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24 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 25


L’ultimo concerto pre-estivo della stagione principale 2017 (che proseguirà da settembre a dicembre con i restanti 9 concerti, identificandosi con la prima parte della 17-18) è affidato alla bacchetta del redivivo Gaetano D’Espinosa, oltre che alla... tastiera di un altro tornante, il bravo Giuseppe Albanese.

Programma ultra-tradizionale, sia per la struttura (Ouverture-Concerto-Sinfonia) che per gli autori, che più classici di così si muore: Beethoven e Mozart.

Apre il concerto la Leonore III, un’autentica sintesi musicale del Fidelio, del quale condensa i principali motivi (dettagliati qui a confronto con la sorellina minore Leonore II). Un bel modo per scaldare i motori...
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Ecco poi il Secondo concerto beethoveniano (nell’aprile 2014 la coppia D’Espinosa-Albanese interpretò qui in Auditorium il primo). Il sempre più convincente 38enne reggino (che mai abbandona le sue ormai proverbiali scarpe bicolori) ne dà un’interpretazione di gran classe, impreziosita dall’impeccabile cadenza dell’Allegro, dalle sognanti atmosfere dell’Adagio e dal sempre sorprendente quanto azzeccato rallentando sull’inopinato passaggio in SOL maggiore verso la fine del Rondo.

Gran successo per lui, che così si accommiata con questo funambolico Weber, dove nella foga ha modo di mettere quasi fuori uso un pedale dello strumento!
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Si chiude con la somma Jupiter del Teofilo. D’Espinosa ce la vuol forse raccontare quasi come dovettero sentirla gli ascoltatori di fine ‘700: organico contenuto, archi esitanti e leziosi (vedi le battute 2-4 e 6-8 dell’Allegro vivace); quasi tutti i ritornelli (unico escluso il secondo del finale). Una lettura accattivante, accolta con entusiasmo dal (non proprio oceanico) pubblico dell’Auditorium.
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Adesso, sospesa la stagione principale, arriva subito quella estiva, dove la classica sarà seguita dal jazz. E così, per presentarsi al pubblico de laVerdi nella sua fresca veste di Direttore Musicale, Claus Peter Flor ha scelto un programmino proprio da nulla, roba leggera adatta alle calde serate di luglio: l’intero ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven

17 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 8


Prima apparizione stagionale (delle due) in Auditorium di Gaetano D’Espinosa, per un programma tutto-Brahms, che ripropone due opere risuonate qui (con diversi interpreti) anche nel corso della stagione 2016.

Il 40enne belgradese (ma ormai cittadino del... mondo) Stefan Milenkovich, già visto, udito ed apprezzato qui la scorsa estate nell’etereo MI minore di Mendelssohn, affronta da par suo il seriosissimo RE maggiore del grande amburghese, un altro dei caposaldi della letteratura violinistica di tutti i tempi.

A differenza del teutonico Kolja Blacher (che ce lo aveva proposto 4 mesi fa con un rigore quasi astratto) il simpatico Stefan ci mette tutto il suo spirito un po’ zigano e un po’ latino e ne dà così una lettura, per così dire, mediterranea, con impiego di rubato, espressività e calore. Il tutto ovviamente sostenuto da una tecnica straordinaria, un dono di natura che lo rivelò al mondo (e all’Italia) quando ancora portava i calzoncini corti.

Gran successo e questa volta i bis sono limitati a due (!) del suo amatissimo Bach: questa Allemanda e la Giga dalla terza Partita.    
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Si retrocede di appena un paio d’anni (nella carriera di Brahms) per ascoltare la... decima-di-Beethoven, come iperbolicamente Hans von Bülow definì l’opera del tardivo esordio sinfonico che Clara Schumann aveva praticamente estorto al recalcitrante amico, con infinite insistenze.  

D’Espinosa ce la restituisce più o meno come l’aveva proposta un anno fa la bacchetta di Jader Bignamini. Come Milenkovich, anche il non ancora 40enne Direttore palermitano aggiunge una verve tutta solare alle atmosfere nordiche e alpine (che lui del resto ha respirato a lungo in quel di Dresda) che caratterizzzano questo monumento sinfonico. E come Bignamini, anche lui (meritoriamente) non ci risparmia nemmeno il da-capo dell’Allegro di apertura.

Pubblico entusiasta e, come già per il precedente concerto, applausi ritmati e grida di bravi! Insomma, ancora una gran serata di musica.

28 maggio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°19

  
Il redivivo Gaetano D’Espinosa sale sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto che accosta un autore italiano ancor oggi quasi sconosciuto ad un suo contemporaneo che invece conoscono anche nel Burkina-Faso (con tutto il rispetto). 

Dopo la Seconda sinfonia proposta da Francesco Attardi un anno e mezzo fa, la Sgambati-renaissance de laVERDI prosegue con la presentazione di ben due lavori del compositore romano. Il quale aveva solo 8 anni meno di Brahms e precisamente uno meno di Ciajkovski, quindi (pur essendo campato fino al 1914) è da considerare come un figlio del più romantico ‘800. E Brahms e Ciajkovski lui ebbe modo di conoscerli bene, quanto Liszt (di cui fu allievo a Roma) e Wagner (che lo introdusse all’editore Schott): ciò si può benissimo dedurre ascoltando il suo Concerto per pianoforte, che pare volersi ispirare ai modelli più famosi del suo tempo (Liszt, in primis). Purtroppo capita spesso che l’ispirazione degradi a imitazione, e questo lavoro sa di velleitari scimmiottamenti: un succedersi di enfasi, retorica e affettazione, teatralità a buon mercato, virtuosismi del solista fine a se stessi, da cui si salvano a stento il tema contemplativo del Moderato iniziale e la centrale Romanza. Insomma, gli si addicono vecchie sentenze: effetti senza causa, cominciamenti che non portano da nessuna parte, o se si preferisce: molto fumo e poco arrosto, ecco.

