. La cosa inquietante è che il rammarico di costoro non riguardasse l’interpretazione della Elsa di Wagner, ma quella della Elsa di Guth! O tempora, o mores! (ecco perché un tri-centenario non ci sarà…)
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Di Kaufmann ormai si sa tutto ed è inutile sperare che lui cambi (in meglio, s’intende): un grande, anzi grandissimo attore che canta assai bene quando la parte prevede voce aperta e spiegata; per il resto canta di… esofago (o al massimo di naso).

La Harteros essendo tuttora in convalescenza (le presenti nevicate le daranno un motivo in più per disertare anche le restanti repliche? smile!) è stata la Petersen ad impersonare Elsa, facendo quasi quasi rimpiangere la pur modesta Dasch: la dote naturale di voce c’è, e come, ma è tutta potenza che… non si scarica a terra, come direbbe il talent-scout Briatore.

Herlitzius come al solito: ci mette tutto il suo mestiere, che non è poco, però non sempre la foga dà buoni risultati sul piano squisitamente musicale. Comunque ne esce dignitosamente e quasi più applaudita del bel Jonas.

Tomasson è costretto a sbraitare e schiamazzare a più non posso, per non far la figura del… pesce: e così, matematicamente, alla fine (e meno male per lui che è quella del secondo atto, smile!) più non ne può, accidenti a lui.

La professionalità di Pape garantisce qualcosina in più del minimo sindacale, ma francamente non è il massimo per un Teatro che ha le pretese di… Lissner.

Lucic è appena appena meno-peggio di Tomasson, anche se ne mutua l’espressione, costantemente quanto gratuitamente truce; ci dobbiamo accontentare?

I quattro brabantini passano davvero inosservati e soprattutto… inascoltati (smile!

Il coro di Casoni così-così, non so se per colpa della regìa che lo relega quasi sempre all’interno di… ma cos’era, Alcatraz o un Holiday Inn anni ’50?    

Barenboim non mi ha particolarmente entusiasmato: ho l’impressione che – avendo mille impegni, musicali e soprattutto extra - faccia ormai della comoda routine, vivendo sugli allori e cercando di adattarsi alle qualità non superlative della sua orchestra, invece di provare ad alzarne il livello (ma appunto: per questo servirebbe… provare!) Imperdonabile il fracasso del finale primo, dove ha coperto tutte le voci (a parte quella della Petersen). In più ha voluto far vedere (anzi… sentire) che lui rispetta alla lettera la partitura (sarà mica una frecciatina a Guth? smile!) e così nella scena finale, oltre a quelle che suonavano ai due lati in palcoscenico, ha piazzato due coppie di trombe – per nulla impeccabili, fra l’altro - anche in loggione, col risultato di rompere i cog… timpani a qualche decina di spettatori colà dimoranti. Peccato che le didascalie di Wagner prescrivano, oltre alla dislocazione a quadrilatero delle trombe, anche quella di cori e di… cavalli (sic! e Wagner pretendeva fossero in carne ed ossa!) Insomma, questa di Barenboim mi è proprio parsa una gigionata pazzesca.
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Concludo ripetendo una litania che ormai sta annoiando (accezione anglosassone)  anche me medesimo: tra allestimenti lunatici e prestazioni musicali appena sufficienti, l’andazzo scaligero si mantiene su un livello di performance/price ampiamente deficitario. Ho ancora davanti agli occhi (e nelle orecchie) l’accoppiata lagunare Otello-Tristan, che pure non fu certo stratosferica: ebbene, il raffronto è (per monsieur Lissner) piuttosto imbarazzante.

23 febbraio, 2011

Tosca (di Bondy, purtroppo) alla Scala


Dopo Cavalleria-Pagliacci (o viceversa!) ecco ancora un classico del melodramma italico fine-800 alla Scala. Introdotto da una corposa presentazione del professor Michele Girardi (da non confondersi con Enrico Girardi, occhio…) un'autorità in merito, nel consueto appuntamento Prima della prima del 9 scorso. In effetti – sarò sadico, magari, in questa esortazione – ma prima di entrare in teatro a godersi (o a maledire) lo spettacolo, chiunque dovrebbe leggere - meglio ancora: studiare - analisi come questa (vedi pagg. 37 e seguenti) redatta proprio da Girardi, anni fa, per La Fenice. Di sicuro, dalla lettura di un'analisi come questa ci si farebbe un'idea concreta (meglio ancora se si buttasse anche uno sguardo alla partitura) di ciò che è l'originale, in modo da poter poi apprezzarne o censurarne la rappresentazione – scenica e musicale - con un minimo di cognizione di causa, e non sulla base di estemporanee e più o meno viscerali sensazioni. In caso contrario, meglio non far assurgere le proprie pur rispettabili, ma viscerali, sensazioni a giudizi assoluti, di condanna o santificazione che siano. (non parlo qui di giudizi – in un senso o nell'altro – a vario titolo interessati).


Cast annunciato da mesi e mesi e – regolarmente – smontato pezzo per pezzo alla vigilia della prima. C'è ancora un intero mese di inverno, quindi sono da aspettarsi altre vittime (una già annunciata per Britten, ma scommetto che si salverà Francesconi) Però, fossi Mozart, Puccini, Gounod, Verdi e Rossini, non mi fiderei neanche di primavera ed estate: dentro il Piermarini le correnti d'aria devono essere sempre più sbifide.

La prima del 15 – tenuta rigorosamente segreta, come ogni altra replica, alla diffusione radio-tele-web (coda di paglia, come l'inversione Pag-Cav, caro Lissner?) – pare fosse passata secondo recente tradizione: fra irrisioni, più che contestazioni, alla regìa, e alcuni chiassosi, contestati buh per il povero Kapellmeister. Da taluni definito, in pratica, un maestro di cappelle, nel mentre altri lo hanno già elevato al rango di profeta (sarà forse per via della sua provenienza da luoghi biblici, smile!) Accoglienza mista che – sempre stando alle cronache – si era ripetuta anche alla seconda (che recuperava la Dyka) e alla terza, in cui era riemerso dal nulla il bel Jonas. Ieri? Invece, pure. Il loggione mi è parso diviso fra centro-destra (battimani fragorosi e bravi! a josa) e sinistra (secondo piano, in particolare, da cui sono piovuti pesanti buh ai principali protagonisti, direttore escluso peraltro). Che il loggione sia diventato uno specchio del Paese politico, diviso in fazioni ed opposti estremismi?

Ieri sera la prestazione di Omer Meir Wellber mi è parsa francamente apprezzabile, forse perchè alla quarta tornata l'affiatamento con orchestra e interpreti ha potuto migliorare. Qualche fracasso che personalmente trovo eccessivo (non le campane, come riportato da qualcuno per le precedenti recite) ma per fortuna mai a coprire il canto; per il resto una direzione rispettosa della partitura, quindi tutt'altro che da stigmatizzare, né tanto meno da buare. Certo, da qui a vedere in Omer il messia ce ne corre assai e del resto, avendo 30 anni, il nostro non può che migliorare ancora, a meno che non cada vittima della sindrome da notorietà precoce.

Zeljko Lucic è uno Scarpia indecente sotto il profilo della recitazione, ma ciò è quasi certamente da addebitarsi al regista (vedi sotto). Viceversa i suoni che sono usciti dalla sua bocca, pur non incantando, mi son parsi perlomeno dignitosi e lui non meritevole della porzione di buh arrivatigli insieme agli applausi. Imponente la sua entrata nel primo atto ed abbastanza efficace anche la sua prestazione nel secondo, forse con qualche eccesso di declamato/gridato. Per me, comunque, dovrebbe citare il regista per procurato danno di immagine.

