XIV

da prevosto a leone
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11 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°6


È ancora il venerabile  Elio Boncompagni a calcare il podio dell’Auditorium per dirigere un programma dal taglio classico: ouverture, concerto solistico e sinfonia. Dopo due brani di Beethoven ci si sarebbe aspettato che lo fosse anche il terzo (che so, una delle sinfonie pari...) e invece ecco spuntare il Brahms pastorale... 

L’Ouverture Die Weihe des Hauses (op.124) occupa una posizione assai scomoda nel catalogo beethoveniano, stretta com’è nella stritolante tenaglia di Missa (op.123) e Nona (op.125). E sono anche gli anni delle ultime tre sonate e delle variazioni Diabelli!


Il titolo dell’Ouverture è stato tradotto in italiano in modo letterale (La consacrazione della casa) il che porta francamente fuori strada chi non sia informato delle circostanze che ne determinarono la composizione. Chiunque infatti penserebbe subito alla casa nell’accezione di dimora e quindi, in senso lato, di famiglia: quindi immaginerebbe che si tratti della solennizzazione della classica benedizione delle famiglie (a pochi verrebbe in mente di pensare alla consacrazione di una... ditta!)

Invece Haus in crucco (così come House in albionico) è un termine impiegato (anche) per definire i teatri (es.: Royal Opera House, Opernhaus Zürich); ed è proprio l’inaugurazione di un teatro viennese (Theater in der Josefstadt) che fece arrivare a Beethoven la commissione per un lavoro che celebrasse l’avvenimento. Per risparmiare tempo e fatica Beethoven propose un rifacimento delle Rovine di Atene (altro pezzo di circostanza composto 11 anni prima per l’inaugurazione di un teatro tedesco a Pest). Dopodichè, oltre a rimaneggiamenti vari del corpo dell’opera, Beethoven ne scrisse una nuova Ouverture, quella che si ascolta normalmente e anche qui.

Si dice che l’ispirazione estetico-formale sia venuta a Beethoven da Händel, ed in effetti sentiamo atmosfere da pomposità tipiche delle musiche che il tedesco trapiantato in Albione componeva per i Reali di lassù, ma anche un complesso contrappunto che caratterizza il nucleo della composizione. Il cui monotematismo rischia di rendercela un tantino indigesta, soprattutto se ulteriormente appesantita nell’agogica, come ad esempio fa qui Klemperer. Molto meglio – per me, ovviamente – il solito Toscanini, che la propone con il suo proverbiale piglio.

Boncompagni direi che sta più con Toscanini che con Klemperer, il che secondo me gli rende merito: smaglianti le sonorità dell’orchestra, guidata da Dellingshausen e disposta ancora con le viole a sinistra e i secondi violini al proscenio.  
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Giuseppe Andaloro fa il suo ritorno in Auditorium dopo tre anni per presentarci il Primo Concerto del genio di Bonn. Lui e il Direttore sembrano voler spiegare in musica l’irrompere dell’800 nel ‘700: Boncompagni attacca le prime 15 battute come fosse un lezioso Mozart giovanile, quasi col solo concertino; per poi esplodere col vigore tipico dello spirito beethoveniano. Il solista fa lo stesso, attaccando con leggerezza per poi mettere in risalto gli accenti quasi eroici che spuntano qua e là nella partitura. Grandiosa la cadenza del primo movimento, nobile e sognante il Largo, brillante il finale Rondo.

Un’esecuzione decisamente apprezzabile, che il 35enne palermitano completa con ben due bis: Melodia trascritta da Sgambati dall’Orfeo di Gluck, e poi un’impertinente sonatina di Domenico Scarlatti.
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Chiude la serata la Seconda Sinfonia di Brahms. Ancora da elogiare la lettura di Boncompagni, a partire dalla sensibilità mostrata nell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, dove il Direttore ha dato al da-capo sfumature diverse (più tenui) rispetto alla prima presentazione. Tempi abbastanza sostenuti, ma mai strascicati, insomma un’esecuzione coinvolgente, chiusa in modo spettacolare dalle luccicanti sonorità dei fiati.

