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15 dicembre, 2012

Ultimi strascichi del Freudhengrin della Scala


Ieri sera, in una Scala non proprio esaurita (solo causa-neve?) e ulteriormente spopolatasi nei due intervalli, terza rappresentazione dell’opera che ha inaugurato l’ultima celebrazione centenaria di Wagner (+Verdi) dell’era moderna. Perché dico ultima? Perché son pronto a scommettere (oh... tutte le ricchezze di Berlusconi, mica noccioline eh!) che nel 2113 e oltre, di Wagner e Verdi (e forse, ma questo non è sicuro, anche del suddetto Berlusconi) si sarà persa ogni e qualsivoglia traccia. Gli unici teatri d’opera in attività saranno piccole sale esclusive di Pechino e Shanghai frequentate dall’élite del PCC, dove si rappresenterà ininterrottamente Turandot, tassativamente col finale di Hao Weiya, e con Calaf cantato alternativamente da tenori nordcoreani e tibetani.  

Dell’allestimento di Guth si è già (e ho già) scritto abbastanza, e certo non è che a teatro, dal vivo, le cose siano cambiate rispetto a quanto visto in TV. La sola trasposizione dell’opera in epoca moderna ne comporta l’irrimediabile castrazione (via il testicolo storico, via il testicolo religioso, hai detto niente!) Dopodiché tutto si focalizza su… Hauser e Freud, cioè sulla gratuita psicanalisi di Lohengrin ed Elsa.

Parliamoci chiaro: sovvertire la rappresentazione dei caratteri dei personaggi di un’opera - da come emergono in modo inequivocabile (parole e musica) dal testo originale dell’Autore – per inoltrarsi nella sfera del loro subconscio, o del loro inconscio, è operazione massimamente riprovevole, truffaldina e disonesta, in quanto consente al regista di cambiare a suo piacimento (quindi subdolamente, perché nessuno lo può contraddire, fatti alla mano) e addirittura di stravolgere completamente quei caratteri, con ciò stravolgendo anche l’intero impianto e l’intera natura di quell’opera.

Una volta sconfinato sul terreno freudiano, Guth potrebbe tranquillamente proporci Lohengrin nei panni di Hitler (che pure subì, come Hauser, una reclusione fisica, prima di essere cooptato come Führer) ed Elsa in quelli di Winifred Wagner (che ben sappiamo quale infanzia travagliata avesse vissuto) trasformando l’opera nel racconto delle compromissioni di Bayreuth col Terzo Reich (il che non sarebbe poi nemmeno una novità…)

Per di più, questo trucco è strumento miserabile, perchè buono per tutte le stagioni e per tutte le opere che hanno un tenore e un soprano per protagonisti: applicandosi indifferentemente a Lohengrin-Elsa come ad Alfredo-Violetta o a Pollione-Norma, a Tamino-Pamina e persino a Lindoro-Rosina…      

Ma non c’è bellezza nè genialità di presentazione che possa mascherare la (quasi) totale incoerenza fra l’originale e… l’originato. L’unica eccezione è lo squarcio finale del second’atto, dove la recitazione dei personaggi è consistente con l’originale, ma per la semplicissima ragione che lì era stato proprio Wagner ad introdurre una buona dose di psicanalisi! E a parte questo scorcio, se a Wagner fosse stato chiesto di musicare il soggetto di Guth, non avrebbe tenuto buona una sola nota di quelle che vergò sui pentagrammi del suo Lohengrin. È la musica di Wagner che sconfessa ignominiosamente un Konzept siffatto: it’s the music, stupid! In definitiva, qui da psicanalizzare sarebbe il regista, per scoprirne le remote, oscure e rimosse ragioni del suo disprezzo per questo capolavoro. Siamo quasi ridotti a invocare: aridatece li topi…!