Oksana Dyka, come già di recente in Pagliacci, ha mostrato doti naturali notevoli accompagnate da una certa immaturità. Paradigmatico il suo Vissi d'arte (unica aria su cui il pubblico è intervenuto, col loggione diviso fra brava! e buh) in cui ha sfoggiato gran chiarezza di suono, accompagnata da una certa monotonia nell'espressione (e da un singhiozzino anticipato, sul Signor, ah) Insomma, una dignitosa prestazione da parte di questa 33enne, per me meritevole di incoraggiamento.

Il divo-redivivo Jonas ormai lo si conosce, in tutto e per tutto: a voce spiegata, un autentico gigante; nei mezzo-forte e nei piano, o di gola o di testa. Sulla scena è l'unico a fregarsene (anche qui: nel bene e nel male) del regista: lui è sempre lui, Werther, Josè, Mario, tutti fatti con lo stesso stampino. Alla fine anche per lui il mix di bravo! e buh: in questo caso (per me) abbastanza appropriati in proporzione alle qualità positive e negative sopra descritte (smile!)

Bravo lo Spoletta di Luca Casalin, almeno come rapporto prestazione/difficoltà.

Renato Girolami era il Sagrestano, che il regista ha pervicacemente ridicolizzato. Da sufficienza la sua prestazione vocale.

Un discreto Angelotti è stato Deyan Vatchkov, mentre Davide Pelissero e il prezzemolo Ernesto Panariello si son guadagnati la pagnottina, nei panni di Sciarrone e Carceriere. Da elogio anche la prestazione della "pastorella" Barbara Massaro.

Sui suoi abituali standard il Coro di Casoni, integrato da bianche voci, che ben ha reso la scena madre del Te-deum, a dispetto della regìa.

Ecco appunto, la messinscena: il fatto che il MET e München già ci avessero messo sull'avviso nulla toglie alla sensazione di autentica pena che si prova assistendo a questa pagliacciata. Purtroppo, oltre a soffrire le contingenze di stagione, Tosca deve avere un qualche strano e arcano potere: risultare indigesta a parecchia gente. È rimasta famosa l'idiosincrasia di Mahler per quest'opera (non per Puccini, attenzione) da lui definita, al primo e forse unico ascolto, un lavoro magistralmente abborracciato, che qualunque apprendista-calzolaio era in grado di scrivere… e conseguentemente e coerentemente mai diretta in vita sua.

Ecco, Luc Bondy si deve esser fatto suggestionare dal giudizio di Mahler, e quindi ha deciso – bontà sua - di riscrivere Tosca. Interessante ed istruttivo quanto si ascolta in questa sua intervista, dove il regista spiega il suo approccio. Attorno a 1':10" il nostro afferma candidamente che il libretto (parla dell'omicidio di Scarpia) è stupido e che quindi lui (il genio!) ci ha dovuto mettere le mani, mostrandoci Tosca che minaccia di buttarsi dalla finestra (apperò!) Poco dopo (1':43") per giustificare le sue efferatezze, Bondy spara un'autentica carognata, affermando che Sardou fu spesso in disaccordo con Puccini riguardo a scelte del libretto, e proprio mentre si parla del finale secondo. Ciò è un clamoroso falso: ci furono, effettivamente, divergenze fra Sardou e i librettisti di Puccini, ma sempre il compositore si schierò con il drammaturgo, e convinse i suoi librettisti a seguirlo. La chiusa dell'atto è pari-pari, ma proprio nei minimi dettagli, come la descrive Sardou, non come ce la mostra Bondy! E lo stesso dicasi per il finale terzo, dove Puccini impose di rispettare il dramma di Sardou (Tosca che si getta dallo spalto) ai suoi librettisti, intenzionati a farne una ridicola, tristaniana Liebestod. Ancora, a 2':02" il candido Luc afferma "non è originale!", e poi "non è nulla di originale, né di speciale, in fondo è solo un'opera". E quindi rivendica il diritto di farne strame (?!) Insomma: parodia e dissacrazione elevate a principio assoluto. A 2':45" si incarta poi in un ragionamento senza capo né coda, affermando che Puccini non è Berg (ma l'ha ascoltata bene la scena della tortura, il nostro genio?) e che Schönberg era un ammiratore di Puccini, ma che fra loro ci fu sempre rivalità (sic!) Poi, bontà sua, riconosce che Tosca (insieme a Salome) è il top dell'opera, è molto buona, ma che ciò non basta (?!) Mah, o era ubriaco, oppure è del tutto fuori di melonera.

Domanda: ma se un'opera non ti va a genio, mio caro Luc, perché non ti limiti semplicemente ad ignorarla, come fece il saggio Gustav? Occupati d'altro, di cioccolatini ad esempio, invece di accanirti su un oggetto che disprezzi. Questa regìa fu sonoramente contestata al MET nel 2009, poi a Monaco nel 2010: si disse, ad opera di nostalgici di Zeffirelli. Ma buare è ancora nulla: qui ci vorrebbero punizioni e multe severe per chi si macchia di simili nefandezze. Come gridava Bracardi? In galera!

A Milano il nostro – mostrando pure una buona dose di vigliaccheria (leggi: non avere il coraggio delle proprie scelte) – ha edulcorato o eliminato i particolari più dissacranti (chi non ha visto dal vivo le recite del MET e di Monaco, o si è perso la diffusione di arte, può trovare ampi documenti su youtube che testimoniano delle scelte al limite della provocazione fatte dal regista svizzero) credendo così di farla franca a buon mercato (o pensando che il pubblico italiano sia fatto da trogloditi bigotti, non abbastanza intelligenti per capire un genio come lui). In pratica, dal suo mix dissacrazione+parodia ha tolto la dissacrazione. Quindi indovinate voi cosa è rimasto…

La sua vittima principale, quanto a rappresentazione dei personaggi, è il povero Scarpia, che non è propriamente un comprimario insignificante, ma nientemeno la zeppa che sostiene l'intera volta strutturale dell'opera. Nel primo atto, in chiesa, alla fine del Te Deum, lo Scarpia di Bondy evita (come faceva al MET) di palpeggiare la statua della Madonna (forse perché qui siamo a Milano, a duecento metri dalla Madunina) ma le si avvicina fin quasi a baciarla sulla bocca! Sarebbe questo il modo di rappresentare la sua perversa personalità, il suo abietto uso della Religione e della Politica per soddisfare la sua concupiscenza (Tosca, mi fai dimenticare Iddio)?

Nella scena iniziale del secondo atto, avevamo visto (al MET e a Monaco) Scarpia farsi pompinare non da una, ma da tre puttane, regolarmente pagate in contanti dallo Spinelli… ops, dallo Sciarrone di turno. Alla Scala il blowjob è censurato (c'è paura del mite Tettamanzi, per caso?) ma il risultato non cambia. Bondy – da svizzero, pur zurighese – dovrebbe conoscere un po' di italiano; altrimenti, chieda al primo che passa per la strada di spiegargli cosa canta Scarpia, in modo da farsi un'idea di quale pasta sia fatto il barone siculo al servizio dei borboni appaltato dal Vaticano. Ha più forte sapore la conquista vïolenta che il mellifluo consenso. Che è la splendida, fulminante e concisa rappresentazione dell'originale di Sardou: Une femme qui se donne, la belle affaire... J'en suis rassasié, de celles-là!... Mais ton mépris et ta colère à humilier... ta résistance à briser et à tordre dans mes bras!... Pardieu, c'est la saveur de la chose, et ta résignation me gâterait la fête!... Queste parole, Luc Bondy, che non può non conoscere il francese, le ha lette? Ha idea di cosa raccontino della personalità di Scarpia? Evidentemente no: lui, come ha del resto candidamente ammesso nell'intervista di cui sopra, del libretto (e della musica?) dell'opera che deve allestire, non si cura, essendo una cosa stupida.