Successo pieno, proprio come l’Auditorium, che dà l’arrivederci al Direttore per la Nona di Capodanno.       

19 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 1


Osservando il calendario della lunghissima stagione principale 14-15 de laVERDI balza subito all’occhio la presenza massiccia di opere di Piotr Ilyich Ciajkovski: il compositore russo sarà nella locandina di ben 10 dei 64 concerti e dopo aver occupato l’intero programma di quello inaugurale alla Scala chiuderà quello conclusivo (17-18-20 dicembre 2015) con la Suite dello Schiaccianoci. In pratica, se si escludono le 4 Suites, si ascolterà la gran parte della produzione orchestrale di Ciajkovski: sinfonie, concerti, ouvertures e balletti.

Questo primo appuntamento – sotto la bacchetta della Xian - si apre con il celeberrimo e trascinante Capriccio italiano (per una sommaria analisi dei principali temi rimando ad un mio commento ad una precedente esecuzione qui in Auditorium). Un pezzo di quella che si usa chiamare musica classico-leggera, tipo le ouvertures di Suppé o le marcette di Elgar… Però l’effetto è sempre quello di tirarti su il morale, soprattutto in tempi grami come questi: una cosa tipo i balli sul Titanic che affonda (smile!… mica tanto).
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Dopo il convincente debutto in Scala, torna ad esibirsi con laVERDI Giuseppe Andaloro, questa volta impegnato in uno dei concerti – quello in SIb minore - più inflazionati dell’intero repertorio pianistico (e quindi inevitabile banco di prova per chiunque voglia imporsi come solista dello strumento).

E il giovin siciliano ha confermato in pieno le sue grandi doti, non solo sul piano tecnico (un’esecuzione senza una sola sbavatura) ma anche su quello della sensibilità interpretativa: la sua resa dell’Andantino semplice ne è stato l’esempio più lampante. A lui il futuro non può che riservare successi, come quello che ha riscosso qui, ripagato con uno dei suoi encore preferiti.
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Chiude il concerto la Seconda Sinfonia, cui fu dato il nomignolo di Piccola Russia, appellativo con cui ai tempi di Ciajkovski si denominava l’Ukraina centro-nord-orientale, dove la sinfonia fu composta e da cui provengono i principali temi popolari che la impreziosiscono.

Il caso ha voluto che questa parte del programma del concerto rimandi ad avvenimenti di cronaca politica di scottante attualità. Ora, lungi da me il dar ragione alle velleità del demo-dittatore (e fraterno amico del nostro ex-aspirante-demo-dittatore) Putin, ma bisogna pur ricordare che per secoli l’Ukraina è stata da Mosca considerata (ed in effetti trattata come) una provincia dell’impero russo (poi sovietico). Non solo, ma il termine Piccola Russia aveva assunto anche una sfumatura dispregiativa (o tale era recepito dagli ukraini): un po’ come lo spocchioso les petits belges con cui in Francia si apostrofano i vicini. E ciò spiega, per reazione, la quasi unanimità ottenuta nel 1991 dal referendum per l’indipendenza! Tanto per chiarire quanto forte e radicata fosse la presenza russa in Ukraina ai tempi di Ciajkovski, basti pensare che la tenuta della sorella Sasha (del cognato Davydov, in realtà) dove il compositore si tratteneva spesso e dove, nell’estate del 1872, trovò ispirazione per la sinfonia, si trovava a Kamenka (frequentata anche da Pushkin) in un distretto dipendente da Kiev, a ovest del Dnieper e a quasi 400Km dall’attuale confine con la Russia e a 1000 da Mosca. Per dire, assai più ad occidente di Donetsk (città natale di un certo Prokofiev!) che oggi è roccaforte dei separatisti filo-russi dell’Ukraina orientale (a sua volta parte di quella che si chiamava Novorossiya, strappata dai russi all’Impero Ottomano alla fine del 1700):


E la benefattrice di Ciajkovski, Nadezhda vonMeck, possedeva una vastissima tenuta a Brailov, con una dépendance a Simaki, ancor più a ovest di Kamenka, vicino al confine settentrionale dell’odierna Moldova: lì il compositore soggiornò più di una volta e lì – per puro caso e solo di sfuggita – i due incrociarono i loro sguardi nel 1879.

