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16 marzo, 2023

L’immaginifico E.T.A. alla Scala

Les Contes d’Hoffmann è tornata dopo 11 anni al Piermarini (l’ultima volta con la regìa di Carsen) in una nuova produzione affidata a Davide Livermore e concertata da Frédéric Chaslin (coppia già presentatasi su questi schermi tavolati meno di due anni orsono con un’appena passabile Gioconda). Ieri sera la prima delle sei rappresentazioni, in un teatro non proprio affollatissimo.

La principale curiosità di ogni nuova messinscena dei Contes è sempre la stessa, ormai da parecchi decenni: cosa ci viene propinato delle infinite versioni ricostruzioni della partitura, lasciata incompiuta dal povero Offenbach, venuto a mancare proprio sul più bello?

L’Archivio del Teatro ci informa che le ultime quattro produzioni scaligere (1961, 1995, 2004 e 2012) avevano impiegato la famigerata e adulterata versione Choudens, approntata da quell’Ernest Guiraud che già aveva bistrattato assai la povera Carmen. Con alcune aggiunte e varianti (diverse per il 2012, come si deduce dal confronto dei libretti pubblicati) prese dalla versione Alkor-Bärenreiter curata da quell’altro stupratore seriale di partiture che rispondeva al nome di Fritz Oeser. Qui però c’è qualcosa che non torna nell'archivio: poiché la prima versione dell’edizione Alkor-Bärenreiter-Oeser fu pubblicata nel 1976, poi nel 1980, quindi non poteva essere impiegata nel 1961!

Il libretto (disponibile online) per questa produzione avverte trattarsi integralmente dell’edizione Bärenreiter-Oeser. Quindi, un passo avanti? Mah, mica tanto, poiché vengono ancora ignorate le più recenti edizioni di Schott, curate dalla coppia Michael Kaye – Jean-Christophe Keck, che se non altro si avvalgono di nuovi ritrovamenti di materiale avvenuti negli ultimi anni. Il valore di queste edizioni non risiede nell’impresa impossibile di indicare una soluzione univoca, ma nel mettere a disposizione dei responsabili della messinscena – con l’ausilio di veri e propri flow-chart - le possibili scelte da eseguire secondo criteri se non oggettivi almeno plausibili perché basati su evidenze documentali: onde evitare che direttori e registi in cerca di facile notorietà assemblino il prodotto finito in modo del tutto arbitrario e incoerente, se non addirittura scriteriato, come troppo spesso accade di vedere.

Chaslin, qualche mese addietro, aveva dichiarato di presentare in Scala la versione Choudens integrata con parti della versione Oeser (come era nelle produzioni del ‘94, ‘05 e '12) cosa che pare smentita dalla dicitura presente sulla prima pagina del libretto pubblicato dal Teatro, che cita esclusivamente Oeser. Ma poi, nella stessa intervista e in un’altra rilasciata di recente, dichiarava di aver fatto – come sempre del resto - una scelta, diciamo così, ancor più tradizionalista: riferirsi all’edizione Choudens con le sole aggiunte di Guiraud e Gunsbourg, ignorando quindi Oeser. Insomma, lui stesso non ce la racconta mai giusta…

Per di più, in entrambe le interviste, si abbandona a pesanti accuse rivolte alle più recenti sedicenti edizioni critiche. Lui non fa nomi, ma dal contesto si dovrebbe dedurre che ce l’abbia con quelle curate da Kaye-Keck, dei quali viene persino messa in dubbio la buona fede!

Dopodichè scopriamo però che il direttore francese sta per predisporre a sua volta - e la pubblicherà fra qualche tempo – indovinate un po’ che cosa? La sua edizione critica dei Contes!  Che, a suo dire, porrà la parola fine a un secolo di diatribe! Ahi ahi ahi, qui gatta ci cova… siamo alle solite (e miserelle) guerricciole fra primedonne.