Ancora Scarpia: Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fiori, né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, vòlto a nuova esca. Ora, cosa vediamo noi in tutta la scena della tortura? Uno Scarpia che fa il cascamorto con Tosca, che le fa precisamente l'occhio di pesce e che comicamente tuba come tortora. Roba da matti… anzi, da Berlusconi, con il terzo piano di (quello che dovrebbe essere) Palazzo Farnese ridotto a scantinato da bunga-bunga, vomitevole.

Quanto a Floria, Bondy ne ha attenuato, a Milano, i caratteri di schizoide, nevrotica, volgare e pure scema e vanesia che le aveva appioppato al MET. Resta la stupidaggine dello sfregio al dipinto della Maddalena (a proposito, scusate: ma qualcuno ha imposto che abbia sempre la tetta sinistra al vento? Ronconi, Carsen e adesso Bondy così ce la rappresentano) E resta l'assurdo finale secondo: dopo aver pugnalato Scarpia nelle palle (il libretto, si sa, è stupido e prescrive una sola coltellata al cuore) gli dà un'altra coltellata, precisamente sull'unico colpo di piatti previsto in partitura, proprio al cuore (altrimenti il bruto farebbe una fine atto come Amfortas nel Parsifal) e poco dopo, altre due coltellate (l'ultima a due mani, orripilante) sulle parole muori, muori, muori! Poi fa per buttarsi dalla finestra (appunto, a proposito della stupidità del libretto… di Bondy!) quindi ci ripensa e si stende stanca, ebete ma soddisfatta sul sofà, ad asciugarsi il sudore col ventaglio dell'Attavanti (?!)

E pensare che Puccini nel comporre Tosca ci ha messo tutta la sua inventiva e la sua pignoleria, arrivando a scrivere in partitura particolari come questo:
Di cui Bondy si sbatte altamente i coglioni, come di tutto il resto… Il terzo atto è addirittura stravolto nella sua originaria drammaticità. Non parlo della partita a scacchi fra Mario e il carceriere, roba da avanspettacolo. No, è che per Bondy i due protagonisti si comportano come se fossero consapevoli che l'imminente esecuzione sarà proprio vera e non simulata: già la scena rimane sempre avvolta nella totale oscurità (la fantastica alba su Roma dev'essere stupida cosa, ovviamente) e poi Cavaradossi che appallottola e getta via il salvacondotto, i due che cantano il Trionfal come fossero al funerale… insomma, siamo al totale ribaltamento della situazione emotiva costruita dal libretto (e dall'originale di Sardou) il che priva il finale del drammatico colpo di scena determinato dalla non simulazione della pena. E, coerentemente con la stupidità della sua regìa, Bondy fa salire Tosca lungo una scala, con studiata compostezza e la fa lentamente scomparire in una torre. Penoso.

E che dire delle scene di Peduzzi? Ma perché continuano (no anzi, continuiamo noi!) a pagarlo per le sue scenografie sempre uguali? Per restare solo alla Scala negli ultimi anni: Tristan, Carmen, Casa di morti, Tosca: tutto uguale! Muraglie da archeologia industriale, cupe e deprimenti. Sant'Andrea, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo: non c'è differenza alcuna fra una basilica barocca, una quasi-reggia rinascimentale ed un castello di origine adriana, il tutto è ridotto peggio delle più sconce stazioni del metro del Bronx.

Quanto ai costumi della Canonero, sono almeno vagamente plausibili, e ciò va tutto a suo merito.

Non aggiungo altro, salvo la constatazione che la stagione – iniziata così-così con Wagner e proseguita cosà-cosà con il dittico – non mi pare si stia riprendendo alla grande con questa Tosca, passabile sul fronte musicale, ma deprimente su quello scenico. E ci attende ora una Morte… già depauperata del primattore.

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Girovagando attorno a Tosca.

Sui cambi d'abito.

Qualcuno si è - del tutto a torto – scandalizzato per il fatto che l'abito indossato nel terzo atto da Tosca in questa edizione è visibilmente diverso da quello che la cantante indossa nel secondo. Perché a torto? Perché la cosa è invece naturale e direi quasi doverosa (e infatti quasi tutte le produzioni ce la propongono così). In effetti chi ha presente il dramma di Victorien Sardou (cui si ispirarono Giacosa-Illica per il libretto del melodramma) può essere tratto in inganno, poiché in Sardou il colloquio finale fra Scarpia e Tosca non avviene a Palazzo Farnese e nel bel mezzo di una festa in onore della regina, ma proprio a Castel Sant'Angelo, nell'appartamento di Scarpia, a due passi dalla prigione dove è detenuto Mario e a tre dalla piattaforma sulla quale verrà fucilato. Tosca vi è stata portata dopo la drammatica serata-nottata nella casa di campagna dell'amato (atto III) durante la quale lei ha rivelato il nascondiglio di Angelotti, poi suicidatosi. Lei veste (verosimilmente) ancora gli abiti da cerimonia che indossava precedentemente (atto II) a Palazzo Farnese, a meno di ipotizzare un suo passaggio da casa a cambiarsi, prima di andare da Mario, cosa peraltro inverosimile, data la fretta che Tosca ha di cogliere in flagrante i supposti trescanti (e poi è tutto sommato ininfluente sulla questione dibattuta qui). Dopo aver ucciso Scarpia (fine atto IV) Tosca si reca immediatamente alla prigione di Mario (inizio atto V) e quindi non può certo avere un abito diverso da quello indossato nei tre (o come minimo due) atti precedenti. Si noti che Tosca non fa cenno alcuno a Mario di eventuali preparativi da lei fatti in vista della fuga (non ne avrebbe avuto materialmente la possibilità): si limita a dire che loro hanno da 4 a 7 ore di margine (prima che si scopra l'ammazzamento di Scarpia) per abbandonare lo Stato e che non avranno problemi a raggiungere Civitavecchia, disponendo della carrozza che Scarpia ha (meglio: disse di aver…) messo a loro disposizione.

Invece sappiamo che il libretto del melodramma prevede che il colloquio, seguito dall'accoltellamento, fra Tosca e Scarpia avvenga appunto a Palazzo Farnese, al piano superiore a quello in cui è in corso la festa per la regina, di cui Tosca è stata la protagonista canora. E quindi Tosca, prima del terzo atto dell'opera, deve necessariamente spostarsi (di circa 1 Km) da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. Una volta lì, cosa racconta a Mario? Cito dal libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli… una vettura è pronta. Questa frase, del tutto assente in Sardou (vettura a parte) e inventata di sana pianta dai librettisti di Puccini, ci dice senza la minima ombra di dubbio che Tosca, dopo aver abbandonato Palazzo Farnese e prima di recarsi a Castel Sant'Angelo, è passata da casa, a recuperare oro e gioielli (non poteva di certo averne portato con sé una borsa piena a Palazzo Farnese, quando l'ultima cosa che poteva immaginare era la brutta piega che avrebbe preso la serata!) e procurarsi una carrozza. E quindi non può non aver ragionevolmente approfittato di questa sosta anche per cambiarsi d'abito, togliendosi quello (verosimilmente ingombrante, scomodo ed appariscente) della cerimonia regale, per indossarne uno più adatto all'imminente viaggio (che sarebbe in verità una fuga in piena regola).