I temi popolari ukraini che Ciajkovski impiega nella sinfonia hanno tutti un tipico sapore russo: quello che si ascolta subito nell’introduzione (Giù lungo la Madre Volga) fa riferimento al grande fiume che l’Ukraina manco vede da lontano! E i rivoluzionari nazionalisti del Gruppo dei 5 si entusiasmarono alla Seconda proprio perché esaltava la musica del popolo della madre Russia (grande o piccola, per loro non faceva poi tanta differenza).

Bene, chiusa la parente geo-politica, veniamo alla musica. Per ricordare che la Sinfonia che si ascolta in questa occasione (e che si esegue di norma) è in realtà il risultato di un pesante rimaneggiamento cui Ciajkovski sottopose, nel 1880, l’originale del ’72, che pure era stato accolto con calore da pubblico e critica. È curioso che nel filmato di presentazione del concerto da parte di Ruben Jais venga proiettato (da 2’27”) il frontespizio della (relativamente recente) edizione della versione originale, ricostruita a metà del ‘900 a partire dalle singole parti d’orchestra conservate a Mosca: non sarebbe una cattiva idea se laVERDI decidesse prima o poi di metterla in programma (pur contravvenendo alla volontà fermamente espressa dall’Autore, che arrivò addirittura a bruciarne il manoscritto) poiché essa ha un suo fascino tutto particolare, e non pochi esperti la reputano esteticamente superiore a quella riveduta e corretta.
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Per semplificare la questione delle differenze, dirò che la prima versione 1872 era magari scarsamente strutturata dal punto di vista delle forme canoniche, tipiche del genere sinfonico. Ad esempio il primo movimento, dopo l’introduzione in Andante che non è stata modificata, presenta un Allegro comodo che assomiglia assai più ad una fantasia che non ad un tempo in forma-sonata: il motivo dell’introduzione (il canto popolare ukraino) si ripresenta ad ogni piè sospinto e lungo tutto lo sviluppo del movimento, quasi fosse un Leit-motif; i due temi che seguono sono assai simili al punto da quasi confondersi fra loro; in sostanza siamo in presenza di un fluire musicale continuo, dove manca il classico contrasto fra i temi. Questo primo movimento si può ascoltare su youtube, diretto da Pletnev.

Nella versione del 1880 (qui Gergiev) il primo movimento presenta invece una struttura più tradizionale e dai contorni meglio demarcati, con il ruvido primo tema - composto ex-novo, in Allegro vivo e che pare richiamarsi a quello famosissimo della Quinta beethoveniana - che contrasta in modo evidente con il più elegiaco secondo (che è il vecchio primo tema del 1872 riveduto e corretto) mentre il motivo dell’introduzione ritorna solo all’inizio e al termine dello sviluppo-ripresa e poi nella breve coda. Le battute passano da 486 a 368, il che comporta un accorciamento di circa 5’ dell’esecuzione.

Il secondo movimento, Andantino marziale, quasi moderato, non è stato oggetto di alcuna modifica: mantiene la forma di Rondò (A-B-A-C-A-B-A) dove A è il ripescaggio dall’abortita opera Undina di un tema di marcia nuziale e C è una seconda canzone popolare ukraina (Fila, mia filatrice) già trascritta anni addietro da Ciajkovski per due pianoforti.