Quindi? Mah, non resta che accettare supini (e se no?) ciò che passa oggi il convento scaligero e affidarsi a fonti webbiche (tipo questa) per avere un’idea di cosa di diverso avremmo potuto godere. Coscienti ovviamente che nessuna delle ricostruzioni circolanti (ed anche di prossima immissione sul mercato, caro Chaslin) potrà mai essere definita come autentica, salvo che Offenbach non si presenti in qualche seduta spiritica per farcelo sapere. Ammesso poi che lui stesso, in questi 140 anni trascorsi nell’aldilà, si sia fatto idee chiare in proposito!
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L’opera è programmaticamente a sfondo fantastico (quindi anche onirico, ovviamente) e come tale si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche e pure… fantasiose, senza che ciò debba sollevare scandali o accuse di dissacrazioni o adulterazioni. [Le vere adulterazioni sono quelle perpetrate fin dall’origine sulla partitura, purtroppo non punibili in assenza di denuncia della parte lesa…]

Livermore quindi va sul sicuro e ne cava uno spettacolo più appariscente che affascinante, direi, ma pur sempre plausibile e godibile.

Trovate non proprio rivoluzionarie, come l’ambientazione moderna (smartphone e selfie a volontà) che ci sta tutta, dato il soggetto; o come lo sdoppiamento del protagonista, evidentemente volto a mostrarci l’Hoffmann della vita normale, piuttosto incolore (dentro una specie di baule-sarcofago, poi… gondola; oppure alle prese con una bistrattata macchina da scrivere) dall’Hoffmann sognatore di imprese dongiovannesche (Niklausse: Notte e giorno…) Oppure il nano da circo, con livrea e cilindro, che fa da guardaspalla armata al cattivone di turno. O le numerose comparse che forse rappresentano le visioni e gli incubi del protagonista. Livermore riunisce ovviamente i quattro tenori comprimari (Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinacchio) in un unico personaggio… en travesti: una servettona armata del classico piumino spazzapolvere.

Scenografia piuttosto spartana, arricchita però da effetti di teatro d’ombre mobili (silhouette) per sottolineare i caratteri onirici di alcune scene. Olympia è una ragazza in carne ed ossa rivestita di plastica e bachelite delle quali si libera per mostrare a noi il trucco di Spalanzani e la creduloneria (indotta dagli occhiali magici) di Hoffmann. A casa di Antonia ci sono un pianoforte e seggiole da teatro accatastate agli angoli (perché nessun violino? Lo prevede la didascalia, ma soprattutto In orchestra sale un assolo dello strumento). La madre di Antonia esce dal quadro e si aggira per casa. A Venezia c’è il coinvolgimento del pubblico: la platea viene infatti ricoperta d’acqua da un enorme velo che accompagna le note della barcarolle. Giulietta e Nicklausse, invece che in gondola, ondeggiano su un’altalena (fermandola a tempo con i piedi per mantenerne l’oscillazione in sincronia con i 6/8 della musica!) Poi torna il baule-sarcofago dal quale emerge il gondoliere… Hoffmann secolare. La chiusura dell’atto (visto che nessuno ha ancora capito quale dovrebbe essere secondo Offenbach…) viene presentata con un’autentica sparatoria, dove non è chiaro chi muore e chi sopravvive. Poi nel finale, al ritorno in taverna, il baulone torna sarcofago, ad ospitare lo stesso Hoffmann cui Stella porta il mazzo di fiori che Lindorf aveva sequestrato ad Andrès nel Prologo.

La  morale della favola è da Livermore risolta facendo riconsegnare all’Hoffmann secolare le parti di copione che erano state affidate ai vari protagonisti e comparse; copione che viene quindi restituito all’Hoffmann sognatore, che lo getterà al vento al calar del sipario.