La richiesta di grazia alla regina

A proposito di inesattezze (un assoluto dilettante come me ci gode un mondo a prendere simpaticamente in castagna qualche autorità…) nel peraltro interessante ed approfondito scritto del prof. Giulio Paduano pubblicato sul programma di sala, si sostiene che l'onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou (…) in Sardou la posizione di Scarpia è subalterna (…) Tutto questo orizzonte è sgombrato nell'opera di Puccini per lasciar posto ad un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi. In poche parole, Paduano cerca di convincerci che Illica-Giacosa-Puccini siano più convincenti di Sardou, portandoci un esempio che… dimostra proprio il contrario! Vediamo perché.

Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant'Angelo, quasi all'alba. Pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la regina (!?) convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l'esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell'inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l'avverte che la grazia arriverebbe con almeno un'ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia potrebbe far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti.

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso ed assai meno plausibile: perché, nonostante Scarpia cerchi di dissuadere Tosca affermando che a Mario resta solo un'ora di vita, è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, dopo la festa; e soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe addirittura convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all'impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant'Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno i librettisti di Puccini.

Il terzo atto, prima e dopo

Sempre sul programma di sala di questa edizione di Tosca, compare un interessantissimo articolo di Pier Giuseppe Gillio, che riporta documenti inediti riguardanti la prima versione del libretto del terzo atto, ad opera di Luigi Illica, con successivi interventi di Giuseppe Giacosa. Versione che fu ampiamente tagliata e drasticamente modificata per arrivare a quella finale.

La didascalìa che Illica aveva steso per presentare l'inizio dell'atto (largamente espunta nell'edizione definitiva) reca una minuziosa descrizione dei rintocchi di campana che si odono dopo la canzone del pastorello (che mancava in questa originaria versione). E si può verificare sulla partitura come Puccini vi abbia tenuto fede, peraltro dilatandone poi l'estensione. Illica scrive: Lontanissimo, nell'estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino. In effetti la chiesa si trova a sud di Castel San'Angelo, a circa 1.500m in linea d'aria. In partitura Puccini segna questo suono con indicazione lontanissimo e con una successione di 3, poi 4, poi 5 minime (siamo in 4/4) separate da una pausa di minima. La nota è SI naturale sotto il rigo della chiave di violino. Prosegue Illica: subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant'Onofrio, nel medio fondo, a destra. In effetti Sant'Onofrio si trova a circa 500m a sud-ovest di Castel Sant'Angelo, quindi giustamente a destra, guardando dal castello. Puccini indica meno lontano e segna il suono come una successione di semiminime (campana piccola!) di RE naturale, intervallate da pause di semiminima. I primi cinque rintocchi si alternano-sovrappongono a quelli di San Pietro Montorio. Ancora Illica: poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de' Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Qui Illica si prende una certa libertà, in quanto la chiesa è sì a sinistra (sta a nord-est del castello) ma non è proprio vicinissima (è a circa 1.000m di distanza). Puccini indica vicino e segna il suono come tre serie di 3, 4, 5 semiminime consecutive (più accelerata!) separate da una pausa di semiminima. Come si vede, una rappresentazione musicale assolutamente fedele alla descrizione del librettista, descrizione poi espunta dal testo dato alle stampe.

Puccini poi estende la presenza dello scampanìo fino a far intervenire, prima dell'aria di Mario, anche il campanone di San Pietro, segnato come MI naturale gravissimo in minime.

Di qualche interesse anche l'orario degli avvenimenti. Nel libretto definitivo il terzo atto si apre poco dopo le tre del mattino, come si può dedurre dal fatto che l'esecuzione avviene alle 4 (suonano le 4 del mattino, è scritto in didascalìa) e prima il carceriere ha avvertito Cavaradossi con il famoso vi resta un'ora. Invece Illica, nella stesura originale, posticipava tutto di ben due ore (suonano le ore sei, si legge sul libretto originario al momento dell'esecuzione di Mario, dopo il famoso inno latino, che Puccini sbeffeggiò come trionfalata, cassandolo senza pietà). Credo che tutto sommato abbia avuto ragione Puccini a restar fedele ai tempi di Sardou, anche per ragioni, come dire… astronomiche: non dimentichiamo che siamo al mattino del 18 giugno, praticamente al solstizio d'estate!

Di grande interesse anche la versione originaria dell'epilogo. Illica ne voleva fare un finale à la Lucia, o Linda, o Macbeth (così scriveva Eugenio Checchi nel 1897, come ci informa sempre l'articolo di Pier Giuseppe Gillio). In realtà a me pare che il modello più calzante fosse il wagneriano Liebestod. Tosca tesse le lodi dell'amato rivolgendosi a donne preganti; poi chiude con questi versi, rivolti ad un immaginario gondoliere: Non è morto – Sai. Dorme… è stanco. Via tutti, via tutti! – L'onde dei tremuli – Canali baciano – Le vecchie istorie – Le vecchie glorie… - Non cantar gondoliero… piano, piano… - Voglio un grande silenzio a noi d'intorno – Silenzio eterno con eterno amore… (E Tosca, col cadavere di Mario in grembo, rimane immobile col dito sulle labbra nell'atto di imporre silenzio al fantastico gondoliero che essa vede nel suo pensiero). Roba da chiodi! Un monumento a Puccini per aver dato retta a Sardou, e definito 'sta roba come aria del paletot.
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25 luglio, 2010

Piccola cronaca remota dell’apertura dei Festspiele 2010 a Bayreuth

Dopo la defezione del Telramund pugliese Lucio Gallo (di cui pare nessuno si sia accorto, neanche quelli di Radio3, tranne i tipografi costretti a correggere le locandine già stampate) questo Lohengrin ha rischiato di perdere (anzitempo, smile!) anche la sua Elsa Annette Dasch. Mentre si preparava ad una delle ultime prove per il suo debutto sulla verde collina, è stata proditoriamente colpita al capo da un oggetto scagliato dal paparino di Lohengrin, tale Parsifal, evidentemente invidioso delle imprese amorose del figlio (…questa è ovviamente una ricostruzione romanzata del piccolo incidente occorso alla bella soprano).

Poi tutto si è sistemato e la kermesse ha potuto prendere il via, col solito preludio costituito dall'arrivo e dalla passerella del solito caravanserraglio dei soliti vip che, in cambio dell'enorme – per loro – sacrificio di dover sopportare ore e ore di musica – per loro - pallosa, possono sfoggiare le loro strampalate acconciature ed essere visti in tutto il mondo, senza tirar fuori un solo centesimo. Qualcuno, negli intervalli, viene anche intervistato e – toh, che strano! – racconta mirabilie anche delle più grandi idiozie viste e/o udite. Però la cosa non si ripeterà più fino al prossimo… fine luglio 2011.

In attesa che la (ormai non più) piccola Kathi decida di far irradiare anche le immagini delle rappresentazioni in mondovisione (è solo questione di tempo, di montagne di quattrini in ballo e del modo più furbo e sicuro per estorcerli a milioni di interessati, proprio nella più genuina tradizione inaugurata dal capostipite della famiglia) ci accontentiamo ancora della radio, quella cara e vecchia a MF (o addirittura in OM!) o quella nuova digitale, che ci arriva sul laptop o magari sul telefonino. Una goduria, questa! e sarà da vertigine quando il tutto funzionerà in chat, con Kaufmann che implora: Elsa, che vuoi tu osare? e una eccitata cinesina che interloquisce: La tua cosa più glande!