Lo Scherzo (Allegro molto vivace) non fu modificato nel contenuto, salvo qualche ritocco all’orchestrazione. In compenso Ciajkovski ne ristrutturò abbastanza profondamente la presentazione: la versione originale era proprio originale poiché prevedeva un unico da-capo per l’insieme del Trio e della ripresa delle due sezioni dello Scherzo, una cosa piuttosto bizzarra, bisogna dire. Nel 1880 il compositore tornò ad uno schema assolutamente classico, inserendo i ritornelli soltanto per la prima esposizione delle due sezioni dello Scherzo. Come si evince dalla tabellina sottostante, tutto ciò ha portato a ridurre il numero di battute effettivamente eseguite da 756 a 633, accorciando quindi anche qui di qualcosina la durata del movimento:


Naturalmente ciò vale a livello teorico… Geoffrey Simon, che ha prodotto l’unica – almeno ad oggi – incisione integrale della sinfonia in versione originale, ha bellamente ignorato il segno di da-capo e così ha ridotto a 481 il numero di battute eseguite, quindi raggiungendo il minimo assoluto di durata (?!)

Nel 1880 il Finale è stato semplicemente castrato di una sezione del lungo sviluppo cui i due temi (quello saltellante della Gru e il secondo dal ritmo ballabile) vengono sottoposti dopo l’iniziale esposizione: sono 146 battute in meno, che aggiungono concisione e tolgono… musica! Qui si può ascoltare l’incisione di Simon.
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Bene, in attesa di poter ascoltare da laVERDI la versione originale della sinfonia, ci siamo goduti una convincente esecuzione di quella tradizionale, che Xian aveva già proposto con successo un paio d’anni addietro. Per rincarare la dose di accorciamenti rispetto all’originale, a quelli dell’Autore la Xian ha aggiunto di suo anche lo sconto sul ritornello della seconda sezione del Trio, così da prosciugarlo ulteriormente. E i ragazzi (con il corno di Ceccarelli in testa, smile!) hanno risposto davvero alla grande!

15 settembre, 2014

Orchestraverdi – Avvio della stagione 14-15

 

Ieri sera appuntamento ormai tradizionale alla Scala (che presentava ampi spazi vuoti nei palchi…) per il via della stagione de laVerdi, tutto improntato a Ciajkovski (che occuperà anche la locandina del primo concerto di giovedi 18 in Auditorium e sarà in cartellone spesso e volentieri in questo lunghissimo 14-15). Sul podio Xian Zhang, che ha aperto le ostilità con la Marcia slava: se questa sia più o meno esecrabile – quanto a livello estetico – della successiva Ouverture 1812 lascio a ciascuno di giudicare… Entrambe furono commissionate al compositore in occasione di ricorrenze o, come nel caso in questione, di iniziative a supporto della Serbia che era da poco entrata in guerra contro l’Impero Ottomano, e furono buttate giù in gran fretta, badando a enfasi e retorica più che ad estetica musicale.

La composizione subì un bizzarro trattamento, 85 anni dopo la stesura originale, allorquando (1961, a destalinizzazione ormai compiuta, si noti bene) tale Irina Iordan fu incaricata di produrre una versione ufficiale del brano, nell’ambito della riedizione globale delle opere di Ciajkovski. Bene, quello che Stalin non aveva chiesto in vita, fu perpetrato 8 anni dopo la sua morte: eliminare – ovunque si trovassero – riferimenti allo Zar! E così anche la Marcia slava – come pure l’Ouverture 1812 - fu purgata dalle citazioni dell’Inno Dio salvi lo Zar. Prendiamo la prima delle sue due apparizioni: come si vede dalla figura sottostante, Ciajkovski aveva introdotto qui soltanto le prime 5 battute e mezza dell’Inno; la Iordan lasciò soltanto le prime due, ma sostituendo le note dell’Inno con quelle di una specie di filastrocca:


Quando, verso il finale, riappare l’Inno, stavolta arricchito di parte della seconda strofa, la Iordan camuffa la prima e poi taglia di netto le 4 battute di Andante molto maestoso che contengono la seconda!