L’apertura del Moderato-maestoso ha la pretesa di imitare Chopin (1° concerto) con il solista lasciato inoperoso ad aspettare che l’orchestra esegua da sola l’intera esposizione tematica, prima di dare la parola il suono al pianoforte. Solo che Sgambati... non è Chopin, ahilui, e il risultato lascia alquanto a desiderare. Come detto, la Romanza è più digeribile, forse anche perchè assai breve! Anche il finale Allegro animato non riscatta le magagne precedenti, a dispetto degli ammiccamenti all’ungherese. Insomma, ci sono valide ragioni per spiegare perchè il Concerto sia finito nel dimenticatoio.

La croata Martina Filjak (una... gran gnocca che nasconde benissimo i suoi 38 anni - accipicchia, pare una ragazzina, ieri poi si è presentata come una caramella avvolta in carta dorata sberlucicante!) ha cercato di indorare la pillola proponendocelo con grande piglio e tecnica sopraffina. Anche per lei si tratta di un pezzo ancora da mandar bene a memoria (si è portata dietro tanto di spartito e assistente volta-pagine...) e chissà se mai deciderà di metterlo stabilmente in repertorio. Così si è rifatta con un applauditissimo bis bach-lisztiano (lei ha fatto solo il preludio).
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Il concerto si era però aperto con la prima italiana di un altro lavoro di Sgambati: un Cantabile per archi (con nove parti reali) che è in effetti una ricostruzione (fedele non si sa quanto) fatta da Roberto Fiore di una composizione andata perduta. Devo dire che (forse grazie al ricostruttore!) si tratta di 10 minuti di musica gradevole e... ispirata, che si può ascoltare qui, diretta proprio da Fiore in occasione della prima in Polonia.

Questa volontà de laVERDI di promuovere la riscoperta del dimenticato Sgambati, così come la recente riproposta di lavori di Malipiero, ha di sicuro molti meriti, compreso quello di evidenziare l’oggettiva distanza che separa le opere di questi compositori da quelle dei loro coevi, ecco.  
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Ha chiuso il concerto la Quarta di Brahms, nelle ultime stagioni già comparsa qui sotto le bacchette di Ceccato, Xian, Axelrod e dello stesso D’Espinosa. Che ne ha dato un’interpretazione severa, a partire dall’Allegro non troppo, dove lui ha calcato la mano sul non troppo, comunque senza mai perdere nerbo e tensione. Accattivanti le diverse, impercettibili, cesure che lui ha introdotto qua e là (ma non certo a caso, bensì in punti strategici della partitura) che dimostrano se non altro il coraggio di esprimere la propria sensibilità interpretativa. L’Orchestra ha risposto come sempre alla grande, e grande è stata l’accoglienza di un pubblico non particolarmente numeroso, che però si è fatto sentire con reiterate grida di bravi! in aggiunta ai calorosi applausi.

21 febbraio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 22


Due Mozart (bambino e adulto) introducono un Bartók teatrale nel concerto di questa settimana, diretto da Gaetano D’Espinosa.  

Apre la serata una delle prime opere del Teofilino, la Sinfonia K16, probabilmente composta a Londra (quando ancora non aveva compiuto 9 anni!) in uno dei viaggi in giro per l’Europa cui il padre Leopold lo abituò fin dalla più tenera età, presentandolo al pubblico quasi come un fenomeno da baraccone…

Sinfonia in chiaro stile italiano: quello di Johann Christian Bach, operante in Albionia proprio in quel periodo. Oltre agli archi, solo due coppie di oboi e corni, più (facoltativamente) fagotto e cembalo per il basso. Ecco quindi l’Allegro molto di apertura in struttura bitematica (MIb d’impianto e dominante SIb) con doppia esposizione e successivo doppio sviluppo, con divagazioni tonali sul primo tema, dal MIb al DO minore, e il secondo che si allinea alla tonica.

Il centrale Andante ha pure struttura bipartita, con da-capo per entrambe le sezioni: la prima inizia in DO minore, ma subito il corno (battute 7-10, poi 14-17) espone in MIb maggiore un motivo di 4 note (MIb-FA-LAb-SOL) che ritroveremo nell’ultimo tempo dell’ultima sinfonia, là in DO (DO-RE-FA-MI): un frammento del Magnificat gregoriano (8° modo) che evidentemente era già entrato in testa al piccolo genio (e più non gli uscirà). La seconda sezione principia in MIb ma poi vira al DO minore, sul quale chiude.

Il Presto finale è in realtà un ibrido fra un semplice rondo (A-B-A-B-A) e un’anticipazione di scherzi a venire: sia nel rapido tempo ternario che nella struttura, dove manca per la verità solo un trio per farne appunto uno scherzo. La sezione A è in MIb, la B (manco a dirlo…) nella dominante SIb.  

D’Espinosa si premura di togliere i secondi da-capo dei primi due movimenti, così la sinfonietta diventa una… sinfoniettina, proprio un antipasto leggero in vista dei piatti ben più corposi che ci aspettano.
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Il primo dei quali è il celebre quanto difficile ed austero Concerto in RE minore (il K466). Il Direttore  lo attacca esasperando le sincopi degli archi, il che fa lievitare il già alto grado di drammaticità dell’opera. Che ha per protagonista Davide Cabassi, l’estroverso cicciottello che deve farsi perdonare un tutt’altro che impeccabile Imperatore propostoci qui in chiusura della stagione passata. E per farlo sceglie proprio quel concerto che ha per molti versi precorso i tempi dell’ultimo di Beethoven, anche se le due cadenze proposte non sono quelle ormai tradizionali del genio di Bonn, ma quelle di Brendel e Badura-Skoda, che se le erano reciprocamente dedicate.


Ecco, bisogna dare atto al Davidone di averci restituito il maltolto con ampi margini di interesse! Particolarmente felici i primi due movimenti, più ordinario (a mia impressione) il finale, ma nel complesso una prestazione degnissima. Così viene seguita da un bis proprio beethoveniano, che Cabassi dedica all’orchestra che lo ha splendidamente supportato: l’Andante dalla Patetica.   
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A conferma del crescente interesse de laVERDI per la cosiddetta lirica, ecco che viene riproposta – a distanza di quasi 5 anni (allora con Caetani) - l’operina composta nel 1911 (a 30 anni) da Béla Bartók, dal titolo che pare un’imprecazione: Kékszakállú, che per noi sarebbe poi il famigerato Barbablu!