Non per essere maliziosi, ma l'ascolto radiofonico ha molto spesso il grande privilegio di non farci distrarre (termine politically correct per: vomitare) da immagini e scene propinate dal famoso regista-tabagista di passaggio (che si sussurra sarà richiamato nel 2013 per allestire il Ring del bicentenario. Auguri).

Esauriti gli argomenti seri, veniamo alla cronaca.

Le operazioni si aprono alle ore 15, quando le radio cominciano ad occuparsi dell'avvenimento. Alle 15:57 arrivano in diretta i primi suoni: è la fanfara che chiama il pubblico a raccolta, dal balconcino sovrastante l'ingresso. Per il primo atto ci propina il richiamo dell'Araldo del Re Heinrich:




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Poi il classico brusìo della sala, l'ingresso in incognito del Kapellmeister (il giovane di belle speranze Andris Nelsons, anche lui al debutto giù nel torrido Orchestergraben) e infine le quattro sezioni dei violini attaccano la perfetta triade di LA maggiore, seguite da flauti e oboi e poi dai quattro violini solisti, in armonici. È lo straordinario incipit, che sempre toglie il respiro.

Il Preludio scorre assai bene e Nelsons dimostra per ora di essere all'altezza del non facile compito.

Nel primo atto compare subito Samuel Youn, che impersona l'Araldo del Re: una parte per nulla secondaria, che viene sostenuta con grande dignità ed efficacia. Non altrettanto direi di Re Heinrich (l'uccellatore… di brabantini) che è Georg Zeppenfeld, poco appariscente. Come e peggio di lui Telramund che, in luogo del nostro Gallo, era Hans-Joachim Ketelsen: di casa a Bayreuth nella penultima decade e recuperato in fretta e furia, è parso incerto persino nell'intonazione.

Brava Annette Dasch, che deve aver perdonato l'invidioso – e molto provvisorio – suocero per il citato scherzetto della vigilia: voce forse non potentissima, ma assai espressiva.

Jonas Kaufmann ha mostrato i suoi ormai noti pregi e difetti: quando canta a piena voce, nulla da eccepire. Quando deve fare una mezza-voce, come all'entrata, sul saluto al cigno, emette suoni sgradevoli, a metà fra il falsetto e l'ingolato.

Ingiudicabile – per ora - Evelyn Herlitzius in Ortrud, visto che ha cantato solo nel concertato finale, che mi è parso peraltro costellato da diverse imprecisioni nelle varie entrate.

Un primo atto senza infamia né lode, accolto alla fine da applausi non proprio entusiastici e da diversi buh (immagino alla intellettualoide regìa di Neuenfels).

Nell'intervallo, a Radio3 parla, da Firenze, Daniele Spini, il quale confessa di non avere presente la faccia di Kaufmann ed è anche lui convinto che Telramund sia cantato da Lucio Gallo. Poi fa considerazioni magari anche interessanti, dialogando con Guido Bossa e Marco Mauceri che è sul posto.

Poco dopo le 18 riecco la fanfara che preannuncia il secondo atto; suonando il tema del dubbio che si è insinuato nel cuore di Elsa:




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Si inizia col duetto Telramund-Ortrud, che riserva qualche sorpresa: Ketelsen pare decisamente migliorato, mentre la Herlitzius mi delude assai, urlando gli acuti, su cui ha uno sgradevolissimo vibrato e mostrando difficoltà evidenti di intonazione negli attacchi.
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Sempre bene la Dasch e sempre uguale a se stesso Kaufmann, che spara bene i LA acuti in forte, ma continua a falsettare le frasi da cantare piano (come Komm, lass in Freude… e anche Elsa, erhebe dich… e infine Heil dir, Elsa…)
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Discreti i cori che costellano l'atto. Per l'accoglienza alla fine, idem come sopra: un isolato bravo! (ma per chi?) applausi di cortesia e un sottofondo di buh, indubbiamente per la regìa.
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Secondo intervallo: il regista Denis Krief e Marco Mauceri da Bayreuth sospettano di volontà dissacratoria da parte di Neuenfels. Krief parla di parodia e Mauceri confessa di aver chiuso gli occhi per godersi la musica. Evviva la sincerità! Finalmente si annuncia che Telramund non è Lucio Gallo!
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Alle 20:30 l'ultima fanfara per il terzo atto; che chiama tutti col tema del Gral:






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Dopo il rumoroso preludio, ecco la famosa marcia nuziale, attaccata da Nelsons con un piglio invero eccessivo: dal moderatamente mosso ha cancellato di sana pianta il moderatamente! Forse nell'allestimento di Neuenfels pioveva e il corteo doveva fare in fretta…

Il duetto Lohengrin-Elsa ripropone pregi e difetti dei cantanti, soprattutto di Kaufmann, che poi mostra il suo lato-B (quello meno presentabile) nella prima parte di In fernem Land e in seguito nel Mein lieber Schwan. Tagliate – more solito - le 97 battute che precedono l'arrivo del cigno. La Herlitzius fa ancora a tempo a urlare smodatamente le sue maledizioni, e finalmente il Gral chiude con gran fracasso.

Applausi – più o meno calorosi - per tutti i Musikanten.

Una bufera di buh per Neuenfels: meno male che a noi poveri pirla è stata risparmiata la fatica di spremerci le meningi per capire il suo Konzept!

20 luglio, 2010

Domenica 25 Bayreuth apre con Lohengrin

Fra pochi giorni Lohengrin aprirà una nuova tornata della kermesse di Bayreuth. Molto atteso il debutto di Jonas Kaufmann, che potrebbe installarsi sulla verde collina per qualche decennio, eventualmente passando – verso il 2050, duecentesimo della prima del Lohengrin - dal ruolo del protagonista a quello di Telramund, analogamente a quanto sta facendo di questi tempi il buon Topone (smile!)

L'altra ansiosa (?!) attesa riguarda, come sempre, la regìa, affidata all'ex-bambino terribile Hans Neuenfels. Che vede Lohengrin come un particolare tipo di salvatore, un consulente impegnato in un pazzo compito: risolvere un’intricata situazione in un’azienda bloccata da lotte, invidie e odio. E che opera, in un laboratorio, facendo test su animali che si vogliono umanizzare. Qualche allibratore forse offrirà di scommettere su quanti buh saluteranno l'allestimento. Ma ormai questo è ciò che rende vivace il Festival.

Per chi seguirà alla radio invece sarà interessante ascoltare la direzione musicale di Andris Nelsons, un lettone che sembra seguire le orme del suo famosissimo compatriota Mariss Jansons.

Piccola delusione per noi italiani, il mancato debutto, causa malattia (?!) di Lucio Gallo come Telramund: per sentire una voce italiana a Bayreuth bisognerà aspettare ancora…

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Soggetto e poema

Wagner scrisse in tutto 13 opere; Lohengrin rappresenta lo spartiacque fra il periodo per così dire tradizionalista della sua produzione, e quello più decisamente innovativo:

fino al 1845: Die Feen / Das Liebesverbot / Rienzi / Der fliegende Holländer / Tannhäuser

1845-1848 Lohengrin

dopo il 1849: Der Ring / Tristan und Isolde / Die Meistersinger von Nürnberg / Parsifal

Si tratta perciò di un lavoro che, pur conservando alcuni legami con la tradizione (dell'opera italiana e del grand-opéra francese) contiene i germi della concezione del dramma musicale che Wagner sta maturando e che si materializzerà, di lì a poco, con il Ring.

Il protagonista maschio (come nelle precedenti due opere) sembra essere sempre al di sopra di ogni giudizio e discussione, sia quando è un corsaro maledetto (Holländer) o quando è uno sfrenato edonista (Tannhäuser); qui invece, è addirittura una specie di angelo venuto dal cielo, a incarnare la provvidenza; ma una provvidenza misteriosa, inspiegabile, onirica e per certi versi paradossalmente persecutoria.

