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29 ottobre, 2023

L’amore dei tre Re alla Scala


Con più di tre anni di ritardo (causa Covid) sulla data originariamente prevista, è approdato alla Scala L’amore dei tre Re di Italo Montemezzi. Superstiti delle cancellate recite del giugno 2020 sono: il regista Àlex Ollé (Fura dels Baus) e due interpreti del dramma: Giorgio Berrugi e Giorgio Misseri.

 

Opera che ebbe un buon successo nel 1913 (proprio alla Scala con Serafin, e al MET per molti anni a partire da Toscanini) e che tornò alla Scala per altre tre produzioni nell’anteguerra (‘26, ’32 e ’37) e due nell’immediato dopoguerra (‘48 e ’53, come documenta l’Archivio storico). Poi alla Scala è caduta quasi nel dimenticatoio, se è vero che viene riproposta solo oggi, a distanza di 70 anni! In Italia e nel mondo viene ancora rappresentata, ma con il contagocce, e una qualche ragione di ciò ci dovrà pur essere: forse che Montemezzi non era… Strauss?! 

 

Il libretto, derivato per sottrazione dal testo del dramma in versi di Sem Benelli del 1910 è un velleitario miscuglio di classicismo, romanticismo e verismo, con una scrittura dannunziana: il finale ci ricorda Romeo&Juliet, Adriana Lecouvreur e pure il Trovatore (più la Cena dello stesso autore, che Giordano musicherà anni dopo…)

 

Quanto ai personaggi della vicenda medievale, siamo allo standard più rigoroso del melodramma ottocentesco: soprano e tenore che trescano alle spalle del baritono marito di lei; e basso padre-padrone del baritono che alla fine punisce tutti quanti (compreso, involontariamente, il fig!io).

 

I tre Re sono in realtà altrettanti signorotti o cavalieri medievali, due dei quali (Avito e Manfredo) amano sul serio e perdutamente la bella Fiora (che riama il primo ma viene ovviamente sposata al secondo) mentre il terzo (Archibaldo, padre di Manfredo) più che amarla (ma forse un po’ di libidine per lei la conserva…) la sorveglia come un pitbull e, coltala in flagrante adulterio con… lui non sa chi (essendo cieco) la fa secca senza complimenti. Poi per individuare il traditore cosparge le labbra della morta di veleno e così il povero Avito, che viene a baciarne il cadavere, fa una brutta fine, sotto gli occhi del rivale Manfredo. Il quale peraltro, da persona sensibile, saputo dal rivale che Fiora amava costui e non lui, si immola a sua volta baciando la salma. Suo padre arriva e lo prende per il fedifrago caduto finalmente in trappola, per poi scoprire che invece si tratta del proprio figlio! Pace e Amen…

 

Le variazioni fra il testo del dramma e il libretto si possono così riassumere (qui una minuziosa comparazione fra i due testi): nell’Atto primo vengono cassati buona parte dei ricordi del vecchio Archibaldo, disceso come invasore dal barbaro Nord e stabilitosi nel Sud cristiano, nella cui civiltà è cresciuto il figlio sognatore, oltre che guerriero a sua volta, Manfredo; poi parte del suo colloquio con il servitore Flaminio, dove emergono le circostanze che hanno portato alla situazione attuale; ancora una buona parte dell’incontro fra i due amanti Fiora e Avito (dove si scimmiotta Tristan, come succederà anche nell’atto secondo…) con le accuse che Fiora porta all’amato-amante, suo promesso, per non aver impedito che lei fosse data in pegno ad Archibaldo e in moglie al figlio Manfredo; poi tagli allo scontro fra Archibaldo e Fiora, sospettata di tradimento, dove emerge una malsana attrazione-repulsione del vecchio per la giovane e bella nuora!; infine tagliato pesantemente anche l’incontro tra padre e figlio, dove il primo avverte il secondo dei sospetti sulla moglie fedifraga e il secondo non sa spiegare questa severità e questi sospetti (!?)

 

Nell’Atto secondo sono tagliati: l’intera parte iniziale, con gli avvertimenti di Flaminio, guardia del castello, ad Avito (che smania per rivedere Fiora) per suggerirgli prudenza; e poi il lungo incontro fra Archibaldo e Manfredo, dove nel figlio comincia ad emergere qualche dubbio su Fiora, alimentato dai sospetti del padre; ancora buona parte dell’incontro fra Manfredo e Fiora, dove il giovane esterna il suo disagio di fronte alla freddezza della moglie (!); tagliata anche parte del nuovo incontro fra Fiora e Avito (sempre Tristan…); infine parte di quello fra Archibaldo e il figlio, a omicidio compiuto, dove emerge l’abissale distanza fra la cruda e barbara natura del padre e la cristiana carità del figlio.

 

L’Atto conclusivo vede la totale sostituzione della scena iniziale, presso la camera ardente di Fiora, dove nel dramma compaiono dapprima una madre con la figlioletta e poi un militare e un fabbro: rimpiazzata da un coro e dalle invocazioni funebri del popolo. Tagliato infine parte dell’incontro padre-figlio, con la rabbia del primo per la natura cristiana del secondo (!)

 

Come si vede, differenze non da poco, che danno al libretto un taglio meno crudo rispetto al dramma originale, anche se va riconosciuto a Benelli di aver agito con plausibile buonsenso, per preservare per quanto possibile l’integrità del soggetto e nello stesso tempo stringerne i tempi, che nell’opera sono davvero serrati (tre atti per 100 minuti in tutto).   


Quanto alla musica, va inoltre riconosciuto a Montemezzi l’intento di coniugare verismo a wagnerismo (niente numeri chiusi, se si esclude l’iniziale esternazione di Archibaldo; misurato impiego di larve di Leitmotive) pur con risultati altalenanti. Le parti più interessanti sono quelle di natura sinfonica (introduzione degli atti e brevi transizioni fra le diverse sezioni dell’opera) dove il contemporaneo Strauss fa capolino qua e là (massimamente poi nelle ultime battute del dramma).

 

Per ciò che attiene alle voci, proprie del verismo sono le parti assai impervie di tenore e soprano, appena più abbordabili quelle di baritono e basso. Limitato in quantità e difficoltà l’impegno del coro.   


Insomma, un onesto né-carne-né-pesce, che forse non meritava né il successo in anteguerra, né il successivo dimenticatoio… Prendiamolo per quello che è e ringraziamo la Scala per avercelo riproposto dopo 14 lustri!