Avendo già scritto alcune note di presentazione dell’opera in occasione di una sua produzione fiorentina, ad esse rimando gli inguaribili perditempo…

La programmazione di opere in forma di concerto fa regolarmente sorgere dubbi, per via dei rischi che presenta, dal punto di vista della pienezza della fruizione da parte del pubblico. Premetto che sono personalmente un fautore di questo genere di proposta, in specie per quelle opere dove il soggetto è un puro pretesto e un vuoto contenitore per grande musica, alla quale ciò che si vede in scena fornisce un valore aggiunto prossimo allo zero. Peggio ancora quando un soggetto di una certa profondità viene bellamente manomesso e adulterato da regìe cervellotiche, che raggiungono il mirabile risultato di lasciare lo spettatore interdetto a pensare ai profondi significati che il regista ci vuol trasmettere, col risultato di perdere la concentrazione sulla musica, e con questa la bellezza dell’insieme; oppure lo lasciano sconcertato di fronte alla difformità fra ciò che odono le sue orecchie (testo e musica) e ciò che vedono i suoi occhi.

Certo, l’esecuzione senza la scena presenta le sue belle controindicazioni, la più grave consistendo nella mancanza di informazioni di contesto, normalmente fornite dalle scenografie, dai costumi e dai movimenti dei protagonisti, come suggeriti a regista e scenografo (ammesso che li vogliano rispettare!) da tutte le note di cui gli autori hanno corredato libretto e partitura. Mancanza che può mettere in seria difficoltà lo spettatore inesperto di quell’opera.

Ma allora domandiamoci: non è questo il classico scenario di ogni poema sinfonico? Dove mancano scene e testo e dove anche le note esplicative – dato e non concesso che l’autore le abbia vergate in partitura – non vengono comunicate allo spettatore attraverso schermi o display? Eppure si può apprezzare il lisztiano Les Préludes senza conoscerne il riferimento letterario a Lamartine (del resto appiccitatovi a posteriori!) perché la musica ci cattura e ci piace, anche istintivamente. Mentre magari (de gustibus) si può restare indifferenti o delusi dall’Isola dei morti di Rachmaninov, pur conoscendo ed apprezzando le cinque versioni del quadro di Böcklin che lo ispirò…

Insomma: alla fine, quando di mezzo c’è la musica, è questa che ha sempre (nel bene e nel male) l’ultima parola, poche balle. E perciò un poema sinfonico è – paradossalmente – avvantaggiato rispetto ad un’opera data in forma di concerto, poiché impegna dell’ascoltatore normale (non specializzato/preparato) soltanto la capacità ricettiva dei suoni, mentre l’altra in qualche modo impone anche la comprensione del soggetto letterario, che senza il supporto della scenografia può diventare ardua.  

Veniamo ora al nostro Barbablu. Che nacque non solo come opera di teatro musicale, ma che è ricca di elementi e indicazioni spiccatamente teatrali, per di più legate ad esplicite o criptiche allusioni di natura simbolista e/o esoterica: le sette porte e i rispettivi ambienti che dietro ad esse si celano; i colori che emanano dalle sale all’apertura delle porte medesime; il sudore e i rantoli delle pareti del castello; le porte che, dopo essere state aperte, progressivamente si chiudono…

In più, Barbablu presenta purtroppo per noi diverse difficoltà di comprensione: a partire dalla lingua magiara, che è fra le più ostiche e distanti da tutte le altre che più o meno possiamo in qualche modo masticare (né neolatina, né anglosassone, né eurorientale, ma… finnica!) E d’altra parte l’autore ha composto la musica – dopo lunghe e faticose ricerche - precisamente in funzione dell’idioma magiaro, il che comporta altri e più gravi problemi quando si decide di cantare il testo in altra lingua. Poi aggiungiamo la musica stessa, dove c’è poca tonalità e molta modalità, atonalità e dissonanze… insomma, musica che è tutto fuorchè di facile e rapida digestione.

Ma allora, l’esecuzione in forma di concerto del Barbablu comporta il rischio di compromettere irrimediabilmente la comprensione (prerequisito) e quindi (conseguenza) l’apprezzamento da parte dell’ascoltatore dei contenuti drammatici (le mille sfumature, i possibili significati e i reconditi misteri) e musicali dell’opera? Mah, qui bisognerebbe fare studi socio-demo-musicologici per stabilirlo; oppure fare degli exit-poll all’uscita dal concerto dove si chieda ai presenti di spiegare se e quanto hanno compreso e apprezzato di ciò che hanno udito. Tipo Gurnemanz che intervista Parsifal alla fine della cerimonia del Gral (smile!) E quante facce da oco (iper-smile!) incroceremmo?

Beh, a giudicare dal calore con cui il pubblico ha accolto direttore, orchestra e solisti dovrei dire che le preoccupazioni sono state ampiamente fugate: evidentemente, ancora una volta, la musica - se è di altissimo livello come questa – l’ha sempre vinta.

Detto che l’orchestra non ha mostrato una sola sbavatura nell’intero arco dei 60 e più minuti di impegno e che D’Espinosa l’ha guidata con precisione ed autorevolezza, restano da elogiare i due solisti: Krisztián Cser è uno strepitoso Barbablu, voce di potenza inaudita e di timbro fantastico; Dshamilja Kaiser è forse un filino al di sotto, ma pur sempre una Judit convincente.

Un’ultima notazione riguarda la regìa (occulta, date le circostanze) dell’opera, che ha inventato un finale davvero a sorpresa: per ben due volte, prima al momento della reclusione dietro la settima porta, e poi proprio mentre l’orchestra esalava gli ultimi suoni in pianissimo, ecco che Judit ha cercato di chiamare in suo soccorso, sul telefonino, il padre seduto nelle prime file di platea. Ma essendosi costui fatalmente appisolato, il suo cellulare ha continuato a squillare invano per interminabili secondi, e quando il poveraccio è stato ridestato dagli applausi, ormai la povera Judit era irrimediabilmente perduta!