Passando alla musica, ancora un’osservazione che si ricollega alla regìa: dopo la prima, si sono alzate alcune voci dispiaciute per la forzata assenza della Harteros. La cosa inquietante è che il rammarico di costoro non riguardasse l’interpretazione della Elsa di Wagner, ma quella della Elsa di Guth! O tempora, o mores! (ecco perché un tri-centenario non ci sarà…)
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Di Kaufmann ormai si sa tutto ed è inutile sperare che lui cambi (in meglio, s’intende): un grande, anzi grandissimo attore che canta assai bene quando la parte prevede voce aperta e spiegata; per il resto canta di… esofago (o al massimo di naso).

La Harteros essendo tuttora in convalescenza (le presenti nevicate le daranno un motivo in più per disertare anche le restanti repliche? smile!) è stata la Petersen ad impersonare Elsa, facendo quasi quasi rimpiangere la pur modesta Dasch: la dote naturale di voce c’è, e come, ma è tutta potenza che… non si scarica a terra, come direbbe il talent-scout Briatore.

Herlitzius come al solito: ci mette tutto il suo mestiere, che non è poco, però non sempre la foga dà buoni risultati sul piano squisitamente musicale. Comunque ne esce dignitosamente e quasi più applaudita del bel Jonas.

Tomasson è costretto a sbraitare e schiamazzare a più non posso, per non far la figura del… pesce: e così, matematicamente, alla fine (e meno male per lui che è quella del secondo atto, smile!) più non ne può, accidenti a lui.

La professionalità di Pape garantisce qualcosina in più del minimo sindacale, ma francamente non è il massimo per un Teatro che ha le pretese di… Lissner.

Lucic è appena appena meno-peggio di Tomasson, anche se ne mutua l’espressione, costantemente quanto gratuitamente truce; ci dobbiamo accontentare?

I quattro brabantini passano davvero inosservati e soprattutto… inascoltati (smile!

Il coro di Casoni così-così, non so se per colpa della regìa che lo relega quasi sempre all’interno di… ma cos’era, Alcatraz o un Holiday Inn anni ’50?    

Barenboim non mi ha particolarmente entusiasmato: ho l’impressione che – avendo mille impegni, musicali e soprattutto extra - faccia ormai della comoda routine, vivendo sugli allori e cercando di adattarsi alle qualità non superlative della sua orchestra, invece di provare ad alzarne il livello (ma appunto: per questo servirebbe… provare!) Imperdonabile il fracasso del finale primo, dove ha coperto tutte le voci (a parte quella della Petersen). In più ha voluto far vedere (anzi… sentire) che lui rispetta alla lettera la partitura (sarà mica una frecciatina a Guth? smile!) e così nella scena finale, oltre a quelle che suonavano ai due lati in palcoscenico, ha piazzato due coppie di trombe – per nulla impeccabili, fra l’altro - anche in loggione, col risultato di rompere i cog… timpani a qualche decina di spettatori colà dimoranti. Peccato che le didascalie di Wagner prescrivano, oltre alla dislocazione a quadrilatero delle trombe, anche quella di cori e di… cavalli (sic! e Wagner pretendeva fossero in carne ed ossa!) Insomma, questa di Barenboim mi è proprio parsa una gigionata pazzesca.
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Concludo ripetendo una litania che ormai sta annoiando (accezione anglosassone)  anche me medesimo: tra allestimenti lunatici e prestazioni musicali appena sufficienti, l’andazzo scaligero si mantiene su un livello di performance/price ampiamente deficitario. Ho ancora davanti agli occhi (e nelle orecchie) l’accoppiata lagunare Otello-Tristan, che pure non fu certo stratosferica: ebbene, il raffronto è (per monsieur Lissner) piuttosto imbarazzante.

7 commenti:

Moreno ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Moreno ha detto...