La protagonista femmina è vista come un oggetto passivo: nell'Holländer e nel Tannhäuser svolge il ruolo di donna pia, consolatrice e redentrice, al servizio dell'uomo sfigato e peccatore; qui è invece una donna innocente, indifesa e bisognosa di protezione, ma alla quale è negato persino il diritto di sapere chi è l'uomo mandato da Dio in suo soccorso; e il suo stesso atto di disobbedienza a tale divieto non nasce da una sua positiva volontà di emancipazione, ma rappresenta una chiara manifestazione della debolezza del suo carattere, che soggiace alla straripante personalità di Ortrud.

I cosiddetti comprimari (qui, Friedrich e Ortrud) sono invece gli autentici protagonisti drammatici, a cui Wagner affida i momenti più forti e innovativi dell'intera opera (soprattutto nel secondo atto, la cui prima scena non sfigura certo davanti a quella con cui Klingsor e Kundry apriranno il secondo atto del Parsifal); gli interpreti devono perciò essere un baritono e un soprano pesanti di assoluto valore.

Le principali novità che il Lohengrin introduce a livello musicale sono diverse.

Quasi totale abolizione dei numeri chiusi (arie, cavatine, duetti); ci sono in realtà parecchi dialoghi in musica, precursori di ciò che Wagner farà nel futuro, anche se non siamo ancora ai celebri declamati del Ring.

Della tradizione del grand-opéra, da cui Wagner sta progressivamente allontanandosi, restano qui solo i cori - peraltro già trattati in modo innovativo, nella polifonia delle voci, e che molto raramente cantano all'unisono - e l'inizio della scena finale, con bande e cavalli in palcoscenico!

Comincia a prendere corpo la tecnica dei leitmotive, temi che si legano a personaggi o situazioni e che ritornano più volte nel corso dell'opera (es.: il tema del Gral, quello di Lohengrin, il tema del divieto a chiedere l'identità di Lohengrin, il tema del cigno…); comunque, siamo proprio agli inizi, nulla di confrontabile con la mirabile tecnica di elaborazione dei temi che Wagner perfezionerà a partire dal Rheingold, ma la strada è ormai chiaramente tracciata.

L'orchestra è quella tradizionale (Wagner non ha ancora inventato le sue tubette): tuttavia l'orchestrazione e la coloritura del suono (il preludio ne è un fulgido esempio) sono già molto più avanti rispetto al Tannhäuser, che non per nulla verrà radicalmente rimaneggiato dopo quasi vent'anni dalla sua composizione.

Preludio

75 battute, in tonalità di LA maggiore, con due modulazioni (all'inizio, sulla dominante MI maggiore e - al culmine del preludio - sulla sottodominante RE maggiore).

È solo ed esclusivamente incentrato sul tema del Gral, presentato in una continua progressione del volume del suono, ma non del tempo, che deve restare sempre lento (primo test per il direttore, spesso portato invece ad accelerare) dall'inizio nei violini divisi, flauti e oboi, fino all'apogeo (a piena orchestra, piatti inclusi, a circa due terzi della durata) per poi degradare ancora fino alla fine.

(Wagner anticipa qui, in qualche modo, l'impianto del preludio del Tristan).

Atto I

L'ambientazione resta immutata per tutto l'atto (le rive della Schelde); da un lato re Heinrich con i suoi germanici (e quattro trombe sulla scena) e dall'altro i brabantini, con Friedrich e Ortrud: le due etnìe devono essere sempre ben distinguibili, perciò spesso cantano in cori separati o su linee melodiche diverse e hanno anche due diversi temi, o segnali di riconoscimento.

Tutta la prima scena è occupata da una serie di racconti: l'araldo che spiega cosa fa re Heinrich da quelle parti, il re che fa il suo discorso politico, Friedrich che presenta la falsa accusa di fratricidio nei confronti di Elsa, ancora il re che apre il giudizio, infine l'araldo che chiama Elsa a difendersi. Tutto ciò serve a farci conoscere gli antefatti ed i presupposti dell'azione: quindi si tratta di monologhi o dialoghi, in forma quasi di recitativo, dove Wagner sembra sperimentare la tecnica del declamato, qui ancora con dei risultati piuttosto modesti.

Nella seconda scena, entra Elsa e subito si cambia musica, poichè cominciano ad affacciarsi i leit-motive dell'opera: ancora prima che lei canti, già compaiono due temi, o frammenti di tema, a rappresentarne la fragile personalità e lo stato d'animo dimesso, mentre ascolta le domande del re. Poi, il racconto del suo sogno è preceduto dal tema del Gral e accompagnato da quello di Lohengrin. Ancora, dopo la reiterazione dell'accusa da parte di Friedrich, la domanda del re all'accusatore e poi ad Elsa circa la soluzione della contesa attraverso una tenzone è preceduta, in entrambi i casi, da un possente motivo, esposto da tromboni e tube, che anticipa quel tema del patto che per tutto il Ring tornerà infinite volte a rappresentare la forza e l'inesorabilità della legge e dell'autorità costituita (come si vede, il Lohengrin contiene tanti indizi di ciò che presto si manifesterà apertamente nella produzione di Wagner).

Ancora il tema del sogno ricompare ad anticipare la risposta di Elsa su chi sarà il suo cavaliere. Poi Wagner mostra di sapere come far stare col fiato sospeso gli spettatori, riempiendo di suspence (Elsa che deve invocare più volte il suo salvatore) gli attimi che precedono l'arrivo di Lohengrin sulla barchetta trainata dal cigno. Lohengrin è accolto da un coro generale, che è però suddiviso così: primo coro maschile, secondo coro maschile, entrambi con quattro linee melodiche, e coro femminile, con due linee melodiche; si arriva fino a otto diverse voci sovrapposte!

La terza scena si apre con il tema del Gral nei violini, che introduce i saluti di Lohengrin: al cigno, che lo ha trainato fin lì - ed il relativo tema mostra chiaramente la sua derivazione da quello del Gral (i legami cigno-Gral torneranno molti anni più tardi, nel Parsifal) - e al re, col coro misto che lo accompagna, su sei diverse linee di voci. Poi l'offerta di protezione e di amore di Lohengrin, ancora sul tema del Gral, che Elsa accetta (accompagnata dal tema del suo sogno) ma con la condizione che lei mai gli chieda chi egli sia. E il severo tema del divieto, che si compone di due sezioni, e del cui incipit si ricorderà Ciajkovski nel suo Lago dei Cigni (toh!) appare qui per la prima volta, reiterato da Lohengrin con crescente fermezza:







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Un coro misto a sei voci suggella la dichiarazione d'amore di Lohengrin per Elsa, riprendendo ed estendendo il tema già esposto al momento del saluto di Lohengrin al re.

Lohengrin proclama di scendere in campo per Elsa contro Friedrich, che il coro dei suoi brabantini cerca di dissuadere, cantando diviso in ben sei parti! Friedrich insiste e quindi si prepara la tenzone: l'araldo del re ha ancora occasione di occupare il proscenio, quasi scortato dalla prima sezione del tema della legge, che ne sottolinea le raccomandazioni ai duellanti (come si vede, la sua è una particina non proprio trascurabile, come si constaterà anche nel secondo atto).