Non risulta – per fortuna - che alcuno abbia mai impiegato questa versione tardo-sovietica (perlomeno in registrazioni discografiche). E anche Xian l’ha accuratamente evitata, proponendoci l’originale, in cui le note dell’Inno zarista (del 1833) si aggiungono a quelle dei tre canti popolari della Serbia ed evocano l’intervento russo a fianco dei fratelli slavi nella lotta di liberazione contro i turchi. Esecuzione trascinante come da copione.
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Il Secondo Concerto per pianoforte ha avuto un’esistenza abbastanza travagliata e ancora oggi la sua fama è offuscata (e mi sa tanto che lo sarà per sempre…) da quella dell’inflazionato Primo: le edizioni discografiche abbondano, quanto invece latitano le esecuzioni in concerti dal vivo. Dell’opera esistono (almeno) due versioni: quella che ha fatto testo per 60 anni (ed è stata eseguita ieri) è dovuta a tale Alexander Ilyich Ziloti, un pianista allievo del compositore che fece poi fortuna in America e che, morto l’Autore, si prese la libertà di far pubblicare (1897) il concerto in un’edizione da lui liberamente rivista e corretta al di là di quanto precedentemente concordato con Ciajkovski. L’altra, frutto di un lavoro (forse) più accademico che estetico, è dovuta ad un allievo (guarda caso) dello stesso Ziloti: Aleksandr Goldenweiser, che nel 1955 produsse la versione (sedicente) originale dell’opera, basandosi sui manoscritti del compositore.
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L’Allegro brillante, 4/4 in forma-sonata (ma… con alcuna licenza) e tonalità SOL maggiore, viene aperto dall’intera orchestra che introduce il tema principale, subito ripreso dal solista, con poderosi accordi all’ottava. È un tipico motivo di carattere russo, che chiude sulla relativa MI minore:

In questa tonalità l’orchestra lo sviluppa, poi raggiunta dal solista con arpeggi di accompagnamento. Una transizione, caratterizzata inizialmente da un dialogo fra pianoforte e corni e poi da una sezione esclusivamente occupata dal solista, porta ad una pesante cadenza sulla dominante RE, che prelude all’esposizione del secondo tema.

Il quale si presenta con un drammatico passaggio dalla dominante RE alla sesta abbassata, MIb, tonalità piuttosto lontana dal SOL di impianto, dove clarinetto e poi corno attaccano la sezione introduttiva del secondo tema, un motivo che scende dalla mediante alla dominante; quindi il solista espone la seconda, e principale, parte del tema, assai più mossa:

Da notare la coppia di crome (seconda ascendente) che richiama vagamente il primo tema. Dopo che il solista (accompagnato dal flauto) ha esposto il tema, gli subentra l’orchestra (che il pianoforte accompagna con arpeggi) che lo sviluppa ulteriormente fino ad un nuovo intervento esclusivo del solista, cui segue un'altra transizione, in dialogo stretto fra pianoforte e orchestra. Il tutto sfocia in un ritorno di spezzoni del primo tema, scanditi dall’orchestra sui veloci arpeggi del pianoforte, che si incarica poi di chiudere l’esposizione, sulla dominante SIb.

Lo sviluppo si apre con la salita di un semitono, a DO, dove l’orchestra propone l’introduzione del secondo tema, in DO maggiore; essa viene assai ampliata prima che il pianoforte esponga il motivo principale, che l’orchestra porta verso il SIb dove il solista lo elabora in una specie di cadenza anticipata. Essa sfocia nella retorica perorazione dell’orchestra, accompagnata da pesanti scale di ottave ribattute del pianoforte, di un motivo in MIb maggiore (derivato dal primo tema) di sapore Liszt-iano:

Ecco ora una lunga transizione dove spezzoni dei due temi principali appaiono qua e là, in mezzo a svolazzi in staccato degli strumentini. Questa sezione è stata tagliata di 24 battute (319-342) da Ziloti (è la sua principale, se non unica, manipolazione fatta al primo movimento del concerto, e non mi pare sia un sacrilegio) e conduce alla lunga cadenza del solista, che chiude di fatto lo sviluppo. Una cadenza dove i temi principali affiorano in mezzo ad un autentico marasma (in senso buono!) virtuosistico.