Caro Daland,
non ho ancora visto lo spettacolo dal vivo però, di fronte a valutazioni così dure, mi chiedo – e qui mi muovo anch’io per qualche istante sul terreno freudiano – se esse non nascano da un eccesso d’amore nei confronti del nostro teatro cittadino.
Non è che noi milanesi – nei confronti della Scala – nutriamo delle aspettative eccessive destinate inevitabilmente ad essere deluse? La severità dei giudizi nei confronti degli spettacoli scaligeri (e l’indulgenza riservata invece ad altri teatri) non scaturisce forse da attese esagerate?
Questa riflessione nasce dalla lettura di un articolo apparso lo scorso 11 dicembre nella sezione Arts del Financial Times: “Brilliance amid the hullabaloo”
http://www.ft.com/intl/cms/s/2/ae1d6440-42b9-11e2-a3d2-00144feabdc0.html#axzz2FDnxB8Z1

con il quale il critico musicale Shirley Apthorp assegna il massimo dei voti (cinque asterischi su cinque, fatto molto raro) allo spettacolo di venerdì 7 dicembre e si lascia andare ad elogi come:
“Intendant Stéphane Lissner’s appointment of Claus Guth and his team reads like a summation of all he has done in the past seven years to win over the Milanese audience for opera stagings that are complex, profound, and well-made – a very far cry from the stand-and-deliver style of the Muti era.”
E successivamente:
“Guth’s production is a bleak, meticulous examination of Bismarck-era militarism and its emotional consequences. Elsa and Gottfried are children of a system so ruthlessly strict that both retreat into an inner world of fantasy, dissociation and hysteria. This is a society where madness is regarded with dawning scientific curiosity but treated with barbarity, and Christian Schmidt’s set is a masterpiece of Gothic associations, from the mad-house to the false promise of freedom on a reed-fringed shore.”
Per finire con: “Lohengrin is Barenboim’s party piece, from the ethereal delicacy of the overture to the marshal thunder of Heinrich’s army, and the Scala orchestra plays for him as if it were born to it.”
Il Financial Times è uno dei più influenti quotidiani del mondo, solitamente molto severo nei confronti dell’Italia.
Siamo sicuri che uno sviluppo eccessivo delle nostre facoltà critiche non finisca poi con il nuocere alla capacità di godimento?
Saluti,
Moreno

daland ha detto...

@Moreno
Intanto grazie per il commento e la segnalazione!
Leggo spesso i commenti di questa signora berlinese di adozione, che francamente mi sembrano spesso eccessivamente "politically correct" (ha dato 4 stelle anche alla recente Traviata di Napoli, per dire!)
Inoltre per lei tutto ciò che rispetta gli originali è "antidiluviano" (vedi ancora Traviata al SanCarlo e Boccanegra a Roma). Lei è entusiasta di qualunque cosa facciano i vari Guth & C. L'altr'anno fece un panegirico anche ai "topi" di Neuenfels!.
Una poi che parla in quei termini della Dasch... suvvia!

Ciao, e ti assicuro che il mio non è inconscio eccesso di amore per la Scala, ma semplici (mie personali, ovviamente) constatazioni!

mozart2006 ha detto...

Comunque Kaufmann non canta in tedesco ma in dialetto bavarese!

daland ha detto...

@mozart2006
Beato te che conosci quella lingua, così puoi apprezzare ancor di più quest'opera, che come noto era proprio stata da Wagner tradotta in bavarese per il cigno Ludwig!
Ciao!

mozart2006 ha detto...

Sinceramente, io la sera del 7 dicembre ero soprattutto depresso dal sentire una musica così bella massacrata dalla gola di Kaufmann; ma per favore ma di cosa stiamo parlando… “Kaufmann superlativo” dicono in giro? Kaufmann non è neanche un cantante; Kaufmann è un attore che una volta salito sul palcoscenico intona il testo sull’ accompagnamento orchestrale, ma non ha niente a che vedere con il canto; e non sto parlando di scuola antica, di scuola italiana, tedesca o russa, sto parlando semplicemente di canto. Non c’ è traccia di organizzazione vocale in quella gola. Kaufmann sta al canto come Fantozzi a una finale olimpica dei 100 metri. Ne esce vivo solo perchè al contrario di Tomasson, riesce a non stonare troppo. Poi è ovvio che un pubblico che applaude le urla di Tomasson, in modo direttamente proporzionale decreti un trionfo a Kaufmann, ma questo non vuol dire che in questa produzione si sia rasentata la decenza.

daland ha detto...

@mozart2006
Insomma... lo mandiamo a cantare In München steht ein Hofbräuhaus all'Oktoberfest!
ciao!