Il re fa una lunga invocazione al cielo (e il Gral fa subito capolino) perchè la vittoria premi il buon diritto, poi inizia un grande concertato a cinque: Elsa, Lohengrin, Ortrud (che qui canta per la prima volta) Friedrich e il re, cui presto si aggiungono il coro maschile e poi quello femminile, per un totale di nove linee melodiche! Finalmente si arriva al duello Lohengrin-Friedrich, che è davvero rapidissimo (solo 21 battute di musica) proprio come lo sarà quello Siegfried-Fafner nella seconda giornata del Ring.

Dopo il grido di vittoria di Lohengrin e della folla, Elsa alza il suo canto di ringraziamento e di giubilo (qualcosa di simile a ciò che farà Eva, nei confronti di Sachs, nei Meistersinger). Poi inizia il colossale concertato finale, con i cinque protagonisti - ciascuno dei quali esprime il proprio stato d'animo - e i cori, dove si raggiungono anche le dieci linee melodiche sovrapposte! (soltanto nella scena della baruffa nei Meistersinger, Wagner farà ancor di peggio).

Il tema di Lohengrin, in tutti i fiati, sostiene l'ultima parte del concertato e introduce la cadenza finale (con gli ottoni a produrre un grandissimo fracasso).

Atto II

Non c'è dubbio che questo sia l'atto drammaticamente e musicalmente più intenso (quindi, per gli interpreti, il più arduo da eseguire e, per lo spettatore, il più impegnativo da seguire, anche per la sua lunghezza) dell'intera opera. Forse non è un caso che Wagner lo abbia lasciato per ultimo, in fase di composizione, per meglio farlo maturare nella sua mente (effettivamente qui si sente che il Ring, cioè il futuro, è ormai vicino).

Il preludio orchestrale (degno dei secondi atti del Siegfried o del Götterdämmerung) è caratterizzato dall'esposizione di una lunga melodia negli strumenti gravi, che ben rappresenta musicalmente la personalità oscura e demoniaca di Ortrud; tale melodia è all'inizio interrotta da due spettrali incisi del tema del divieto, suonati dal corno inglese (anche la scelta di questo strumento è illuminante, poichè conosciamo il ruolo che esso avrà poi nel Tristan). È notte, siamo nel centro di Antwerp, fra palazzi e cattedrali (alcuni strumenti sono posti sulla scena, perchè il loro suono deve provenire dall'interno dei palazzi).

La prima scena è davvero il segnale della svolta che Wagner comincia ad imprimere alla sua arte: il dialogo tra Friedrich e Ortrud, pur con qualche cedimento a vecchi stilemi (un paio di versi di Friedrich ripetuti e il canto finale di vendetta dei due all'unisono) è di una potenza drammatica straordinaria ed inoltre mostra con quale sapienza Wagner sia ormai in grado di padroneggiare tutti i risvolti psicologici dei personaggi e dell'azione: lo sfogo di Friedrich contro Ortrud, responsabile delle sue sfortune, poi lei (che anticipa addirittura certi tratti della Kundry del Parsifal) che comincia a tessere la tela della sua vendetta, dapprima riportando al suo fianco il marito ormai sconfortato e poi convincendolo che è Elsa l'anello debole della catena dei loro nemici, sulla quale esercitare quindi la massima pressione psicologica, affinchè infranga il divieto impostole (oboi e clarinetti, poi il corno inglese, ce ne ripropongono il lugubre tema).

Nella seconda scena, che si apre con l'apparizione di Elsa al balcone del palazzo (accompagnata da un frammento della melodia che sosterrà il corteo nuziale, alla fine dell'atto) Ortrud passa all'azione, facendosi riconoscere da Elsa e cominciando ad insinuare in lei dei vaghi dubbi circa la sua futura felicità: nelle sue parole si odono invocazioni a divinità (Wodan, Freia) che ci diverranno familiari nel Ring, mentre qui rappresentano le religioni antiche e le credenze pagane, cui Ortrud è legata, contrapposte al moderno cristianesimo impersonato da Lohengrin. Senza rendersene conto, Elsa sta cadendo nella rete di Ortrud, che procede nella sua azione demolitrice con insinuazioni sempre più pesanti sull'identità di Lohengrin, e lo fa cantando sul tema del divieto, sempre sottolineato dal perfido suono del corno inglese!

Elsa invita Ortrud a seguirla nel palazzo, cantando sul frammento di una melodia che tornerà nel terzo atto, all'inizio del suo dialogo notturno con Lohengrin. La scena si chiude con un duetto delle due, sostenuto e poi concluso da una lunga e bellissima linea melodica, e con Friedrich che si compiace del fatto che l'infelicità stia entrando in quella casa.

Da qui in avanti e per le restanti tre scene, l'atto è tutto un susseguirsi di momenti drammatici, che ne interrompono altri più sereni o maestosi (caratterizzati dalla presenza costante dei cori): sono Ortrud e Friedrich a rompere più volte la solennità dei festeggiamenti, tessendo la loro trama volta a soggiogare la fragile personalità di Elsa, continuando a insinuarle atroci dubbi sull'identità di Lohengrin (a proposito, Lohengrin si identificherà come tale solo alla fine dell'opera; prima, nessuno conosce il suo nome; il parallelo con il primo atto della Walküre - Siegmund - è evidente).

Vediamo: la terza scena rappresenta l'alba del nuovo giorno e la città che si rianima (con i due cori maschili, divisi in otto voci) poi l'araldo che ha ancora modo di mettersi in bella mostra, annunciando i proclami del suo re. Ancora i due cori che acclamano Lohengrin, prima dell'intervento drammatico di Friedrich, che per ora si fa riconoscere solo dai suoi fidi, promettendo vendetta contro lo straniero innominato.

La quarta scena si apre con Elsa che esce dal palazzo, scortata dai cori maschili, su una dolcissima melodia, ondeggiante dal MIb al MI naturale al MIb, che era fugacemente apparsa all'inizio della seconda scena. Si aggiunge poi anche il coro femminile e dei fanciulli, fino alla nuova rottura, clamorosa questa, da parte di Ortrud, che affronta Elsa pubblicamente. Elsa cerca di reagire, spalleggiata dai cori, ma Ortrud ha ormai scardinato le sue certezze…

Scena quinta: arriva il re, poi Lohengrin, in cui Elsa cerca conforto e protezione. Si avviano maestosamente verso la cattedrale, ma ecco la nuova irruzione di Friedrich, che questa volta affronta tutti a viso aperto, reclamando giustizia contro le arti magiche di Lohengrin (ed è nientemeno che il motivo della legge, comparso nel primo atto, a sottolinearne, per ben due volte, le pretese). Lohengrin si difende a sua volta, dichiarando che solo ad Elsa è tenuto a rivelare la sua identità; e la prima sezione del motivo del divieto, sempre nel timbro cupo e rabbrividente del corno inglese, sostenuto dal clarinetto basso e dai fagotti, si insinua ancora malignamente, quasi a rappresentare musicalmente lo strumento di questa specie di lavaggio del cervello, cui Elsa è sottoposta e a cui per il momento resiste (ma ormai sarà ancora per poco…)

Inizia ora un concertato generale, che sarà chiuso dal tema del divieto: i cinque personaggi principali vi esprimono i rispettivi stati d'animo, con i cori maschile, femminile e dei fanciulli (significative le parole di Ortrud, poi riprese da Elsa: "il dubbio sta nel profondo del cuore").

Poi il re acclama ancora Lohengrin, ma in quel mentre ecco una nuova drammatica intrusione, ancora di Friedrich, che stavolta avvicina Elsa, rimasta sola in disparte, e le propina le ultime insinuazioni su Lohengrin (promettendole inoltre di intervenire quando lei e lo sposo saranno soli, la notte successiva) prima che questi lo allontani e conduca Elsa con sè, avviando la fine dell'atto, che è maestosa e toccante, con il corteo nuziale che entra nella cattedrale accompagnato da una musica celestiale, organo compreso, ma tuttavia velata dall'immanente presenza di Ortrud, col tema del divieto che si ripresenta per l'ennesima volta, ed in modo a dir poco tracotante, fortissimo in trombe e tromboni, poco prima della chiusa.