11 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 4

 

Gaetano D’Espinosa ridà il cambio a Zhang Xian sul podio dell’Auditorium per dirigere un concerto del genere testa-coda. No, non parlo delle ultime esibizioni della Ferrari, ma dell’accostamento degli autori in programma: poi, quale sia da considerare testa e quale coda… lo stabilisca ciascuno in piena libertà (smile!) La prima parte della serata presenta due opere, diciamo, contemporanee: fra loro e a noi; la seconda ci ripropone un celeberrimo titolo del profondo ottocento.

I due pezzi di musica (cosiddetta) moderna sono in programma per via dell’apparentamento con il Festival di Milano Musica, nel cui cartellone figura questo concerto in Auditorium. Si tratta di opere di due compositori scomparsi e purtroppo in modo prematuro: Armando Gentilucci a 50 anni († 12 novembre, 1989) e Fausto Romitelli (cui è dedicato il citato Festival) a soli 41 († 27 giugno, 2004).

Di Gentilucci abbiamo ascoltato la corposa Suite dall’opera Moby Dick, unica composizione teatrale del leccese, che vi aveva dedicato gli ultimi anni di vita e che non è ancora mai stata portata in scena. Trattandosi di musica per il teatro, è ovviamente legata al famoso soggetto di Herman Melville, quindi ci troviamo sottotitoli come: la nave, i mare, il tifone, la balena e i gorghi. I vari numeri (7) sembrano in effetti galleggiare su un tranquillo tappeto di suoni cui arpa e celesta in particolare conferiscono un carattere… liquido. Non mancano ovviamente pochi squarci drammatici, come il tifone e i gorghi. Se devo proprio essere sincero, nulla di paragonabile, per dire, ai preludi marini del Grimes.

Ecco poi una prima assoluta: Meridiana, composizione giovanile (26 anni) del goriziano Romitelli, scovata dopo la sua morte fra le sue carte e recentemente pubblicata. Pare che nessuno ne sappia nulla, quindi ignota è anche l’origine del titolo: potrebbe essere indifferentemente l’orologio solare o la compagnia aerea. Personalmente – sentita la musica – propenderei per una variante friulana dell’après-midi… dove tutto è calma, rotta tutt’al più da sommessi ronzii di qualche insetto.

Ecco, saldato il debito con la modernità (smile!) ci siamo stomacati con una bella fettona di sacher all’amburghese (stra-smile!): la Quarta di Brahms. D’Espinosa ha messo sulla torta qualche pizzico di… peperoncino (piccoli scarti di tempo) così da rendercela meno abitudinaria. L’orchestra ha risposto bene (Max Crepaldi in testa, con il suo splendido recitativo al flauto nel Finale) ma non direi proprio benissimo, e i corni hanno lasciato un poco a desiderare, specie nel grandioso corale della conclusiva passacaglia. Ma nessuno ha protestato, al contrario!

27 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 2

 

Il compianto Rudolf Barshai – che per anni fu Direttore principale dell’Orchestra - è il protagonista del secondo concerto de laVERDI, condotto da uno degli attuali Direttori principali ospiti, Gaetano D’Espinosa.

In programma due lavori di cui Barshai è stato, come dire, il secondo padre: non li ha messi al mondo lui, ma li ha svezzati e allevati con grande cura e amore.

Dal maestro e amico Dimitri Shostakovich Barshai ebbe l’autorizzazione a trascrivere per orchestra d’archi il famoso quanto controverso Quartetto n°8 op.110, divenuto quindi Sinfonia da camera op.110a. Nel marzo di 4 anni fa un malanno improvviso gli impedì di dirigerla personalmente in Auditorium (lo sostituì Grazioli) dove purtroppo non mise più piede, essendo venuto a mancare nel novembre di quello stesso anno: questo concerto è quindi anche un doveroso tributo alla sua grande figura di musicista. 

Dell’ottavo Quartetto si è scritto di tutto, date le circostanze in cui fu composto e le (pseudo?) rivelazioni che dopo la morte del compositore ne misero in nuova e diversa luce la figura di uomo e i rapporti con il potere sovietico.

In memoria delle vittime di fascismo e guerra: questa la dedica (che peraltro Shostakovich annunciò, solo a voce, un paio di mesi dopo la composizione) del quartetto, composto in soli tre giorni (12-14 luglio) nel 1960 a Dresda, dove ancora erano evidenti i segni lasciati dai terribili bombardamenti alleati che in 2 notti (13-15 febbraio, 1945) avevano ridotto la splendida Firenze dell’Elba ad un cumulo di macerie.

Ma quello era anche il periodo in cui il compositore, avendo accettato pochi mesi addietro la nomina a Primo Segretario dell’Unione Compositori della Repubblica Russa, aveva di conseguenza dovuto far richiesta di iscrizione al Partito Comunista (iscrizione che lui aveva prima di allora categoricamente rifiutato e che verrà confermata pochi mesi dopo): un atto di cui Shostakovich non poteva non valutare (e subire!) portata e conseguenze.

Nella famosa lettera scritta all’amico Isaak Davydovich Glikman nemmeno una settimana dopo la composizione del Quartetto, Shostakovich vi getta una luce assai lontana da quella della dedica pseudo-ufficiale (che annuncerà posteriormente!): arrivando a definirlo ideologicamente riprovevole e in realtà pensato come un auto-epitaffio! In effetti cosa c’entrino con le vittime di fascismo e guerra le auto-citazioni da alcune sinfonie (1, 5 e 8), un trio (2), un concerto (cello) e la Lady, più quelle della Patetica, del beethoveniano Muß es sein? e un po’ di Wagner – il tutto infarcito da massicce dosi della propria sigla DSCH! - è arduo da comprendere. Però è pur vero che le citazioni (nel secondo movimento) di un tema ebraico composto nel ’44 in pieno Olocausto e (nel quarto) di un canto di prigionia (Oppresso da duro servaggio) parrebbero testimoniare della sincerità dell’approccio di Shostakovich. 

In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale. 