Ecco: uno spettacolo di buon livello professionale che si lascia godere, grazie al collaudato team di Livermore: Giò Forma, Gianluca Falaschi, Antonio Castro e Compagnia Controluce. Per tutti loro applausi convinti e meritati all’uscita finale.
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Vengo ora ai suoni, dove le cose sono andate così e… cosà. Parto dal basso, cioè dalla buca: Chaslin (che già non mi aveva entusiasmato con la Gioconda) non mi ha particolarmente impressionato (a fronte della sua auto-decantata conoscenza del soggetto). Parliamoci chiaro: nei Contes di strumentazione originale di Offenbach non c’è praticamente nulla, è tutta farina (o fuffa) del sacco di Guiraud-et-altri. Ergo sarebbe dovere, non solo diritto, del Kapellmeister di turno di metterci un po’ del suo, ammesso che ne abbia. Invece, Chaslin ci propina un’interpretazione piatta (o stucchevolmente bandistica, a tratti); di quelle che normalmente si definiscono da routinier (per noi prosaici: battisolfa). L’Orchestra suona come sa, ma non può inventare molto di sua iniziativa (altrimenti a che serve il concertatore?) Il Coro di Malazzi è sempre sui suoi standard, e anche ieri ha avuto gli applausi che si merita.

Grande Vittorio Grigolo, osannato a scena aperta e alla fine: una prestazione eccellente, tenuto conto della parte invero massacrante riservata al protagonista. Che invece lui ha portato a termine senza nemmeno apparente sforzo. Scenicamente poi, perfetto, ecco.

Nei quattro cattivoni, Luca Pisaroni non ha per nulla fatto rimpiangere il forfettario Abdrazakov: voce potente ma mai sguaiata e gran portamento scenico. Anche per lui meritati consensi.

Le quattro deuteragoniste femminili (mi) hanno tutte abbastanza bene impressionato, a partire da Eleonora Buratto che, avendo cantato nonostante un’indisposizione, è però riuscita a cavarsela alla grande, con solo piccoli… accorgimenti onde evitare sorprese dalla gola. La bambola di Spalanzani è Federica Guida, che ha potuto esprimersi al meglio dopo essersi liberata della… bachelite, e ha comunque superato bene gli impervi ostacoli dei sovracuti e picchiettati che abbondano nella sua parte. Francesca Di Sauro è stata una convincente Giulietta, anche se la voce di mezzosoprano non è proprio da soprano drammatico, come vorrebbe la tradizione. La migliore di tutte (selon moi) è stata Marina Viotti, una Musa-Nicklausse quasi perfetta, vocalmente e scenicamente.

Discorso a parte per Stella (l’accademica Greta Doveri): in questa edizione dell’opera lei non dovrebbe proprio cantare, ma qui le si è dato il contentino di aggiungere la sua voce al coro finale: e va bene così…

Tutti gli altri comprimari su livelli più che dignitosi. Doveroso però citare il quadriforme François Piolino, applaudito protagonista dell’aria (Jour et nuit) nell’atto di Antonia.
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Tirando le somme: una produzione con luci e ombre che il non oceanico pubblico ha accolto abbastanza benevolmente, ma senza eccessivi entusiasmi (Grigolo escluso). Insomma: forse la Scala qui poteva fare qualcosa di più e meglio.

18 gennaio, 2012

La vecchia ricetta Hoffmann-Offenbach alla Scala


Ieri sera seconda rappresentazione dei Contes alla Scala, con il secondo (?) cast, dopo la prima diffusa per radio domenica e accolta dal pubblico in sala con un certo entusiasmo (per me francamente eccessivo, per ciò che concerne la parte vocale).

Opera, sappiamo, rimasta abbondantemente incompiuta, causa la scomparsa dell'autore proprio alla vigilia della prima. E che quindi è andata incontro alle stesse traversie – più o meno, ma forse più più che meno – di altre orfanelle musicali come lei (Carmen in primis): completamenti, rimaneggiamenti, tagli, inquinamenti, adulterazioni, perpetrati da personaggi diversi, chi in buona fede, chi pronto ad approfittare dell'occasione per farsi bello a buon mercato. Dell'opera esistono così diverse versioni (anzi, si dovrebbe dire: diversi assemblaggi) nessuna delle quali si può dire autentica, date le circostanze: qui una assai esauriente disamina dello stato dell'arte, da cui si evince che al problema (di approntare appunto un'edizione autentica) non c'è una soluzione, quanto meno univoca, e menchemeno facile.