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Intanto una domanda: l’intera opera dura 100 minuti: ora, perché mai fare un intervallo di 25 minuti prima del terz’atto di 23 minuti? Perfida risposta: lo impone l’appaltatore dei bar!!! Che – di questo passo – imporrà un intervallo anche per Rheingold, Salome, Elektra e… (Pare che siamo sulla buona strada che riconduce al lontano passato, quando a teatro si andava per mangiare, bere, spettegolare e… amoreggiare, con sporadiche pause di attenzione per ciò che accadeva in palcoscenico.)

Comincio dall’allestimento di Ollè per elogiarlo senza riserve: pieno rispetto di spirito e lettera del libretto, ambientazione cupa come si addice a questo nerissimo dramma. Scena (Alfons Flores) con una base praticamente fissa: foresta di catene che pendono dall’alto fino al suolo (sono la metafora della prigione in cui si svolge il dramma); nel primo atto un separè del palco ci mostra la camera da letto dove Fiora e Avito amoreggiano, che diventerà camera ardente nel terz’atto. Nel secondo atto dallo stesso pavimento emergono due scale e un ripiano che rappresentano la terrazza e la torre del castello: una delle scale, dalle quali si sale verso il ripiano, verrà spostata in alto nel terzo atto, a rappresentare la scala da cui si scende dal castello alla cripta sottostante, dov’è composta la salma di Fiora.

I costumi (Lluc Castells) sono piuttosto generici: una tunica chiara per Fiora e giacconi/cappotti scuri per gli altri. Le luci (Marco Filibeck) creano in realtà… il buio in cui è immerso psicologicamente l’intero dramma.

Assai curata la gestione dei personaggi, singoli e in gruppo. Una curiosità, un dettaglio ma significativo: prima di mostrarci l’atto con cui Archibaldo cosparge di veleno la bocca della defunta Fiora, Ollè fa chinare il vecchio sul cadavere per poi baciarne proprio la bocca. Un’invenzione gratuita? Al contrario, ci conferma i sospetti (annacquati nel libretto rispetto al testo originale) sulla possibile libidine del suocero per la nuora!  
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Purtroppo, note non altrettanto liete sul fronte musicale. A partire dalla direzione di Steinberg, che ha forse calcato troppo la mano in chiave verista, con qualche fracasso di troppo che a volte ha coperto le voci.

A proposito delle quali cito subito la positiva prestazione di Chiara Isotton, che ha scatenato il suo vocione, proprio verista, persino con eccessiva foga: quando riuscirà a tenerlo a briglia potrà raggiungere qualsiasi traguardo, poiché il timbro della voce è di grande purezza, il volume sfida ogni vastità ambientale e nel portamento sa cavarsela assai bene.

Per il resto niente di trascendentale: ad Evgeny Stavinsky (Archibaldo) bisogna concedere l’attenuante della chiamata quasi all’ultimo minuto, così gli darò una sufficienza politica: voce piuttosto cavernosa e timbro non proprio purissimo, caratteristiche non troppo edificanti, come già avevo avuto modo di constatare da qualche anno… quindi i miglioramenti tardano…

Roman Burdenko è stato un Manfredo dignitoso, ma non più: la voce non è di quelle che ti colpiscono per colore, timbro e potenza. Il LAb del finale (ammesso ci fosse) è stato coperto alla grande da Steinberg!      

Fra il sufficiente e il discreto l’Avito di Giorgio Berrugi, voce abbastanza potente (ha già fatto Siegmund!) ma dal timbro non proprio pulitissimo. Meglio di lui Giorgio Misseri, sia pure in un ruolo (Flaminio) di assai minore importanza.  

Gli altri comprimari come da… contratto sindacale. Onesta la prestazione del Coro di Malazzi, davvero un impegno minuscolo, il suo.   

Pubblico non oceanico, che ha tributato applausi a tutti, ma per un tempo… limitato (nessuna uscita finale a sipario chiuso, per dire).

Ecco, adesso per altri 70 anni con Montemezzi siamo a posto! 

26 gennaio, 2020

La Violanta torinese


Ieri pomeriggio al Regio (ahinoi non proprio semivuoto, ma c’è mancato poco...) è andata in scena la terza delle cinque recite di Violanta, che il teatro torinese ha meritoriamente portato per la prima volta in Italia dopo un secolo abbondante dalla comparsa a Monaco di Baviera (martedi 28 marzo, 1916).

Dico e affermo trattarsi di un’opera che dovrebbe avere almeno (se non più...) la stessa considerazione (parlo di cartelloni e pubblico) di una Cavalleria o di una Fedora, per dire. E il merito va soprattutto alla musica di questo ragazzo diciassettenne che rivaleggia con i mostri sacri Strauss e Puccini, e sovrasta di quache spanna musicisti (nostrani e non) che pure trovano frequente ospitalità sulle nostre scene.

Musica che è stata assai bene illustrata dalla direzione dell’ispirato Pinchas Steinberg, che ha guidato un’Orchestra in ottima forma, capace di rendere al meglio le atmosfere ora liriche, ora drammatiche che la partitura ci propone. Di ottimo livello la prestazione del Coro di Andrea Secchi, chiamato ad un compito più arduo a livello di qualità che di quantità, ma assolto con grande profitto.

Le voci con luci ed ombre: Annemarie Kremer è una Violanta invidiabile sul piano scenico (chi non sarebbe soggiogato dal suo fascino di femme-fatale?) e a corrente alternata su quello strettamente vocale: acuti da autentico soprano drammatico, ma centri debolucci... Michael Kupfer-Radecky assai efficace come Simone: voce ben impostata e potente, atteggiamenti appropriati al personaggio di militare-tutto-d’un-pezzo cui casca addosso il mondo senza che lui se ne dia una ragione.

Il principe-illegittimo, nonchè dongiovanni, Alfonso è Norman Reinhardt, che per la verità dovrebbe avere caratteristiche vocali quasi da Heldentenor, e invece ha una voce da tenorino lirico, con scarsa proiezione: la sua è una prestazione non più che discreta. Come quella del pittore gaudente Giovanni Bracca, interpretato da Peter Sonn.