Un corposo, acuto (e pure pedante…) saggio di Peter J. Rabinowitz propone invece una intrigante spiegazione per le origini del Quartetto: partendo dall’osservazione di un parallelo/precedente, che ha come soggetto Richard Strauss. Come Shostakovich, anche il bavarese era stato (in musica) un focoso rivoluzionario ad inizio carriera, per poi mutarsi in conservatore ed assumere un atteggiamento compiacente (ma non servile) verso il Terzo Reich; aveva composto da (abbastanza) giovane un brano smaccatamente autobiografico (Ein Heldenleben, infarcito di auto-citazioni) e poi, a WWII finita e con Monaco in macerie, aveva apposto il sigillo In Memoriam alle sue costernate meditazioni delle Metamorphosen, citando la marcia funebre dell’Eroica. Ecco, perché non ipotizzare che Shostakovich, in questo suo ottavo quartetto, abbia inteso condensare il suo curriculum di artista e allo stesso tempo abbia inteso esternare il suo stato d‘animo di uomo disilluso e tradito nei suoi ideali dalla dura realtà?

La rapidità della composizione (che i maligni potrebbero obiettare essere solo un affrettato affastellamento di citazioni, proprie e altrui, senza alcunché di originale…) può far pensare ad uno Shostakovich in realtà disimpegnato e perfino ipocrita; però va riconosciuto che quella splendida compiutezza della forma (definizione usata dal compositore nella lettera a Glikman) non è proprio una millanteria, e se si ascolta il Quartetto senza far troppo caso ai riferimenti (musicali ed extra-) non si può non rimanerne ammirati. 
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La macro-struttura del Quartetto è di tipo, diciamo, tardo-mahleriano: ai due estremi i movimenti lenti (1/4-5) e al centro quelli allegri (2-3). Tutti sono connessi senza soluzione di continuità. L’impianto tonale (tutto in minore) presenta pure una certa qual simmetria: DO-SOL#-SOL-DO#-DO (notare il tritono che separa il movimento centrale dal successivo). E anche la durata dei movimenti è abbastanza uniforme, mantenendosi fra 3 minuti e mezzo e cinque e mezzo, per un totale di circa 20-23 minuti.

Seguiamo ora la musica sulla registrazione originale della prima, tenutasi a Leningrado il 2 ottobre 1960, interprete il Quartetto Beethoven.

Il primo dei cinque movimenti (Largo, DO minore) si apre con l’esposizione della firma dell’Autore, quella sigla DSCH (Dimitri SCHostakowitsch, alla tedesca) che in musica si traduce in RE-MIb-DO-SI: è il violoncello ad attaccarla, seguito a canone stretto dagli altri tre archi, con la seconda e la quarta voce sul quinto grado:


A 40” il primo violino, dopo aver reiterato (col secondo) la firma, attacca un motivo, poi ripreso dal secondo e dalla viola, che cita – in modo mesto – l’apertura impertinente (là affidata a tromba e fagotto) della Prima Sinfonia:

A 55” è sempre il primo violino a chiudere questa sezione con la firma dell’Autore, sulla quinta vuota nel grave (DO-SOL) degli altri tre strumenti; e sempre lui (a 1’04”) si imbarca in un lugubre recitativo di 18 misure che si muove prevalentemente per gradi congiunti e che sembra alludere alla Patetica (secondo soggetto del primo movimento) chiuso (a 1’40”) dalla firma nel violoncello; cui segue nel primo violino un breve passaggio che ne ricorda uno dall’Andante della mozartiana Sinfonia Concertante per violino e viola, chiuso da un inciso (DO-SOL-SOL-DO-SI) che tornerà alla fine del movimento e alla fine del quartetto. A 1’56” ecco una nuova auto-citazione, dalla Quinta Sinfonia (la più famosa ed eseguita di Shostakovich): è la melodia esposta dai primi violini a battuta 6 del Moderato di apertura dell’Op.47:
Il motivo viene reiterato altre due volte, prima di sfociare, in tutti gli archi (2’37”) in un perentorio ritorno della firma, in tempo dilatato. Ora un passaggio con qualche sprazzo di luce (come un fugace DO maggiore a 2’55”) porta ad una ripresa della firma (3’24”) e ancora (3’35”) della citazione dalla Prima Sinfonia. Un’ultima (per ora…) ricomparsa della firma (3’51”) porta alla mesta chiusura su un lungo SOL# di 3 dei 4 archi (il violino primo tacetpreceduto dall’inciso udito prima del richiamo alla Quinta.

A 4’09” inizia bruscamente l’Allegro molto, uno dei caratteristici, indiavolati e martellanti scherzi di Shostakovich, che si rifà chiaramente all’Allegro non troppo dell’Ottava Sinfonia, ma correndo a velocità ancor doppia! Sono semiminime che si inseguono in volate vertiginose, sulle quali arriva puntuale quanto trafelata e ansimante la firma dell’Autore, dapprima nei quattro strumenti (dal grave all’acuto, da 4’37”) e poi nel solo violino primo, che la reitera 3 volte e mezza (da 4’40”). La corsa a rotta di collo prosegue fino a sfociare, modulando a DO minore (5’06”) nella perorazione del tema ebraico che Shostakovich aveva già impiegato nel finale del suo secondo Trio con pianoforte:



Restando in DO minore riprende il motivo principale (5’20”) e a 5’30”, poi a 5’36” si fa immancabilmente risentire, nel primo violino e sempre in tempo dilatato, la firma. Che ricompare poco dopo nel violoncello (5’51”) e subito nella viola.

A 5’59” si torna a SOL# minore per l’inizio della seconda parte del movimento, che in pratica ripercorre il cammino della prima. A 6’21” è ancora il DO minore a farla da padrone, recandoci, a 6’27” e poi a 6’30”, altre due firme, sempre nel primo violino; viola e violoncello (6’38”) ripropongono ora il motivo ebraico che letteralmente… scompare come in un pof! su una dissonanza MIb-FA# seguita da una corona puntata. È la fine del movimento (6’49”) che lascia ora spazio al SOL minore dell’Allegretto.