La Scala ha ripresentato in questa stagione una produzione parigina vecchia di 12 anni, e ad essa si è dovuta (o voluta?) attenere, per ragioni vagamente plausibili: ha quindi preso come riferimento – analogamente a quanto fatto per le produzioni del 1994-1995 e 2003-2004, con qualche ulteriore ritocco - la ultra-centenaria edizione Choudens (approntata in origine dal recidivo Ernest Guiraud, già primo tutore-stupratore della Carmen) mantecata con alcune importanti aggiunte da quella (meno antica, ma pur sempre vecchiotta) di Bärenreiter (curata da un altro sedicente editore critico dell'ultima opera di Bizet, Fritz Oeser). Si tratta quindi di una versione che si può definire – nel bene e nel male - tradizionale, che non tiene conto dei più recenti studi che hanno fornito nuovo importante materiale di base - in sostituzione o a fianco di quello (spurio) tradizionale - a chi deve di volta in volta decidere quali Contes presentare al pubblico (il flow-chart in appendice alla prefazione dell'edizione Schott - Kaye-Keck - dà solo una vaga idea di quante possibili combinazioni si possano ottenere a partire dal materiale proposto!) Ecco, la Scala ha forse perso una buona occasione per presentare al suo pubblico una veste più aggiornata e più fedele (anzi, meglio sarebbe dire: meno-infedele) di quest'opera, nata sotto cattiva stella.

Va però sempre tenuto presente che, per quanto lodevoli e degni di rispetto e di incentivo siano gli sforzi degli studiosi, purtroppo mai potranno regalarci ciò che l'Autore per primo non ha avuto la possibilità (o la volontà?) di regalarci. Per dire, pretendere di incorporare in uno stesso allestimento tutte insieme le diverse reliquie rinvenute nel corso degli anni sarebbe impresa, oltre che dura, destinata a sua volta a sollevare inevitabilmente obiezioni e critiche di ogni genere, chè nessuno potrà mai dimostrare trattarsi di materiale infallibilmente destinato dal compositore ad essere integrato nell'opera. Tanto per fare un esempio (estremizzato, ma giusto per chiarire il concetto): quanti schizzi e appunti ha lasciato Beethoven delle sue composizioni? Una montagna; ma son poi finiti tutti nelle partiture rilasciate dal genio di Bonn per la pubblicazione? Certo che no, e a nessuno oggi verrebbe in mente di riesumarli per infilarli in sinfonie e quartetti (al massimo ci si fa riferimento per chiarire qualche zona d'ombra riscontrata sulle partiture pubblicate). Analogamente, non è affatto detto che tutto il materiale (pure di mano di Offenbach) rinvenuto qua e là negli anni sarebbe stato comunque incluso dal compositore in una eventuale sua versione definitiva (o in più di una, perché no…) dell'opera, avesse avuto dal buon dio il tempo (ma anche la voglia) per approntarla. Un po' come accadde al finale della Turandot, di cui abbiamo parecchi schizzi autografi, ma che nessuno può immaginare se e come sarebbe stato completato da Puccini, fosse vissuto qualche settimana (o mese, o anno) in più.

Insomma, purtroppo bisogna pur prendere atto che un'edizione authoritative dei Contes è materialmente impossibile da mettere in piedi - a meno di pretendere di entrare nella testa di un… morto - e quindi tanto vale mettersi l'animo in pace e accontentarsi di ciò che passa, di volta in volta, il convento, dicasi: la coppia concertatore-regista (più la direzione artistica/musicale del teatro) che in definitiva è responsabile della scelta degli ingredienti di base con cui cucinare e servire in tavola il minestrone. Dopodichè giudicheremo se quel minestrone ci è piaciuto o ci è rimasto sullo stomaco, se è il migliore da noi mai assaporato, o se pure quello cucinato da altri cuochi ci aveva convinto di più. Ripeto e chiudo: il torto (se vogliamo proprio chiamarlo così) della Scala è di averci propinato negli ultimi tre lustri il minestrone fatto con la stessa vecchia (pur se collaudata) ricetta, invece di provare a deliziarci con ricette più aggiornate e comunque già ampiamente collaudate (per la cronaca, sono quasi 1000 le rappresentazioni già date, dal lontano 7 ottobre 1988 – LosAngeles - della versione Schott).