Efficace e convincente Anna Maria Chiuri, una Barbara amorevole e dolcissima nella sua ninna-nanna a Violanta. Gli altri comprimari (vedi locandina) tutti all’altezza dei rispettivi compiti.
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Il venerabile PierLuigi Pizzi firma un’allestimento (regìa, scene e costumi, più le luci di Andrea Anfossi) davvero degno della sua fama: scena fissa, come pretende il libretto (la sala del palazzo di Simone sulla Giudecca) arredata solo con un paio di sofà e un tavolino, con un’enorme apertura circolare sul fondo, che dà sull’... infinito (la laguna dove transitano gondole e dalla quale arrivano le voci del carnevale). Costumi di inizio ‘900 (uniformi miitari di Simone e sottoposti) e di mascherine; un abito lungo, sberluscicante e attillatissimo-scollato di Violanta a valorizzarne il prorompente sex-appeal; Alfonso vestito (ma è in maschera anche lui!) da Papageno (metafora del galletto che si fa tutte le gallinelle?) Recitazione assai curata in ogni dettaglio.

Insomma, uno spettacolo di alto livello che il pubblico degli affezionati ha salutato con gran calore. Chi appena può non trovi scuse per mancare una delle ultime due recite!

(Ora però devo partire per Bologna dove, oltre a Salvini, incombe... Tristan!)

21 novembre, 2016

A Torino muore Sansone con tutti i Filistei


Il Regio torinese sta ospitando dal 15/11 una nuova produzione di Samson et Dalila, che arriva a quasi 20 anni di distanza da quella del 1997 del compianto Luca Ronconi. Questa messinscena, collaudata nel 2015 a Pechino (CNCPA) che l’ha co-prodotta insieme al nostro teatro, è firmata da Hugo de Ana, già cimentatosi nell’impresa almeno altre 5 volte (ricordo quella del 2001 al CarloFelice, poi ripresa nel 2002 alla Scala-Arcimboldi).

La coppia protagonista (Daniela BarcellonaGregory Kunde) si ritrova insieme in un’opera francese ambientata sulle rive meridionali del Mediterraneo a più di 4 anni di distanza dall’applaudita apparizione nei berlioz-iani Troyens alla Scala.

E i rapporti fra i due protagonisti del racconto a sfondo biblico qualche vago punto di contatto con quelli del soggetto derivato da Virgilio ce l’hanno: un amore pericoloso, con lui che ne è preso a tenaglia, dilaniato fra il desiderio carnale che lo porta a cercarlo rischiando la pelle i capelli, e il dovere che gli imporrebbe di negarselo; lei (là sinceramente innamorata, qui cinica quanto improbabile ingannatrice: dico, se non ce la fai alla prima, alla seconda e alla terza, come speri di farcela alla quarta? ma lei ce la fa!) che sfodera tutte le sue arti di seduzione per conquistarlo (e qui distruggerlo). E attorno ai due amanti la Natura che si scatena con temporali, uragani, tuoni e lampi!

Tutto ciò avviene nel second’atto, l’unico che rispetti i canoni dell’opera, presentando un paio di duetti (politico: Dalila-Sacerdote e amoroso: Dalila-Samson), chè per il resto abbiamo a che fare con quello che doveva essere in origine un oratorio, zeppo di cori mistici di stampo bachiano se non gregoriano. 

Dei due protagonisti, chi mi ha convinto di più è stato Samson: Kunde (forse perchè non proprio esordiente nel ruolo) ha tenuto botta egregiamente ad una parte ostica, senza mostrare affaticamenti o incertezze. Fin dall’iniziale Arretez! (che sembra anticipare, in sedicesimo, il verdiano Esultate!) ha mostrato la sua proverbiale sicurezza, mantenuta per il resto dell’opera fino al conclusivo SIb acuto che ha fatto tremare e cascare il tempio! La Barcellona mi è parsa un filino contratta, quasi timida, ecco, come una che ancora deve immedesimarsi al meglio in una parte per lei del tutto nuova. Intendiamoci, una prestazione comunque di rispetto, ma senza esaltare.

L’altro co-protagonista, Claudio Sgura (il Gran Sacerdote) ha sfoggiato il suo gran vocione, ma spesso e volentieri lo ha usato per far schiamazzi invece che bel canto: una sufficienza risicata, al mio personalissimo cartellino. Gli altri hanno da cantare poco, ma quel poco lo hanno cantato dignitosamente, in specie Sulkhan Jaiani, nobile figura di vecchio ebreo.

Chi si merita la lode è invece il coro di Claudio Fenoglio, che ha saputo magistralmente sdoppiarsi fra ebrei e filistei, splendido nei corali in pianissimo dei primi e travolgente nelle smaccate esternazioni dei secondi.

Pinchas Steinberg ha condotto egregiamente la collaudatissima compagine orchestrale del Regio, svelando ogni particolare di questa partitura davvero degna di stare alla pari di quelle più famose della produzione francese del secondo ottocento. (Vedi più sotto una sommaria analisi dei contenuti musicali.)
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Vengo all’allestimento di Hugo de Ana. Come al solito sovrabbondante, quasi esagerato nelle scene, non per niente qualcuno lo apostrofa come tardo-zeffirelliano... Enormi portoni di tempio, grandi strutture grigio-argentee (primo atto); due giganteschi lampadari appoggiati al pavimento ed altrettanto enormi velari (la casa di Dalila) e ancora opprimenti strutture con pesanti decorazioni (atto terzo). In ogni caso, una lettura assolutamente rigorosa (questo è sempre un suo merito) che non ha preteso di proporre chissà quali significati reconditi o improbabili ambientazioni nell’attualità.

Un esempio concreto ne è la presentazione del baccanale, dove nulla è stato lasciato all’immaginazione, senza peraltro mai scadere nel volgare o nel disturbante. È vero, c’erano in scena frotte di ragazzi e ragazze completamente (e apparentemente) nudi in atteggiamenti piuttosto espliciti, ma un baccanale non è il balletto dei piccoli cigni di Ciajkovski, nè un happening di smidollati in discoteca, ecco...  A proposito di nudi maschili, si notava chiaramente (dall’elastico che gli cingeva i fianchi, entrando tra le... ehm... chiappe) come avessero comunque addosso un capo di abbigliamento, che però lasciava chiaramente in mostra proprio le forme dell’organo genitale, e che forme, accipicchia! Ora, mi par difficile pensare che de Ana (che qui è pure costumista) abbia fatto confezionare degli appositi baccelli per pisello... sono portato invece ad immaginare che abbia voluto intelligentemente mettere in evidenza che in quella scena si celebra un rito della fertilità e allora – avete presente Priapo e il suo... coso? – si sia procurato appositamente delle protesi di robuste dimensioni da far indossare ai danzatori! Sufficientemente sobria e senza esagerazioni cruente anche la successiva scena del sacrificio umano.