A 6’51” il primo violino attacca… con cosa? La firma! A 6’56 si passa da 4/4 al walzer! Ed è un walzer davvero spiritato (qualcuno ci vede somiglianze con la Danse macabre) che gioca con la firma come un gatto col topo! A 7’05” violoncello e viola danno smaccatamente il tempo, sul quale il primo violino attacca il tema costruito sulla sigla DDSCH, che si può leggere come Dimitri Dimitrevich SCHostakovich… quindi una cosa fra il presuntuoso e l’affettato:


Dopo che il tema è stato riproposto, abbiamo un nuovo soggetto (7’40”) dove la firma compare di sfuggita nel secondo violino (7’50”). A 8’06 riprende il motivo conduttore che poco dopo (8’16”) lascia spazio ad una transizione dove udiamo per quattro volte la firma normale, che ci porta alla sezione centrale del movimento. Qui (8’36”) il primo violino cita il tema che il violoncello espone proprio all’inizio del Concerto op.107:

A 8’45” troviamo un nuovo motivo, un comodo recitativo esposto dal violoncello nel registro acuto sulle ondeggianti crome dei violini, che ci porta (9’13”) alla parte conclusiva del movimento, che è una ripresa condensata della sezione iniziale, quindi vi risentiamo il DDSCH e il secondo soggetto. A 10’12” inizia una coda che il solo primo violino completa con una vaghissima reminiscenza della Patetica e chiudendo poi su un LA# grave.    

Il Quarto movimento (10’41”) è un Largo in DO# minore. Nelle prime tre battute, sul lungo LA# grave del primo violino in pianissimo che si prolunga dal movimento precedente, si ode un duplice segnale, in fortissimo, degli altri archi. Chi vuole può sentirci il sordo rombo dei bombardieri in avvicinamento su Dresda su cui si sovrappongono i secchi richiami delle sirene (o i colpi della contraerea?) Ma già alla battuta successiva è la storia della musica a farsi largo:
Sì, un altro famoso Quartetto: l’Op.135 di Beethoven! Shostakovich aveva già impiegato il tema, senza le tre pesanti crome che lo chiudono, nella colonna sonora del film La giovane guardia, del 1948, senza contare la parentela con il motivo del concerto per violoncello citato più sopra. Forse a questo motivo fa riferimento il compositore nella sua lettera a Glikman, quando cita Wagner: in effetti una lontana parentela con l’Enigma del Destino ci può anche stare, visto che pur sempre di una domanda si tratta… 

Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.

Introdotto dal DSCH (un tono sopra) della viola e del violoncello, ecco ora (12’46”) comparire nel primo violino un canto rivoluzionario: Zamuchen tyazheloy nevoley (Oppresso da duro servaggio); un testo ottocentesco (di Grigorij Machtet) cantato persino ai funerali di Lenin, che rimanda ai campi di prigionia zaristi:



A 13’41” il primo violino propone una melodia che vagamente ricorda il Poco più mosso del 3° movimento della Sinfonia 11, e poco dopo (14’02”) è la volta di un’altra auto-citazione, ancora negli acuti del violoncello: la bellissima melodia che Ekaterina Lvovna canta a Sergei nella prigione che li accoglie lungo la via della deportazione in Siberia:


A 14’44” torna a farsi sentire il drammatico richiamo che aveva introdotto il movimento, seguito dall’incipit del canto rivoluzionario e da un’ultima apparizione del richiamo iniziale. Infine (15’16”) il primo violino ci ricorda il Dies Irae e poi appone l’ennesima firma al movimento.

Il finale Largo, in DO minore, si apre (15’31”) con la firma nel violoncello, seguita dal motivo mozartiano già apparso nel primo movimento (prima della citazione della Quinta sinfonia). Viola, violino secondo e primo ripetono la firma (seconda e quarta voce sul quinto grado) come all’inizio del quartetto, ma stavolta a canone largo. In contrappunto si ode, dapprima nel violoncello (15’48”) un motivo che viene dalla quarta scena della Lady Macbeth, quella dell’insonnia di Boris Izmailov. Curiosa la rassomiglianza di questo motivo con una parte del tema dell’Inno sovietico (composto da Alexander Alexandrov più di 20 anni dopo la Lady!)

Chissà se Shostakovich abbia voluto farci un criptico riferimento alla situazione politica (e magari alle sue segrete speranze) visto che il tema, alla fine, va praticamente a… morire. A 16’10” il primo violino chiude la quarta voce della firma e ha inizio la seconda parte dell’esposizione, dove il motivo dalla Lady contrappunta nuove apparizioni della firma da gradi diversi.

A 17’23”, come all’inizio del quartetto, si ripete la firma a canone stretto, seguita dal solo incipit della citazione della Prima sinfonia, sostituito dal motivo dalla Lady, che si spegne sommessamente; a 18’16” l’ultima firma del primo violino, poi l’inciso DO-SOL-SOL-DO-SI udito nel primo movimento porta alla mesta chiusura, sulla quinta vuota DO-SOL nel grave. 
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Anche quando autorizzata dall’Autore, e realizzata con grande cura, come in questo caso, la trascrizione di un quartetto per l’orchestra lascia sempre a desiderare, poiché fatalmente si viene a perdere quella trasparenza e pulizia di suono che costituiscono i principali punti di forza di questo genere musicale. Ad ogni modo va fatto tanto di cappello ai ragazzi e al Direttore per aver dato il meglio per trasmettere al pubblico almeno i contenuti dell’opera, se non la sua forma originale. La quale si potrà apprezzare fra poche settimane (31 ottobre) all’Auditorium SanFedele di Milano, eseguita dal Quartetto di Cremona in un concerto del 23° Festival di MilanoMusica.
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L’altro lavoro di Barshai presentato in questo concerto è la colossale, quanto spuria, Decima di Mahler, che era in programma già lo scorso marzo, ma di cui allora si era inopinatamente eseguito solo il tradizionale Adagio.

Essendo rimasta allo stato di abbozzo, per quanto abbastanza completo (come abbozzo) la sinfonia fu oggetto di un prima edizione da parte di Deryck Cooke nei primi anni ’60 del secolo scorso. Dopo la liberatoria di Alma del 1963, diversi altri musicisti/musicologi si sono cimentati nell’impresa e Barshai si è aggiunto nel 2000 (ma altri sono seguiti). Più di tre anni fa abbiamo ascoltato qui in Auditorium la versione Cooke (stampata da Faber) sulla quale scrissi qualche nota.