Atto III

Subito dopo il vigoroso preludio (molto trascinante, ma per la verità piuttosto fuori dal contesto, quasi un ultimo cedimento agli stereotipi del grand-opéra) ecco la prima scena, con la famosa marcia nuziale, che si dovrebbe sempre eseguire con la massima delicatezza e leggerezza (ma ahinoi, quante volte sarà stata strapazzata da beceri organisti di parrocchia, che la suonano invece come se dovesse accompagnare una sfilata di panzer!)

Poi la seconda scena, il dialogo Lohengrin-Elsa, in un crescendo drammatico fino al suo apice (la domanda proibita sulle labbra della donna, che infrange il divieto…) e all'irrompere di Friedrich, trafitto da Lohengrin; il lungo dialogo fra Elsa e lo sposo innominato traccia già la strada su cui, in futuro, si muoveranno altri duetti wagneriani: Siegmund-Sieglinde e Tristan-Isolde.

Dapprima i due si inseguono sullo stesso tema musicale, chiudendo la frase su una cadenza classica e tradizionale, verdiana si direbbe. Poi Lohengrin ne introduce un altro, cui Elsa risponde col ricordo del suo sogno (e il tema di Lohengrin si affaccia negli strumentini…) Ma ecco che in lei comincia ad affiorare l'ansia: come risuona dolce il mio nome sulle tue labbra, dice allo sposo, ma quando potrai tu sentire il tuo dalle mie?

Lohengrin cerca di sviarla intonando una nuova, dolcissima melodia, ma Elsa è ormai incamminata sulla china che la perderà… ed infatti il tema del divieto si insinua ancora, durante la sua replica, sempre nel corno inglese, spalleggiato dal clarinetto e dall'oboe.

Lohengrin cerca di fare ancor meglio… anche musicalmente, intonando un nuovo bellissimo tema (di cui Richard Strauss si ricorderà in Salome) ma ottiene l'effetto opposto, poichè è costretto a motivare - e quindi ribadire - il suo divieto (il cui tema gli strumentini sottolineano impietosamente).

Lohengrin afferma, stentoreo, che lui viene da un mondo di luce e amore (e lo fa quasi sulle stesse note con cui, più tardi, rivelerà il suo nome!) Ma Elsa sta ormai cedendo, e canta la sua angoscia, sempre più fuori di sé: adesso - sul relativo tema - vaneggia del cigno che torna a riprendersi Lohengrin e a portarlo lontano da lei… infine sbotta: voglio sapere chi sei! e il tema del divieto letteralmente esplode, fortissimo nei corni, a spalleggiare gli strumentini: la frittata è fatta, Elsa sciorina tutte le domande proibite, mentre a Lohengrin non resta che pronunciare frasi smozzicate di delusione e di dolore.

A questo punto Wagner ci propone uno dei suoi magistrali colpi di teatro: Friedrich, come aveva promesso ad Elsa alla fine del secondo atto, entra con i suoi compari, Elsa lancia a Lohengrin la spada, con cui Friedrich viene steso all'istante (qui val la pena di notare un particolare: è il timpano a sottolineare, con i suoi rintocchi lugubri, la morte di Friedrich; Wagner utilizzerà questo strumento altre volte, in simili circostanze: nel Rheingold, ad accompagnare gli ultimi rantoli di Fasolt, ammazzato dal fratello Fafner, nella Walküre, allorquando Hunding verrà annichilito da un solo gesto di Wotan, nel Götterdämmerung, per raccogliere l'ultimo pensiero per Brünnhilde di un Siegfried morente).

A questo punto ritorna, ma sfiorito e dolente, uno dei temi che avevano poco prima sottolineato la felicità di Elsa e Lohengrin. Elsa implora pietà, ma le risponde, nientemeno!, che il tema della legge. Poi è sul tema di Ortrud che inizia la transizione verso la scena successiva: Lohengrin annuncia che spiegherà tutto davanti al re e al popolo, e lo fa sul tema del divieto, che poi accompagna Elsa e infine, prima fortissimo, poi più smorzato, seguito dal Gral, nei tromboni, chiude la scena.

Nella terza scena si torna quindi sulle rive della Schelde, dove arrivano le masse (prima i brabantini, a cavallo!, divisi in quattro gruppi che sopraggiungono da direzioni diverse, poi i germanici col re) che intonano un colossale inno, puramente strumentale, con fanfare, squilli di tromba e secchi colpi di timpano in gran quantità (e con strumenti che suonano anche sulla scena, compreso un tamburo a tracolla). Per distinguere le varie bande, Wagner le fa suonare in tonalità diverse: la prima esecuzione dell'inno è in MIb maggiore, poi c'è una transizione a RE maggiore e da qui a FA maggiore, tonalità in cui l'inno viene presentato per la seconda volta; adesso si passa a MI maggiore e da qui al solenne DO maggiore, esposto dalle truppe del re, e che sorregge la terza ed ultima replica dell'inno, chiusa dall'intervento del coro maschile al completo. (Non c'è dubbio che questa scena sia un estremo tributo di Wagner alle regole del grand-opéra e certo, se qui il direttore si lascia andare, il rischio di cadere nel grossolano e nel banale è altissimo).

Ora siamo alla stretta finale: il saluto del re, il trasporto della salma di Friedrich, l'arrivo di Elsa, accompagnata dall'ultima apparizione del tema del divieto (che il ritmo qui ci rappresenta come un vero e proprio fardello, pesante e difficile da sopportare), l'arrivo di Lohengrin, come sempre accompagnato dal suo tema e dai cori al completo.

Poi, dopo aver annunciato che non potrà restare in quella terra, e appoggiandosi su un poderoso intervento del tema della legge, Lohengrin chiede e ottiene assoluzione per l'uccisione di Friedrich, quindi dichiara rotta la sua unione con Elsa, per colpa di lei, che ha tradito il giuramento fatto, e si appresta a fare le sue rivelazioni…

È il tema del Gral, sempre in LA maggiore, a introdurre l'auto-identificazione di Lohengrin, dove viene sottoposto ad una serie continua di modulazioni, lungo il racconto della storia e del significato di Monsalvat e dei cavalieri che vi operano con Parzival, padre di Lohengrin, il cui tema esplode nel momento in cui il suo nome viene finalmente rivelato a tutti. Quindi, il commiato di Lohengrin da Elsa e dal re (purtroppo questa parte, caratterizzata anche da un concertato a tre voci, più i due cori, viene spesso e volentieri – e financo a Bayreuth - tagliata da direttori che vanno ben al di là della volontà del compositore).

L'arrivo del cigno, accolto da Lohengrin, con il suo tema fattosi quasi lamentoso, l'ultima invocazione (quasi un'imprecazione, per la verità) e l'addio di Lohengrin ad Elsa, poi ancora un sussulto drammatico: è l'estremo colpo di coda di Ortrud, il cui sfogo, la sfrontata confessione e il grido di vendetta degli déi pagani contro i moderni miscredenti, portano alle battute finali: la trasformazione del cigno nel piccolo Gottfried, il fratello del cui omicidio Elsa era stata fraudolentemente accusata, la partenza di Lohengrin, sempre accompagnato dal suo tema, Elsa che spira e il Gral che chiude con un fortissimo LA maggiore.