Curata anche la parte attoriale e i movimenti dei cori, così come i costumi (tetri per gli ebrei e sgargianti per i filistei). Efficaci le luci di Vinicio Cheli, a sottolineare le scene cupe e poi quella solare dell’ultimo atto. Meno apprezzabili le immagini di Sergio Metalli proiettate sulla zanzariera.

Ma in complesso uno spettacolo godibilissimo, accolto come sempre con calore dal come sempre foltissimo pubblico.             
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Ora propongo una specie di bigino della componente musicale, più che altro per sottolinearne alcune caratteristiche di fondo, a partire dall’impiego piuttosto esteso dei Leit-motive. Non siamo proprio al Wagner più spinto, ma la tecnica dei motivi ricorrenti viene usata con grande cura e con la massima efficacia: nella scelta del loro contenuto musicale, come nell’appropriatezza delle loro riapparizioni.
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Come detto, un ruolo fondamentale nell’opera lo ha il coro, rigorosamente diviso (la par-condicio!) fra gli sbifidi filistei e gli ebrei, vessati da costoro, ma anche abbandonati dal loro Dio un filino... arrabbiato per la loro fede non proprio incrollabile. Sono questi ultimi ad occupare la prima parte dell’atto iniziale, facendo udire la loro lunga implorazione (Dieu! Dieu d’Israël!) di lontano, dopo 31 battute di lamentoso preludio in SI minore, quando ancora il sipario dovrebbe restare chiuso. Poco prima dell’alzarsi della tela (Un jour, de nous tu détournas ta face) le donne espongono un tema che tornerà spesso a farsi udire, a mo’ di Leit-motiv: esprime lo stato di prostrazione del popolo di Israele, cui Dio ha voltato le spalle:


Il sipario si alza e il motivo viene poco dopo ripreso con energia, a canone largo da tutto il coro (nell’ordine bassi, tenori, contralti e soprani) per tornare ancora a spegnersi, determinando la reazione di Samson, che dopo una prima modulazione dell’orchestra a SOL maggiore, con un’altra brusca sterzata a MIb sferza i suoi (Arrêtez, ô mes frères!) invitandoli ad onorare il Dio che saprà perdonarli e liberarli. Il corno espone qui un nuovo, fondamentale motivo, che rappresenta la speranza di Israele:

Ma gli ebrei sono sfiduciati e il SI minore torna insieme alla loro prostrazione e rassegnazione (Hélas! paroles vaines!) Samson però non si dà per vinto, e dopo un battagliero passaggio in SIb maggiore (L’as-tu donc oublié) cui risponde un ennesimo scetticismo del popolo, torna al MIb, introdotto grandiosamente in orchestra dal tema della speranza, con un accorato cantabile (Implorons à genoux) dal piglio davvero eroico:


L’appello (C’est le Dieu des combats!) sul tema della speranza ottiene il miracoloso effetto di scuotere i suoi, facendo rinascere in loro la fiducia in Dio e in se stessi, e così la speranza si alza adesso (Ah! le souffle du Seigneur) a piena voce nel coro. Un fugace passaggio in REb, poi il ritorno al MIb maggiore chiude questa prima scena con il tripudio degli ebrei, pronti a riprendersi la perduta libertà.

Tocca ora all’aguzzino filisteo aprire la seconda scena, su un brusco accordo orchestrale che ci porta dal MIb alla relativa DO minore, che sostiene un nuovo motivo, nei contrabbassi, evocante la brutalità dei filistei:

É il satrapo Abimelech che si fa avanti per spegnere gli ardori degli schiavi ebrei, e prima delle sue parole sprezzanti (Qui donc élève ici la voix?) si ode negli strumentini, sfociante anche nei corni, il tema - subdolamente melenso - della perfidia dei filistei:



Dunque, Abimelech si imbarca in un vero e proprio predicozzo offensivo verso gli ebrei e il loro Dio che non sa nemmeno aiutarli. La sua noiosa cantilena (Ce Dieu que votre voix implore) in MIb minore, è inframmezzata da spiritati interventi degli strumentini dal sapore orientaleggiante e si conclude con un panegirico a Dagon, la divinità adorata dai filistei, di fronte alla quale il Dio di Israele fugge come una colomba inseguita da un avvoltoio! 

Il che provoca la reazione di Samson (C’est toi que sa bouche invective) introdotta dalla comparsa di un nuovo tema principale, quello della rivolta, evocante la decisione degli ebrei di ribellarsi alle angherie dei filistei:


E un altro tema (la vittoria) compare nei tromboni, in quattro ondate successive, a sostenere la fede incrollabile di Samson (Je vois aux mains des anges):

Quindi è la rivolta ad accompagnare (Enfin l’heure est venue) la certezza di Samson e del suo popolo nella liberazione dalla schiavitù. La tonalità vira a SIb maggiore quando Samson (Israël! romps ta chaîne!) lancia i suoi in una specie di marcia trionfale, che sviluppa ulteriormente il tema della rivolta, sottolineato da inebrianti cascate di semicrome di fiati e violini. Su un richiamo di Samson (Oui, devant sa colère) compare nelle viole il tema della collera divina:


Al culmine del coro ebraico (Israël, lève toi!) Abimelech perde la pazienza e si slancia su Samson per toglierlo di mezzo, ma l’eroe ebreo gli strappa la spada e lo fa secco all’istante! L’orchestra ne accompagna la morte con una specie di sberleffo (semicrome in staccato) di tono orientaleggiante, una discesa che sfocia in un SIb grave degli archi.  

La terza scena si apre con il tema della rivolta che lentamente se ne va, nei fiati, accompagnando gli ebrei che si allontanano (per prendersi la meritata vendetta) mentre è il Gran Sacerdote che esce dal tempio e constata esterrefatto la morte del satrapo (gli archi bassi reiterano una variante beffarda del tema della vittoria). Alcuni filistei si mostrano terrorizzati dalla inaspettata reazione degli schiavi, altri (quarta scena, modulazione a FA minore) arrivano con notizie disastrose riguardo le razzie che gli ebrei stanno compiendo e propongono di fuggire dalle loro stesse terre. A questo punto il Gran Sacerdote lancia la sua tremenda maledizione (Maudite à jamais soit la race) contro il popolo ebraico:

É una specie di aria in due strofe, cui segue il coro dei filistei che decidono di andarsene sui monti per sfuggire la vendetta degli ebrei. Al Gran sacerdote non rimane che lanciare un’ultima maledizione.