Sui trilli delle ottave di RE del pianoforte si innesta la ripresa, con il primo tema esposto (in SOL maggiore) esclusivamente dall’orchestra (forse per far riprender fiato al solista); anziché ripetere la sezione in MI minore, l’orchestra sviluppa il tema con una lunga progressione, chiusa da incisi marziali dei corni sul MI.

Questa volta il passaggio al secondo tema avviene per abbassamento di un tritono (!) dal MI al SIb dove i fiati espongono l’introduzione e subito il pianoforte riprende il tema, seguito dall’orchestra. Abbiamo qui un passaggio simile a quello conclusivo dell’esposizione, che ora sfocia però in una coda (nella quale avvertiamo la presenza del primo tema) dove solista e orchestra si rincorrono fino ai tonfi che chiudono il movimento nel canonico SOL maggiore.

L’Andante non troppo, 3/4 in RE maggiore, è il movimento che Ziloti ha maggiormente… devastato (secondo lui con il consenso dell’Autore… ma di ciò manca ogni solida controprova): cassandone ben 191 battute su 332, dicasi quasi il 60% (!) e modificando sensibilmente le prime 46. In effetti Ciajkovski ne aveva fatto quasi un triplo per pianoforte, violino e violoncello, e ciò, va riconosciuto, cozzava contro i sacri canoni dell’estetica musicale dei tempi; quindi non deve stupire se il pianista Ziloti si sentisse sminuito da quelle invadenti e aliene interferenze… (Per la cronaca, in quegli stessi anni il violoncellista Wilhelm Fitzenhagen aveva steso una sua versione delle Variazioni rococò dello stesso Ciajkovski; e Sarasate si era rifiutato di eseguire il Concerto per violino di Brahms a causa del lungo – e intollerabile, secondo lui - intervento dell’oboe che ne apre l’Adagio centrale.)

Gli archi suonano sommessamente 8 battute introduttive, dopodichè il violino principale attacca un recitativo di 11 battute che a sua volta prepara l’esposizione del primo tema, sempre affidato al violino. È un tema che si suddivide a sua volta in tre sezioni:


Ora il violoncello principale esordisce con la sezione 2 del tema, mentre il violino gli fa eco con delicati arpeggi; entrambi dialogano poi sulla sezione 3, allargata da 11 a 15 battute.

A questo punto fa la sua entrata il pianoforte che espone a sua volta le tre sezioni del tema principale, nello stesso numero di battute impiegate prima dal violino, ma con una più ricca armonizzazione e ricchezza di suono, dovuta all’impiego di ottave nella mano destra e all’accompagnamento di crome nella mano sinistra. Seguono ora 16 battute in cui gli archi ripetono la sola sezione 2 del tema, ampliandola a mo’ di cadenza e preparando così l’arrivo di una seconda e corposa sezione del movimento: è il nuovo intervento del pianoforte che espone un secondo tema, spalleggiato inizialmente dai legni, poi dagli archi che gli subentrano nel condurre la melodia, e infine dai fiati, in un continuo crescendo di pathos e di volume di suono che crea un evidente contrasto con il carattere intimistico del primo tema, fino a sfociare in un climax caratterizzato da una serie di accordi in fff del pianoforte sulle semiminime in tremolo degli archi e le discese di quelle secche dei fiati. Anche la tonalità ha subito modulazioni e progressioni continue, dal SI minore al SOL maggiore, fino al SIb.