La versione Barshai (stampata dalla Universal) è ovviamente diversa da quella di Cooke di cui, fosse anche solo per ragioni cronologiche, ha sfruttato l’esperienza delle numerosissime esecuzioni ed incisioni fattene (anche dallo stesso direttore russo) negli ultimi 50 anni. Le differenze fra le due versioni che vengono maggiormente in luce, almeno a fronte del semplice ascolto, riguardano il Finale, dove l’orchestrazione di Barshai appare più ricca e, in particolare, aumenta il ruolo e il peso degli archi. Per il resto si tratta di sfumature che è difficile cogliere anche ad un orecchio… allenato. 

L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:


E come par di sentire anche nella registrazione di Barshai (da 52’58”). Ecco, ci resta solo da ricordare con affetto il Maestro, che fra poco più di un mese avrebbe compiuto 90 anni.

26 aprile, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°31

 

Gaetano D’Espinosa, uno dei tre Direttori Principali Ospiti, propone per il suo ritorno sul podio de laVerdi un abbinamento assai interessante: Beethoven e Bartók.

Del genio di Bonn va in scena il Primo dei cinque Concerti per pianoforte (di cui sentiremo l’integrale in questo fine-stagione) interpretato dal 35enne reggino Giuseppe Albanese.

Come anche il secondo (in realtà sappiamo che i primi due concerti furono numerati… a ritroso) questo fu poco considerato dall’Autore medesimo, che invece era convinto di far breccia con il suo Terzo: effettivamente fra quest’ultimo e i primi due, pur essendo tutti abbastanza vicini come data di composizione, c’è quasi un abisso, proprio il passaggio dal ‘700 all’800.

Però che ‘700! Quello dei migliori Haydn e Mozart, di cui Beethoven aveva letteralmente divorato la tecnica formale, sulla quale innestava la sua già spiccata ispirazione. In particolare da Mozart troviamo nell’iniziale Allegro con brio un uso ardito della forma-sonata, con l’esposizione orchestrale che presenta il maschio tema principale in DO maggiore che ingloba il secondo in MIb maggiore, poi modulante a FA e SOL minore, quindi a FA maggiore e MIb, prima di tornare al DO; mentre quella successiva del solista vede il primo tema assai addolcito e divenuto quasi spiritoso ed il secondo, canonicamente, esposto in SOL maggiore. Come non sentire poi nel Largo riflessi e atmosfere del K467… 

Albanese ci regala un’interpretazione paradigmatica della natura di questo concerto: leziosità proprio settecentesche alternate a squarci eroico-romantici, tipo il FA in ottava che precede la scala discendente in chiusura dello sviluppo, dove la meccanica del pianoforte deve aver corso qualche serio rischio (smile!)

Beethoven scrisse, una buona decina d’anni dopo il concerto, ben tre (mah dai, facciamo due e mezza…) cadenze per il primo movimento: di queste la terza è senza ombra di dubbio la più impegnativa, anche per la sua lunghezza invero spropositata. Ecco, Albanese non ha voluto essere da meno dei grandi interpreti di ieri e oggi e ha scelto di proporci proprio questa, con un piglio a dir poco travolgente! 

Accoglienza calorosissima (il pubblico non era proprio da pienone, ma secondo me era comunque oceanico, stante il… ponte) e non poteva quindi mancare un bis che, tanto per ribadire il concetto, ci ha mostrato un Albanese scatenato nel Moto perpetuo dalla Prima sonata di C.M. von Weber!

Ma Albanese ha sfoggiato anche qualcosa di davvero glamour:


Ohibò! (anche i pedali hanno diritto ad un trattamento particolare…)

A completamento del programma ecco il Concerto per Orchestra del compositore ungherese. Il quale ebbe vita assai grama negli USA e scomparve proprio alla fine della guerra (di cui resta un tragicomico ricordo nell’Intermezzo-interrotto, col richiamo alla Leningrado di Shostakovich). Un suo compatriota, che invece dopo i guai della guerra se l’è spassata mica male, diventando addirittura sir, qui rende omaggio al grande Béla proprio interpretandone questa che fu una delle sue ultime composizioni, di cui contribuì anche a mettere a punto l’edizione critica.

Come dice il titolo, qui l’orchestra è trattata non come un reggimento di soldatini, bensì come un cenacolo di solisti, e tutti hanno la loro brava parte di evidenza, dalle arpe ai timpani (per citare solo due strumenti spesso impiegati a far da riempitivo). laVerdi ha ormai questo pezzo nel suo repertorio, proprio a dimostrazione di come l’orchestra sia formata da notevoli individualità, che poi suonano meravigliosamente insieme. E così – merito anche del Direttore, ovviamente - è stato anche ieri sera.

01 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°23

 

Sul podio dell’Auditorium torna Gaetano D’Espinosa proponendoci un programma incentrato sullo Schubert sinfonico, arricchito da un paio di brani lontanissimi fra loro (e non solo nel tempo).

Apre la musica di danza dall’Idomeneo (K366) mozartiano, che è accorpata sotto un proprio numero di catalogo (K367). Riporto più sotto la struttura del brano: come si vede dai nomi che compaiono nei sottotitoli, la musica fu espressamente preparata per alcuni famosi danzatori dell’epoca (così come tutta quella dell’Idomeneo fu composta avendo in mente la famosa orchestra di Mannheim che suonò alle recite inaugurali di Monaco nel gennaio 1781). Questi balletti dovrebbero chiudere l’opera, ma solitamente vengono cassati dalle rappresentazioni teatrali (lo furono anche alla prima!) e anche quando vengono eseguiti (come nelle recenti edizioni alla Scala) subiscono dei tagli.