La quinta scena vede il ritorno degli ebrei guidati da Samson e la tonalità trascolora dal cupo FA minore della scena precedente ad un pastorale FA maggiore: archi e fiati si danno il cambio nell’esporre un motivo che sale lentamente da tonica a mediante all’ottava superiore, poi dalla mediante alla dominante dell’ottava sopra. Sono i vecchi che ringraziano Dio (Hymne de joie, hymne de délivrance) per averli liberati. Uno di loro confessa come il popolo ebreo abbia sfidato la legge di Dio, e perciò fu punito. Ma adesso - ed ecco il tema della speranza (in un momentaneo SIb) accompagnare la sua perorazione (Je suis le Seigneur des armées) – egli proclama che Dio alla fine è venuto in soccorso del suo popolo. Il canto degli ebrei si perde in lontananza, e il FA che lo aveva sostenuto degrada negli archi di un semitono, mutando nella dominante di LA maggiore.

In questa tonalità luminosa e danzante (così Wagner definì la settima di Beethoven, incardinata appunto sul LA) ecco arrivare le donne filistee, Dalila inclusa, per festeggiare la primavera che ispira amore e – questo vale però solo per Dalila – per adulare il prode Samson (che dovremmo sapere dalla Bibbia che già aveva conosciuto - in senso appunto biblico! - quella gran gnocca della sacerdotessa filistea). Qui sarebbe da aprire una... parente (Totò) sui trascorsi dei due protagonisti, che pare fossero amanti ormai incalliti, il che confermerebbe la scarsa plausibilità dei tentativi della donna di strappare all’energumeno ebreo, dopo tanti infruttuosi tentativi, il segreto della sua forza; ma... soprassediamo.

Per goderci questa mirabile oasi di lirismo che pervade l’ultima scena dell’atto primo, con le giovani filistee che intonano una melodia serena e... afrodisiaca:


Viene ripetuta su una seconda strofa, mentre i primi violini, successivamente a più riprese i flauti, la imitano velocizzandola con scorrevoli semicrome, finchè canta Dalila: mentre pochi dubbi esistevano sulla sincerità del canto delle ragazze, subito qui ci si domanda (conoscendo i precedenti) quanto ci sia di spontaneo e quanto invece di carognesco in quello della Sacerdotessa (Je viens célébrer la victoire) che in effetti manipola subdolamente (e cromaticamente) la melodia. E non a caso Samson, rimasto nei pressi, ne rimane ammaliato e disturbato allo stesso tempo (O, Dieu! toi qui vois ma faiblesse) presentendo tutto il pericolo potenzialmente insito nelle lusinghe della filistea.

Qui abbiamo l’intervento di un vecchio ebreo, che si può lontanamente assimilare alla Brangäne che nel second’atto del Tristan ammonisce Isolde sul pericolo della sua infatuazione per l’eroe di Kareol: assistiamo quindi ad una specie di terzetto, chiuso dagli svolazzi del flauto sul tema delle filistee

Siamo ancora nel primo atto, ma Saint-Saëns non esita a infilare già qui un balletto. (Naturalmente ne sarà previsto un altro, ben più corposo e... peccaminoso, da eseguirsi all’ora di arrivo dei ragazzacci del Jockey-Club! Qui siamo ancora in un collegio di educande... poi invece ci sarà, per gli intenditori, un sapido baccanale.) Ma andiamo con ordine: le fanciulle filistee danzano su un innocente motivo (in LA minore) che presenta solo qualche sfumatura di carattere orientaleggiante:


Dopodichè Dalila porta il suo affondo: intonando l’aria, o la canzone in effetti, della primavera:


E naturalmente la tonalità modula con gentilezza da LA a MI maggiore, scolastica ambientazione di scenari celestiali: quel salto di nona all’insù su espérance è poi un chiaro contraltare, languido ed insinuante, alla speranza degli ebrei e quindi di Samson, tutta intrisa di battagliero furore... Il vegliardo ebreo (L’esprit du mal a conduit cette femme) mette ancora in guardia Samson (e in orchestra serpeggia il tema della perfidia dei filistei) da quella donna falsa e ammaliatrice, ma Dalila gioca tutte le sue carte, e subito intona (Chassant ma tristesse) un tema irresistibile, della sua seduzione, anticipato dai violini:
Ancora il tema della primavera e quello del canto delle filistee accompagnano Dalila che si allontana verso il tempio, ormai certa che Samson la seguirà alla sua dimora: non per nulla è il motivo della perfidia, ammantato di beatitudine, che chiude l’atto.
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Il secondo atto (che vagamente richiama quello del Tristan) ci presenta la classica scena d’amore, preceduta dall’incontro di Dalila con il Gran Sacerdote, che serve soprattutto a chiarirci i precedenti rapporti intercorsi fra Dalila e Samson e toglierci ogni residuo dubbio sul cinismo che anima la sacerdotessa riguardo al suo legame con l’ebreo.

Il breve Preludio si apre con il tema della collera divina che serpeggia negli archi, con i fiati a proporre accordi che portano alla tonalità di FA maggiore sulla quale, preceduto da svolazzi di clarinetti, si ode nei flauti un nuovo motivo, che tornerà più avanti, e che evoca un temporale:

L’atmosfera è in effetti piuttosto agitata, come l’animo di Dalila, in ansiosa attesa dell’arrivo di Samson, vittima predestinata della sua vendetta. Ancora il tema della collera negli archi e poi quello della perfidia nella viola accompagnano il recitativo in cui manifesta le sue intenzioni. Modulando a LAb, violini e viole espongono un motivo che rappresenta l’invocazione all’amore:

Ed è invocando l’amore (Amour! viens aider ma faiblesse!) che Dalila intona la sua aria bipartita, che nasconde sotto una superficie di dolcezza e sentimento il disegno carognesco della donna: distruggere Samson:

E prima della ripresa, sulle parole di sfida (je le brave) ecco una repentina discesa dal SOL sopra il rigo al SIb sotto, proprio a sottolineare la cinica determinazione della donna. Al termine dell’aria riecco negli archi la collera divina e poi un nuovo motivo nell’ottavino e nel flauto che evoca lampi lontani (lo risentiremo al momento dello scatenarsi del temporale):



Per ora ciò che sta arrivando è un personaggio conosciuto: il Gran Sacerdote, preceduto negli archi bassi dall’inconfondibile tema della sua maledizione. Dopo brevi convenevoli di rito, ecco il duetto (in DO minore) fra i due, aperto dal religioso che non fa che ripetere (Notre sort t’est connu) a Dalila notizie arcinote riguardo la pessima piega che le cose hanno preso per i filistei, schiacciati dagli ebrei aizzati da Samson, il quale sembra inossidabile alle lusinghe amorose della sacerdotessa. La tonalità vira bruscamente a SI maggiore e lei risponde convinta delle sue capacità di plagio, e sulle parole Samson, malgré lui-même, combat et lutte en vain, si ode reiteratamente nei violini il tema della seduzione, con la quale Didone è sicura di poter finalmente buggerare l’ebreo.

Il Gran Sacerdote (ah, le chiese secolari!) la mette subito sul monetario (intanto degradando la tonalità dal severo SI al prosaico LAb) e promette a Dalila metà delle sue ricchezze in cambio di Samson! Ma lei è al di sopra di certe... bassezze e così (Qu’importe à Dalila ton or!) gli chiarisce seduta stante il movente delle sue azioni: la vendetta

Il Gran Sacerdote resta scettico, e ricorda che lei già in passato aveva tentato di carpire a Samson il suo segreto, ma sempre lui l’aveva giocata. Dalila (Oui, déjà, par trois fois déguisant mon projet) ammette di aver effettivamente fatto ben tre tentativi per plagiare l’ebreo, ma questa – lei ne è certa – sarà la volta buona! Tutta la sua successiva esternazione è caratterizzata da continue ricomparse del tema della vendetta, e ciò convince il Gran Sacerdote (Tu combats pour sa gloire et par lui tu vaincras!) delle buone ragioni di Dalila.

Ora inizia la parte finale del duetto (la tonalità è la relativa di LAb, FA minore) e i due pregustano la caduta di Samson come mezzo per placare il loro odio e avere finalmente la loro rivincita su di lui (Il faut, pour assouvir ma haine):


È un passaggio truculento, nel quale Dalila non si nega persino una coloratura rossiniana (Ah! Il courbe le front à son tour!) e che chiude con l’invocazione alla morte dell’ebreo. Il Gran Sacerdote si allontana, ma promette – in un recitativo - di restare con i suoi lì nei pressi, pronto ad intervenire al momento opportuno. Modulando a FA maggiore, sono i temi dell’invocazione all’amore (violini II e violoncelli) poi della vendetta (contrabbassi) della maledizione (violoncelli) e della collera divina (archi) ad accompagnarne l’uscita di scena, mentre Dalila ancora è incerta sull’arrivo di Samson, appoggiata ad una colonna della sua abitazione, con il temporale che si fa sentire in lontananza.

E Samson, puntuale come un orologio... francese arriva in quei paraggi, preceduto da un motivo (il desiderio peccaminoso) che ne evoca perfettamente lo stato d’animo turbato:


Samson desidera Dalila, ma è ben conscio di tradire con ciò la sua fede: forse pensa di poter ancora sfidare il destino, di poter soddisfare gli istinti della carne senza pagare un prezzo eccessivo, come gli era riuscito in passato, ma di sicuro il suo subconscio avverte il pericolo rappresentato da quella donna dalla quale era stato pur messo in guardia dagli anziani del suo popolo. E i temi dei lampi (strumentini) e della collera divina (archi) nulla di buono fanno in effetti presagire.   

Ai dubbi e ai rimorsi che Samson esprime nel suo recitativo d’esordio, culminante in un’autentica imprecazione (Fuyons, fuyons ces lieux que ma faiblesse adore!) risponde Dalila accogliendolo (C’est toi! C’est toi, mon bien aimé!) in un’atmosfera che si è fatta immediatamente idilliaca (modulazione a LA maggiore).

Inizia qui il grande duetto che caratterizza questo second’atto. Samson cerca di bloccare Dalila (Arrêtes ces transports!): è il desiderio peccaminoso (prima sezione nelle viole, poi seconda nei violini) che lo riempie di rimorsi; ma lei, mentre si modula a SIb maggiore, comincia a tessere la sua tela (Samson! ô toi! mon bien aimé) con una melodia accattivante, dal sapore dolciastro, che introduce poco dopo (Pourquoi, de mon front parfumé) un nuovo motivo (della persuasione) che si sviluppa in pieno quando lei risponde ai dubbi di Samson (Près de moi pourquoi ces alarmes?):


Samson (Hélas! esclave de mon Dieu) cerca ancora di resistere e qui si manifesta tutta la dissociazione che invade il suo animo, dilaniato fra l’attrazione amorosa e il dovere supremo:


La tonalità è passata in minore (SIb) ma ecco che, sull’invocazione D’Israël renaît l’espérance! è il tema della speranza che esplode in un grandioso corale degli ottoni, in MIb. Samson ora si esalta (tornando a SIb) ricordando il richiamo che il Signore gli ha rivolto: riporta il tuo popolo a me e poni fine alle sue miserie! E un poderoso accordo di MIb suggella questa accorata perorazione.

Dalila sembra per un attimo (o finge di essere) delusa e rassegnata a perdere il suo amore, e lo fa cantando (Qu’importe à mon coeur désolé) in modo minore (SI) il motivo della sua persuasione (!) Lei rinfaccia senza mezzi termini a Samson la sua infedeltà e, in sostanza, lo accusa di usare con lei un approccio usa&getta. E questo atteggiamento comincia ad ottenere l’effetto desiderato: Samson confessa il tremendo squilibrio che alberga nel suo animo, diviso fra amore e dovere, ed alla fine cede: Dalila! Dalila! Je t’aime! Ottavino e flauti fanno balenare lampi per ora lontani.