Ora violino e violoncello per 23 battute, interrotte da due battute in arpeggio del pianoforte su accordi dell’intera orchestra, espongono un altro motivo secondario, sfociante in sei perentori accordi chiusi da uno schianto di settima diminuita. Qui violino e violoncello si alternano in tre brevi cadenze, chiuse da quella del violino che riporta la tonalità al RE.

Si riprende quindi con il primo tema (sempre di 27 battute, come nelle due precedenti esposizioni) suonato ora dai due strumenti ad arco ed accompagnato dal pianoforte con accordi di semiminime. Seguono, sempre nei due archi e senza il pianoforte, ancora le sezioni 2 e 3, quest’ultima assai ampliata, prima che torni il pianoforte a chiudere questa ripresa con dolci accordi sul SOL maggiore. È sempre il pianoforte a condurre per 4 battute un’ultima cadenza, che riporta la tonalità a RE maggiore; poi ha inizio una Coda che vede protagoniste anche le trombe, che intercalano accordi del pianoforte, e poi gli strumentini che si inseriscono con incisi puntati sugli arabeschi del solista, insieme alle marziali terzine della tromba. Ancora un ondeggiamento di tonalità, prima che le ultime 11 battute riportino la serenità del RE maggiore con la conclusione morendo.

Orbene, questo il contenuto dell’originale. Ma Ziloti? Ecco, la tabella che segue riporta schematicamente la struttura e i contenuti delle due versioni: in rosso le parti tagliate da Ziloti, in verde quelle mantenute e in giallo quelle variate; queste ultime riguardano l’introduzione del primo tema, che Ziloti ha trasferito dal violino al (suo) pianoforte, e la sostituzione dell’esposizione dello stesso tema al violino (battute 20-46) con quella successiva al pianoforte (battute 66-92) ma con sonorità smagrita (via le ottave della mano destra):


Balza subito all’occhio la dimensione dei tagli (di norma comportano una drastica riduzione della durata, che passa dai circa 15’ dell’originale a poco più di 9’): i quali tagli - che fra l’altro eliminano del tutto il secondo gruppo tematico, oltre che la porzione modulante della cadenza conclusiva - finiscono con lo snaturare completamente il brano, che diventa in sostanza monotematico e viene quindi privato del contrasto fra le due sezioni. Dopodichè ognuno può giudicare i risultati dell’operazione in base alla propria sensibilità.

Il finale è un Allegro con fuoco, 2/4 in SOL maggiore, dove Ziloti (per fortuna!?) si è limitato a piccoli e quasi impercettibili mutamenti della parte pianistica (ad esempio raddoppi o soppressioni di ottave e 4 battute di tacet prima della chiusa) e dell’agogica, senza però toccarne minimamente la struttura. La quale è del resto abbastanza semplice: in sostanza è costituita da due gruppi tematici che vengono esposti in sequenza per due volte, collegati da ponti più o meno lunghi, e da una coda brillante che chiude il concerto.

Sull’accordo di SOL maggiore dell’intera orchestra il solista entra con il primo tema di 5 note ben marcate, che sale per gradi da dominante a tonica e torna sulla dominante; gli fa seguito la risposta che chiude sulla sopratonica:

Dopo che il tutto è stato ripetuto, ancora il solista, spalleggiato dal clarinetto, presenta uno spiritoso controsoggetto del primo tema, sempre in SOL maggiore:

      
Questo non solo viene ripetuto, ma dà luogo ad uno sviluppo in cui pianoforte e orchestra dialogano animatamente, fino a che una sequenza di semicrome degradanti del pianoforte non porta alla riesposizione del primo tema. Qui però abbiamo una mezza sorpresa: dopo le due riproposte del soggetto principale, ecco un repentino afflosciarsi dei clarinetti, quasi che venisse a mancare il respiro…

E infatti, su una specie di ansimante brontolio degli archi ecco il pianoforte esporre il secondo tema, nella relativa MI minore:


Esso viene subito ripetuto dal solista e poi ripreso dai legni, con il pianoforte a contrappuntarlo con veloci volate di semicrome. Il motivo si sviluppa in un dialogo fra solista e orchestra, fino a sfociare direttamente in un controsoggetto che germina dal tema, ma in modo maggiore (SOL):

È un motivo dal carattere quasi eroico (à la Liszt, si potrebbe dire, o anche di sapore straussiano) che viene poi ripreso e sviluppato dall’orchestra, dopodiché spezzoni del secondo tema danno luogo ad un lungo ponte, con volate ondeggianti del solista inframmezzate da schianti dell’orchestra, che portano alla ripresa del tema principale (soggetto e controsoggetto esposti due volte). Riudiamo quindi il secondo tema, ora in RE minore, poi il controsoggetto, adesso nella relativa FA maggiore.

Spezzoni del secondo tema si incaricano ora di condurre il ponte verso la Coda: qui l’orchestra esplode, in SOL, l’incipit del tema principale, poi il pianoforte attacca una brevissima cadenza beethoveniana che pare condurre direttamente alla conclusione: ma invece dell’accordo di SOL maggiore ne arriva uno di sesta minore! Una pausa ed ecco la spumeggiante coda, con spezzoni del tema principale che affiorano nel generale fracasso, fino agli schianti che mettono il sigillo al concerto.  
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Propongo adesso, fra i tanti che la nostra tecnologica civiltà ci rende disponibili, un esempio di ognuna delle due versioni: qui Emil Gilels (non Sviatoslav Richter come recita il titolo!) suona con Maazel e la New Philharmonia quella di Ziloti; ecco invece la versione originale eseguita da Igor Zhukov con Gennady Rozhdestvensky e la leggendaria Orchestra della Radiotelevisione Sovietica: non vi manca una sola battuta, al contrario di ciò che avviene in parecchie altre esecuzioni, dove tipicamente (e incomprensibilmente, devo dire) viene accorciata, seguendo più o meno Ziloti, la chiusura dell’Andante (così  Mikhail Pletnev o Denis Matsuev o ancora Boris Berezovsky).

Il 32enne Giuseppe Andaloro (uno che ha le idee chiarissime…) lo ha interpretato, per me, in modo assai appropriato, mettendo in risalto le caratteristiche percussive del brano, un trattamento del pianoforte dove Ciajkovski anticipa il ‘900: particolarmente efficace la lunghissima e massacrante cadenza dell’Allegro iniziale. Nell’Andante lo hanno ben spalleggiato, pur nella portata ridotta (da Ziloti!) dei loro interventi, Santaniello e Grigolato (per avvicinare il violoncello al violino la disposizione dell’orchestra è stata – solo per il concerto – modificata, spostando al centro i violoncelli e portando i violini secondi al proscenio). Riascolteremo Andaloro fra pochi giorni nel celeberrimo Primo.
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Ha completato la serata la Quinta Sinfonia, che a giugno aveva chiuso la stagione 13-14 sotto la bacchetta di Jader Bignamini. Devo dire che ieri sera (complice forse l’acustica scaligera, assai più dispersiva di quella dell’Auditorium) l’esecuzione non mi ha lasciato del tutto entusiasta: non è mancata qualche sbavatura qua e là (come ad esempio nell’attacco del corno dell’Andante cantabile, dove Amatulli non è stato impeccabile come altre volte… forse il taglio della lunga chioma gli ha fatto l’effetto-Sansone, smile!) Devo dire che Bignamini mi aveva convinto di più anche sotto l’aspetto dell’approccio interpretativo, più asciutto e lineare rispetto a quello di Xian, tutto volto a mettere in evidenza i chiaroscuri e fin troppo enfatico (emblematica la sua chiusa, con le 4 semiminime scandite a lunghezza raddoppiata…)

Ma ogni volta è comunque un piacere ascoltarla e ascoltarli! Immancabile quindi il trionfo per tutti.