Robert Carsen ne ha cavato uno spettacolo più che godibile, sfruttando da par suo i risvolti surreali del soggetto, che si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche (o fantasiose) e che è di fatto inossidabile a qualunque adulterazione (specialità in cui Carsen è maestro). L'ambientazione, perennemente calata nel Don Giovanni che Stella sta interpretando, è un'idea non solo intelligente (come sono tutte le idee del regista canadese) ma anche appropriata (cosa che invece non sempre accade) al soggetto da rappresentare e al suo protagonista, le cui oniriche avventure a pessimo fine ricordano in effetti le vicende del personaggio mozartiano (però non come ce le ha raccontate Carsen stesso di questi tempi, tanto per ribadire il concetto sull'appropriatezza delle sue idee!)

Data la successione temporale dei due allestimenti di Carsen, verrebbe da pensare che quello del recente Don abbia mutuato parecchio da questo, vecchio di una dozzina d'anni; persino certe componenti della scenografia si richiamano in modo sorprendente: sipari e quinte, il palco-nel-palco, il tavolone del bar che occupa tutto il fronte della scena, proprio come la tavola della cena di Don Giovanni, la passeggiata in platea di Giulietta e Pitichinaccio, che anticipa quelle dei protagonisti del capolavoro di Mozart… Va detto però che la tecnica del teatro-nel-teatro (usata abbastanza a sproposito nel recente Don) è qui invece impiegata in modo assai efficace per ambientare la vicenda di Hoffmann (con tutte le sue implicazioni di carattere psico-esistenziale) e le ambigue relazioni fra l'artista e il mondo del teatro, con tutte le dicotomie fra sogno (o chimera, o spettacolo, o subconscio) e realtà (o realismo, o vita quotidiana, o razionalità) che sono alla base del soggetto hoffmann-offenbachiano.

Fin dall'apertura del teatro (ore 19, mezz'ora prima dell'inizio dello spettacolo) una controfigura di Hoffmann è presente sul proscenio, sdraiato per terra, su un fianco, spalle rivolte al pubblico, intento a scartabellare appunti e schizzi musicali, tracannando a garganella diverse bottiglie di vino sparse qua e là… All'apertura del sipario, mentre udiamo il coro degli spiriti, vediamo una scena del Don Giovanni, con Donna Anna (Stella) in bella evidenza (più la statua del Commendatore e diverse comparse) e capiamo che Hoffmann era lì per lei (Stella, appunto). La scena si muove e ci spostiamo di lato, dietro le quinte, dove arriva la Musa a prendersi cura – travestendosi poi da Nicklausse – del povero Hoffmann. E dove arriva anche il bieco Lindorf, che induce Andrès a cedergli la missiva indirizzata da Stella a Hoffmann. La scena adesso si trasforma in un bar (la taverna di Luther, con l'emersione del lungo bancone) dove si affollano comparse e masse del teatro, in un intervallo della recita del Don Giovanni. Qui si svolge tutto il resto del Prologo, con piacevolissime gag sulla filastrocca di Kleinzach, l'incontro-scontro fra il protagonista e Lindorf e la rivelazione di Hoffmann sulle tre donne che si incarnano in Stella e la conseguente decisione di raccontarne le tre avventure.