Dalila affonda il coltello nella piaga: c’è un dio più potente del tuo, è quello che muove i miei sentimenti, è l’amore! Lo fa cantando (Un dieu plus puissant que le tien) su una variante (in SI maggiore, un semitono sopra il normale!) del motivo della persuasione, mentre si odono anche i temi della primavera (strumentini) e poi dell’invocazione all’amore (oboe e violino) che introduce (Que tu devais aimer toujours) il tema della seduzione! Insomma, Dalila sta mettendo in campo tutto il suo armamentario... tematico per far crollare Samson. Il quale si sente offeso e le risponde (Quand pour toi tout parle à mon âme!) sul tema della sua dissociazione, mentre la collera divina e lampi sempre più vicini incombono sulla scena, che viene però rasserenata da dolci accordi degli archi, sui quali Samson ribadisce: Dalila! Dalila! Je t’aime!  

La tonalità vira a REb maggiore e Dalila ha ormai una prateria davanti a sè; così dispiega il suo canto ammaliatore (Mon coeur s’ouvre à ta voix):

Canto che raggiunge il suo culmine sull’esposizione dei due seducenti appelli: Ah! réponds à ma tendresse! e poi Verse-moi, verse-moi l’ivresse! sostenuti dalle due sezioni del tema dell’amore:
Al povero Samson non resta che esalare un nuovo Dalila! Dalila! Je t’aime! Ecco ora la ripetizione dell’ultima strofa, che presenta come principali varianti l’apparizione reiterata, nei legni, del tema del temporale (qui per la verità assai benigno) e l’intervento di Samson che è ormai cotto a puntino e chiude con l’ennesimo Dalila! Dalila! Je t’aime! dove va a toccare la sesta su un SIb acuto da cantarsi piano (pare Verdi...)

Adesso Dalila comincia la sua opera di demolizione: mentre l’atmosfera si arroventa con il tema della collera che invade gli archi e la tonalità vira a DO minore, lei spudoratamente (Mais! non! que dis-je, hélas!) accusa Samson di manifestarle sentimenti falsi e ipocriti, così lui è costretto (LAb maggiore) a difendersi (Quand pour toi j’ose oublier Dieu) affermando di aver rinunciato per lei ai suoi doveri verso il popolo (si ode, tracotante nei tromboni, il tema della vittoria): lui, che era stato scelto dalla potenza divina! Dalila, tornando al REb del suo amore introdotto però nei violini da quello della perfidia (!) chiede a Samson (Eh bien! connais donc mon amour!) la prova suprema del suo amore: rivelargli il segreto della sua forza. La seconda sezione del tema dell’amore pervade ormai tutto il suo canto, in un crescendo implacabile che porta Samson all’esasperazione.

Il duetto è ormai sfociato in uno scontro aperto, che va di pari passo con l’avvicinarsi sempre più minaccioso del temporale e il balenare continuo di lampi. Samson è letteralmente dilaniato dalla dissociazione della sua psiche che condiziona il suo agire. La perfidia invece serve a Dalila per cercare di raggiungere l’obiettivo, minacciando addirittura un suicidio. Samson cerca ancora di resistere, vede nella tempesta incombente il potere divino, ma Dalila quel potere lo sfida sfacciatamente e ora gioca la carta estrema: su un SIb acuto (Lâche!) lo sputtana come un essere senza amore, e gli volta le spalle, andandosene verso casa, accompagnata dall’esplosione del tema della perfidia, sul sottofondo della collera divina e dei lampi che guizzano da ogni parte.

Samson esita ancora, ma gli archi a noi raccontano inequivocabilmente che il suo desiderio peccaminoso alla fine trionfa: e lui si slancia sulle orme di Dalila. I filistei con il Gran Sacerdote sono lì in agguato e il tema della maledizione ce lo testimonia, comparendo pianissimo negli archi bassi, poi in viole e strumentini. Poco dopo lo contrappunta il tema dei filistei, e quindi, dopo un ennesimo lampo e un colossale tuono (tamtam e grancassa) il tremolo degli archi accompagna il richiamo di Dalila ai suoi ad intervenire: A Samson non resta che un urlo, sul SIb acuto: tradimento! E in SIb minore si chiude l’atto, con una sequenza che parte dal tema dell’amore, letteralmente incarognito, prosegue con quattro comparse del tema della perfidia e finalmente da una scarica di lampi che porta allo schianto finale.
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L’atto terzo si apre con una breve introduzione strumentale che richiama vagamente quella del corrispondente atto del Tristan (qui SOL minore, là FA minore). La cosa non è per nulla fuori luogo, considerando l’analogia di scenario psico-fisico dei due protagonisti: fisicamente malconci e psicologicamente distrutti:

 
Le ripetitive quartine di semicrome ascendenti e ondeggianti negli archi alti evocano il succedersi dei passi pesanti di Samson, rapato e pure cieco, imprigionato e costretto a spingere la ruota di una macina (e possiamo immaginare la sua fatica, datosi che il taglio di capelli cui è stato sottoposto gli deve aver azzerato ogni sua miracolosa forza...) I legni, con settime discendenti, sembrano evocare i lamenti di Samson, ma subito appare in orchestra (oboe e corno) anche il tema della prostrazione di Israele, concentrato qui sul suo eroe purtroppo decaduto! Particolarmente espressivo è l’intervento del corno inglese (anche qui Wagner ha fatto scuola) a sottolineare la miseria dello scenario.

La prima scena si trascina su un continuo botta-e-risposta fra Samson e gli altri ebrei che (nascosti dietro le quinte, all’esterno della prigione) gli chiedono conto delle sue azioni: è una specie di dialogo-fra sordi, con Samson che con le sue lamentazioni chiede perdono a Dio e lo implora di non abbandonare il suo popolo, e il popolo medesimo che se la prende con il suo ex-eroe, trasformatosi ai suoi occhi in traditore per un piatto di... filistee!

Dopo che oboe fagotto hanno riproposto la prostrazione, arrivano appunto i filistei e trascinano con loro Samson: scopriremo presto dove lo hanno portato. Un breve intermezzo strumentale (aggiunto in un secondo tempo dall’Autore) serve a dare qualche istante di più al cambio di scena, ma soprattutto ci ripropone alcuni temi già ascoltati: dapprima la primavera (in MIb, poi in MI) intrecciata con la perfidia (subdolamente addolcita) e seguita dalla seduzione.  