I 5 numeri di balletto - nell’edizione critica di Bärenreiter per la NMA - sono così articolati (ho indicato sommariamente l’agogica, le tonalità principali e il numero di battute delle diverse sezioni - che peraltro possono variare di poco a seconda che il Direttore impieghi o meno parti aggiuntive):

1. Chaconne (Allegro, RE maggiore)
    Pour le Ballet (1-25)
    Pas de deux pour M.me Hartig et M.r Antoine (26-61)
    Pour le Ballet (62-79)
    Pas seul de M.me Falgera (80-129)
    Pour le Ballet (130-153)
   Larghetto pour M.me Hartig (SIb maggiore, 153-161)
    Pas seul de M.me Hartig (161-206)
    La Chaconne, qui reprend (Allegro, RE minore – FA maggiore, 207-225)
    Pas de M.me Hartig (226-283)
    Pour le Ballet (RE maggiore, 284-318)
2. Pas seul de M.r Le Grand (RE maggiore)
    (Largo, 1-18)
    (Allegretto, 19-47)
    (Più allegro, 48-97) 
    Pour le Ballet (Più allegro, 98-160) 
3. Passepied pour Mad.selle Redwen
    (Minuetto - Sib maggiore 1-8, 9-16, ritornelli)  
    (Minuetto - Sib minore 17-24, 25-32, ritornelli)  
    (Minuetto - Sib maggiore 1-8, 9-16, ritornelli)  
    Pas seul de Mad.selle Redwen   
    (Trio - Sib maggiore 33-40, 41-48, ritornelli)  
    Passepied (Minuetto - Sib maggiore 1-8, 9-16, ritornelli)  
4. Gavotte   
    (SOL maggiore, 1-8, 9-16, ritornelli)
    (SOL maggiore, RE maggiore, 17-46)
    (SOL maggiore, 47-54, 54-62, ritornelli)
    (coda modulante a MIb, 62-65)
5. Passacaille pour M.r Antoine (MIb maggiore, 1-23)   
    Pas seul de M.r Antoine (MIb maggiore - Sib maggiore – MIb maggiore, 24-63)
    Pour le Ballet (64-71)
    Pas de deux de Mad.me Falgera e M.r Le Grand (72-114)
    Pour le Ballet (115-128)

Qualche volta la Gavotte n°4 viene inserita - come suggerito dall’edizione critica, più o meno plausibilmente - nel finale dell’atto primo. Il suo tema verrà qualche anno dopo impiegato da Mozart nel Finale del Concerto K503 per pianoforte:

Nemmeno sulla sequenza dei brani - così come presentata nell’edizione critica – c’è concordanza di vedute. Ad esempio alla Scala il balletto finale fu tagliato della Gavotte, ma è pur vero che questa si chiude con il ponte modulante al MIb della finale Passacaille, il che lascerebbe pensare che ad essa vada necessariamente premessa… Da parte sua la Passacaille mal si presta a chiudere l’intero spettacolo, con tre accordi in pianissimo di MIb. Ecco che allora c’è chi suggerisce una sequenza dei numeri assai diversa: eseguire la Chaconne fino alla battuta 206 (fine del Larghetto in SIb) e far seguire quindi i numeri 4-5-3, arrivando perciò ad un SIb maggiore come in chiusura del Larghetto. Da qui riprendere la Chaconne a battuta 207 per chiudere poi con l’enfatico n°2 in RE maggiore, che è la tonalità del DNA dell’opera!    

Insomma, il destino di questa musica è piuttosto curioso: nell’opera per la quale fu composta non viene (quasi) mai eseguita, sia per non dilatarne eccessivamente i tempi, e soprattutto perché si appenderebbero circa 25’ di puro balletto ad uno spettacolo teatrale ormai arrivato alla sua conclusione, con gli interpreti di canto che nulla hanno più da cantare. In compenso l’esecuzione del K367 in concerto è abbastanza rara poiché si tratta di musica che – senza le evoluzioni dei danzatori - tende un pochino a… stancare. Insomma, il povero Teofilo ha fatto una cosa assai bella in sé, ma che viene considerata né carne, né pesce.

Comunque D’Espinosa ce la porge con il massimo della dedizione e si merita l’applauso convinto del pubblico (non proprio oceanico) dell’Auditorium.
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Ecco poi la Quinta, una sinfonietta leggera-leggera, che torna a farsi udire in Auditorium qui dopo quasi quattro anni. Ma è sempre un piacere ascoltare questo Schubert cameristico-liederistico, che lascia sfogare la sua vena spontanea, lontano dalle elucubrazioni (in senso positivo, ovviamente) di Beethoven e dalla compassata austerità di Haydn, restando forse più vicino e ispirandosi (vedi il Menuetto) al geniale Teofilo. 

D’Espinosa in effetti la prende come fosse la K182… (del coetaneo Mozart) e questo credo sia un bene: fossi stato in lui, avrei anche smagrito il pacchetto degli archi, per accentuare il carattere cameristico dell’opera. Per asciugarla ulteriormente, salta un paio di ritornelli (prima sezione del Menuetto ed esposizione del Finale); nonostante (o a merito di) ciò si procura l’applauso dell’affezionato pubblico. 
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Continuando la tradizione de laVerdi, consistente nell’affiancare al grande repertorio classico anche lavori moderni, ecco che ci viene proposto Gutta cavat lapidem di Lucia Ronchetti.

A leggere il titolo, qualcuno potrebbe… preoccuparsi un po’: mica sarà (stra-smile!) un supplizio della goccia?! Beh, la nostra contemporanea compositrice romana (proprio una romana... autentica, di quelle che dicono va ‘bbane e fa sampre fraddo) ci ha, quanto meno per stavolta, risparmiati.

Io sarò un retrogrado insensibile alle novità, però il meglio che posso dire di questa musica è che mi va bene come usa-e-getta: per una volta la puoi anche sentire e digerire senza bisogno dell’alka-selzer (smile!) però basta così, grazie!

Quindi iersera anch’io ho devoluto qualche clap a direttore, professori (in particolare a Luca Santaniello, promosso seduta stante a sgocciolatore emerito, smile!) e… compositrice presente in sala.  
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Chiude la serata la Tragica. Beh, in confronto al pezzo della Ronchetti, qui siamo in trionfo e in paradiso (mega-smile!) È anch’essa un’opera udita da queste parti abbastanza di recente, e i ragazzi evidentemente la masticano con grande facilità.

D’Espinosa è bravo anche qui a non farne un pesante polpettone tardo-romantico: tiene tempi assai spediti e – al solito – cassa il ritornello del finale.

Dopo aver fatto applaudire le prime parti delle diverse sezioni, chiude abbracciando il suo ex-collega Santaniello, e ci dà appuntamento per fine aprile.