Per l'atto di Olympia, che segue senza intervallo, compaiono delle quinte viste da dietro (cioè dall'ipotetico fondo-scena) mentre sul fondo campeggia il retro (vuoto) della statua del Commendatore e sul proscenio vero compaiono suppellettili del laboratorio di Spalanzani (che entra in camice bianco imbrattato di sangue) con tanto di barella su cui è adagiata Olympia-frankenstein. La bambolona qui rappresenta il simbolo efficace di tutte le bambole che ammiccano oggi da schermi e web-pages, in mondi artefatti, tipo reality o grandi fratelli, animate da qualcuno che le muove con un telecomando (o da noi stessi tramite un mouse…) Facciamo conoscenza col cattivone di turno, Coppélius, che per la verità sembra più un onesto (smile!) venditore di cianfrusaglie che un criminale, e che solo dopo essere stato vittima di un imbroglio maturerà un filino di rancore verso Spalanzani. La scena dell'esibizione di Olympia è mirabilmente occupata da una sfilata di decine di Zerline e Masetti prelevati di peso dal Don Giovanni, che assistono ai gorgheggi della bambolona, cui Spalanzani ricarica le pile, anziché toccandole la spalla, sdraiandosi per terra, a mò di meccanico, sotto le sue gonne e ravanando… chissa dove?

Dopo l'intermezzo in cui Hoffmann e Olympia restano soli, ecco la gustosissima fase finale dell'atto, con Olympia che si trasforma in robot impazzito, in bambola sfruttata che si ribella ai telecomandi, ai suoi sfruttatori e ai suoi pretendenti, e alla fine si denuda completamente, mostrando con orgoglio le sue tette e il suo culo di bachelite (o silicone…) Quando si dice: la verità è nuda! Ecco, qui abbiamo la falsità nuda, proprio come in molti nostri mondi, reali o virtuali. Semplicemente strepitoso!

Dopo l'intervallo, l'atto di Antonia. Qui, invece che in casa di un fabbricante di violini, siamo nella buca dell'orchestra, dove i violini normalmente suonano. È evidentemente un intervallo dell'opera, la buca è vuota, ma la partitura mozartiana in bella mostra sul leggìo del direttore (che scopriremo essere lo sbifido Dr.Miracle) e un clavicembalo ci assicurano trattarsi del Don Giovanni. E proprio al clavicembalo – nello scrupoloso rispetto del libretto – siede Antonia ad intonare la sua straordinaria tourterelle. La scena si svolge prevalentemente giù, nella buca. Sopra si intravedono un paio di metri di sipario chiuso, davanti al quale compaiono due personaggi: Frantz (che vi canta il suo tra-la-la-la-là) ma soprattutto Miracle, che si presenta estraendo dalla borsa di medico una… bacchetta da direttore d'orchestra. Di grande effetto la scena dell'apparizione della madre di Antonia: Miracle è adesso giù in buca, con la ragazza, mentre sopra di loro il sipario si apre sulla scena del Don Giovanni (sempre con statua del Commendatore) in cui canta – nel costume di Donna Anna – la defunta madre di Antonia. È il richiamo di quella specie di droga (di cui Miracle è spacciatore) che è la musica. In questo scenario ascoltiamo il mirabile terzetto. Poi Antonia sale in scena, entrano gli orchestrali, Miracle dà l'attacco… e la ragazza muore, dopo aver indossato il velo lasciatole a terra – a mo' di testimone - dalla madre. Una cosa grande!