La seconda scena si apre nel tempio del dio Dagon dove – è l’alba - ritroviamo il Gran Sacerdote e Dalila, pronti ad officiare una celebrazione in suo onore, a cospetto del popolo. Qui viene riproposta, sempre nella tonalità di LA maggiore, come era apparsa nel primo atto, la canzone delle giovani filistee, ora cantata però anche dai maschi, le cui parole (L’aube qui blanchit déjà les coteaux) invitano tutti a prolungare gli amori notturni, mentre l’orizzonte si arrossa e la terra si indora ai raggi del sole. Chiuso il canto, un LA tenuto dell’oboe sfocia in un recitativo di sapore chiaramente orientaleggiante, che apre la strada al famoso baccanale (semplicemente e più pudicamente: una danza, reca la partitura definitiva). Un chiaro omaggio alla tradizione ed alle regole dei teatri parigini (Opéra, ma non solo) è strutturato su tre temi principali, due in tonalità (parlandone in termini di musica occidentale) di RE e LA minore, e uno (una specie di trio) in DO maggiore:


Chiusa la parentesi godereccia, si apre la terza scena con l’arrivo al tempio di Samson, guidato da un ragazzino. Perchè lo hanno trascinato lì? Solo e semplicemente per beffarsi di lui, umiliarlo e umiliare così quel Dio che gli aveva dato tutta quella forza di cui ora una donna filistea ha saputo privarlo. In modo strafottente, il Gran Sacerdote saluta Samson, mentre i violini lo accompagnano con il tema della sua maledizione, qui portato in modo maggiore, MIb (chè pare aver proprio funzionato!) Poi, mentre si alza il tema della perfidia, invita Dalila ad offrire da bere al nemico sconfitto, imitato dai filistei (Samson! nous buvons avec toi!) che bevono alla salute dell’ebreo. Samson, modulando alla relativa DO minore, non può che rimettersi al volere di Dio (L’âme triste jusqu’à la mort) accada ciò che lui decide.

Qui il DO minore diventa maggiore e udiamo, come un allegro sberleffo, il tema dell’amore saltabeccare negli strumentini, mentre su di esso Dalila si esibisce in una carognesca serenata (Laisse-moi prendre ta main) ricordando a Samson i bei momenti passati insieme, mentre si ode il tema dell’invocazione all’amore e poi, sul ricordo delle passeggiate fra i monti (Tu gravissais les montagnes) ecco il tema del desiderio peccaminoso affacciarsi in violini e viole, mentre i legni ricordano allegramente la primavera! Ancora l’amore si impadronisce della scena mentre Dalila invita Samson a ricordare ebbrezze e carezze... Quell’amore che a lei è servito però per consumare la sua vendetta. E il coro dei filistei si unisce alle parole di vendetta di dio, popolo e odio!

Samson è distrutto, incapace di reazione anche di fronte a simili carognate: modulando a FA minore, sa solo compiangersi (Quand tu parlais, je restais sourd) per la sua dabbenaggine e la sua debolezza. Il Gran Sacerdote gli sta però preparando una nuova provocazione: tornato a DO (e poi a FA) maggiore, sul tema trionfante della sua maledizione, gli chiede beffardo: caro Samson, prova ad invocare il tuo Dio per farti riavere la vista; dovesse succedere, sarò il primo a convertirmi... ma siccome tanto non succede, ecco: io lo posso tranquillamente oltraggiare e sbeffeggiare! E allora Samson comincia a... non vederci più (!) Sul ribollire negli archi della collera divina, chiede a Dio se permetta simili atrocità (Tu permets, ô Dieu d’Israël!) e poi (Que ne puis-je venger ta gloire) implora un’ultima grazia, riacquistare per un solo momento a forza per poter opporsi agli infedeli, mentre il tema della speranza si ode negli ottoni a contrappuntare quello della rivolta, nei violini, strumenti che subito si scambiano fra loro i due temi.

I filistei accolgono il suo appello con risa sguaiate e sbeffeggiano la sua collera cantando un contrappunto bestiale (proprio da oratorio) e irridendo alla sua cecità. Ora il Gran Sacerdote invita Dalila a compiere il rito di devozione a Dagon, una libagione con versamento di vino sul fuoco sacro, seguita da sacrifici umani. Passando da REb, per enarmonia a DO# si modula a LA maggiore (Versons pour lui le vin des sacrifices) e quindi a SI maggiore, dove assistiamo al rito del versamento del vino, accompagnato dal motivo del culto di Dagon:

Come si nota, un motivo spiritato, che ben si addice ad una divinità pagana alimentata con... vino! Dalila e il Gran Sacerdote (Gloire à Dagon vainqueur!) cantano a contrappunto l’inno al loro dio, su una melodia che pare addirittura ricordare il finale della nona beethoveniana! Poi il coro dei filistei (Marqué d’un signe nos longs troupeaux) prega per avere abbondanti messi e mandrie numerose, quindi c’è un susseguirsi piuttosto lungo (e francamente ripetitivo) di interventi alternati dei due officianti e del coro, fino all’invocazione Dagon se révèle!, che dà inizio alla danza pagana, che dovrebbe ottenere la discesa sulla terra del grande dio Dagon:


Nessun Dagon scende giù, così il Gran Sacerdote – mentre le danze sono momentaneamente sospese - si rivolge a Samson invitandolo alla libagione propiziatoria. Samson (modulazione a MIb maggiore) invoca ancora Dio (Seigneur, inspire-moi, ne m’abandonne pas!) e si fa condurre al centro del tempio, proprio fra le due colonne portanti. Una breve transizione in SOL maggiore sul culto di Dagon ci riporta al SI maggiore della danza pagana, che riprende in modo a dir poco forsennato con il ritorno del grido Dagon se révèle!, urlato dai filistei. Cui si aggiungono Dalila e il Gran Sacerdote per la perorazione finale (Que la victoire suive nos pas! Gloire à Dagon! Gloire! Gloire! Gloire!) che però non si chiude in gloria, ma sfuma bruscamente su... Samson, come ci testimonia la comparsa (in MIb) del tema della rivolta, nei violini, seguito da quello della vittoria, negli ottoni.  

Samson (Souviens-toi de ton serviteur!) esterna la sua ultima implorazione a Dio, sostenuta ancora da reiterate comparse dei temi della vittoria e della rivolta (questo adesso nella tromba). Sull’ultimo verso (En les écrasant en ce lieu!) Samson chiude su un SIb acuto, proprio mentre le colonne si aprono sulla spinta delle sue braccia e il tempio crolla travolgendo tutti.