L'atto di Giulietta fu il più tormentato nella sua gestazione e, insieme al finale, è quello che più divide le versioni tradizionali dell'opera da quelle di più recente approntamento. Carsen ci mostra la platea di un teatro, evidentemente in un intervallo delle prove del Don Giovanni, dove comparse e masse – cullate dal canto di Giulietta e Nicklausse che si aggirano fra le poltrone ondeggianti come gondole - si rendono protagonisti di una specie di orgia, un'ammucchiata che materializza l'invito di Hoffmann Amis, l'amour tendre et rêveur, erreur! Qui il cattivone è Dapertutto e fa il regista, sempre con lo spartito del Don Giovanni in mano. Finita l'orgia, lui canta la sua Scintille, diamant per convincere Giulietta ad adescare Hoffmann, poi va in platea a seguire le prove dell'adescamento. Lo spettacolo riprende, in sala rientra il pubblico elegante, mentre il regista dirige il sestetto pretendendo dai cantanti un totale asservimento ai suoi desiderata: restano tutti impalati come marionette, con i cinque occhi-di-bue che sembrano inchiodarli al tavolato. Finito il sestetto e lo spettacolo, Hoffmann ammazza Schlemil per poi vedere Giulietta allontanarsi lungo il corridoio della platea con Pitichinaccio. Francamente questo è l'atto forse meno riuscito nella regìa di Carsen, soprattutto per l'associazione della figura di Dapertutto a quella di un regista, francamente un po' forzata e dal significato non immediatamente chiaro (ma, come dico, è anche il libretto ad essere poco efficace).

Per il finale torniamo… al bar del teatro dove ad Hoffmann – gelato da Lindorf che se ne va con la sua diva Stella – non resta che lo sfogo con Kleinzach, prima dell'apoteosi, un viaggio verso una luce abbagliante, sotto lo sguardo protettivo della sua Musa.

Bene, questo per quanto concerne lo spettacolo, almeno secondo me, più che convincente.
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Sul fronte musicale, notizie in chiaroscuro. Marko Letonja si era presentato alla radio, domenica sera, con alcune giustificazioni francamente imbarazzanti sulla scelta del menu musicale: poteva limitarsi ad ammettere che lui è un follower, invece di incolpare, tra virgolette, il povero Carsen, che non credo avrebbe avuto difficoltà ad armonizzare con il suo impianto l'atto di Giulietta e il finale della versione Schott! In buca è apparso altrettanto pavido, appiattendo – a mio modo di sentire - tutte le curve della musica di Offenbach (o chi per lui…) che invece ha caratteristiche di mirabile eterogeneità, un misto di operetta, melodramma e dramma-per-musica. Una prestazione abbastanza incolore.

Fra i protagonisti, benino l'Hoffmann di Arturo Chacon-Cruz (di certo meglio dell'impiccato quanto stonato Vargas ascoltato per radio) il cui limite principale è la potenza di suono. Idem per Daniela Sindram, che mi è parsa meglio in forma della piuttosto spenta Gubanova (*** e non Gruberova come avevo erroneamente scritto e come mi ha giustamente fatto osservare Amfortas nel suo commento ***) . Vassiliki Karavanni ha sostituito all'ultimo momento, dato che mancava nell'agenda originaria (e la sua foto manca dal programma di sala…) la Gilmore nel ruolo di Olympia: lei non arriva al SOL sovracuto, si ferma solo al FA (smile!) ma in compenso pare avere una voce umana e non cibernetico-metallica come quella della collega (sempre udita via etere). Ellie Dehn è stata una passabile Antonia, non facendo per nulla rimpiangere la Kühmeier di domenica. Si è confermata con pieno merito Veronica Simeoni nel ruolo abbastanza facile, diciamo, di Giulietta. Hermine May ha fatto il suo compitino come mamma di Antonia, richiamata temporaneamente in vita dallo sbifido Miracle.

Degli altri maschi, in gran spolvero Ildar Abdrazakov nei quattro ruoli dei cattivoni, in particolare in quello di Miracle. Gli altri: William Shimmel (oste e liutaio, che accoppiata!) Rodolphe Briand (Spalanzani), Cyrille Dubois (Nathanel) e Nicolas Testè (Hermann e Schlemil) sul livello di sufficienza. Ampiamente al di sopra del quale metterei invece Carlo Bosi, assai efficace nei suoi 4 ruoli comprimari, ma soprattutto in quello di Frantz, applaudito a scena aperta. Sul suo standard il coro di Casoni.

L'Orchestra non ha suonato male, peccato che sul podio ci fosse Letonja e non Harding (smile!)

Comunque discreto successo, ma senza eccessivi entusiasmi, per tutti. Spettacolo per me salvato, questa volta, dalla regìa.
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