XIV

da prevosto a leone
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06 febbraio, 2025

La prima giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La marcia di avvicinamento al ciclo completo del Ring, affidato (per l’allestimento) a David McVicar, è iniziata lo scorso ottobre con la vigilia (Das Rheingold) e prosegue ora con la prima giornata (Die Walküre).

[Poi riprenderà con Siegfried (giugno) e Götterdämmerung (febbraio 2026) per approdare alla meta (due cicli completi nelle due prime settimane) a marzo 2026, con qualche mese di anticipo sulla (storica?) ricorrenza dei 150 anni dall’apertura del baraccone Festspielhaus di Bayreuth.]

Tutta (o quasi…) la produzione di Wagner è (o pretende di essere, nella immodesta concezione dell’Autore) portatrice di concetti estetici, ma anche etici, filosofici, politici e, soprattutto, psicologici. Ecco: Die Walküre è forse la punta di diamante di questa impostazione di fondo. E ciò spiega l’ingombrante presenza al suo interno di lunghi sproloqui infarciti di sofismi, di questioni a sfondo esistenziale o politico; di domande che tirano in ballo di volta in volta il libero arbitrio dell’Uomo, o i vincoli imposti dalle leggi allo stesso legislatore, e le contraddizioni in cui cade persino il potere costituito, macchiatosi di peccati originali che finiscono per minarne le fondamenta, con esiti addirittura autodistruttivi. E poi tirano in ballo questioni legate ai rapporti familiari: in particolare a quelli fra marito e moglie e fra padre e figlia. E all’evoluzione psicologica che ne deriva su tutti i principali personaggi della storia.

Purtroppo, il prezzo che lo spettatore deve pagare per apprezzare fino in fondo l’essenza di questi drammi (scongiurando rischi di reazioni di rigetto a fronte di un approccio passivo al loro fruimento) è lo sforzo necessario a sviscerarne, o almeno ad individuarne, il sostrato concettuale. La differenza fra i testi di questi, e in particolare di questo dramma wagneriano, e quelli di quasi tutti i libretti d’opera, anche i più raffinati, è che qui non basta leggerli e comprenderli, ma è necessario farci una preventiva esegesi approfondita (facendosi magari aiutare da che già l’ha compiuta…) e spesso collegandone i contenuti ad altri che sono venuti originariamente alla luce (anche musicalmente, tramite i cosiddetti Leit-Motive) addirittura in drammi precedenti!

In ciò sta, a seconda dell’approccio dello spettatore, la grandezza di queste opere o il loro limite più pesante: essere caratterizzate (per parafrasare una simpatica battuta di Rossini) da qualche sporadico momento di musica accattivante annegato in esasperanti mezz’ore di menata-di-torrone!

Capisaldi del dramma sono le parallele evoluzioni di Wotan e Brünnhilde: il primo passa dall’orgogliosa sicurezza (sul suo piano di consolidamento del potere) alla tragica realizzazione del suo fallimento. A beneficio di qualche regista, è curioso scoprire, in riferimento alla nostra attualità, come l’IA, tramite la sua ricerca profonda, risponda (in 56 secondi) alla domanda: Trump è come Wotan? Quanto alla figlia prediletta del dio supremo, assistiamo al suo passaggio dallo stato divino a quello umano, indotto proprio dall’incontro con i due umani che si ribellano al padre divino, provocandone la disfatta in forza dell’amore.

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David McVicar ha perseverato nel suo approccio, già palesatosi in Rheingold, di mantenersi su una posizione equidistante fra una frusta tradizione e una spinta modernità, sperando con ciò di accontentare tutti. Il risultato è stato quasi fallimentare, vista l’accoglienza ostile che ha accompagnato lui e il suo team all’uscita finale.

Scene quasi spoglie, con pochi oggetti simbolici: il frassino con la spada ivi conficcata; ambiente inospitale per i drammatici eventi del second’atto; un’enorme testa supina (di Wotan?) che alla fine si apre per mostrare una delle tre grandi mani già comparse all’inizio del Rheingold, sulla quale Wotan adagia la Valchiria addormentata.

Per il resto, qualche discutibile trovata: l’intera masnada di Hunding che irrompe nella di lui stamberga; i corvi di Wotan che svolazzano all’inizio del second’atto; gli arieti di Fricka, impersonati da due figuranti che trascinano faticosamente (in discesa!) la dea; Grane impersonato da un figurante che si muove a balzelloni su protesi agli arti inferiori (simili a quelle degli atleti paralimpici) così come gli otto cavalli delle Valchirie (un gruppo LGBTQ+, tutti maschi!); Hunding che dà un secondo colpo di grazia a un Siegmund che insiste a non morire sul primo colpo. Più plausibile il Wotan che, al momento di uscire di scena, si veste da Viandante, come lo vedremo… a giugno.

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Simone Young forse pensa di trovarsi ancora giù nell’Orchestergraben di Bayreuth, da dove i suoni faticano ad emergere fino alla sala: così tiene un volume mediamente più alto del dovuto, il che provoca qualche problema ai dettagli, e soprattutto rischia la copertura delle voci. Per lei, comunque, un’accoglienza tutto sommato positiva.

Come quella per l’intero cast delle voci. A partire dal navigato Michael Volle, che ci ha riproposto un solido Wotan, voce e presenza scenica autorevoli, grande efficacia nel proporci tutte le diverse, e opposte, sfaccettature della personalità del dio: una perla il suo Leb’wohl.  

Franco successo per Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace di emozionarci nella sua umanissima scoperta del valore e della vera natura dell’amore umano; e nel suo dignitoso porsi nei confronti del padre.  

Elza van den Heever è una solida Sieglinde, commovente nei suoi slanci amorosi, come nel senso di colpa e, infine, grande nel momento culminante di quell’O hehrstes Wunder, le cui note ritroveremo solo alla fine di Götterdämmerung!

Siegmund è Klaus Florian Vogt, non proprio un Heldentenor (anche se ormai si cimenta anche in Siegfried…) ma che come Siegmund non sfigura proprio, restituendoci, con la sua voce di tenore lirico, il personaggio del giovane che il padre costringe ad una vita assai grama, per poi addirittura condannarlo a morte!   

Okka von der Damerau  è una solida Fricka, cui il regista forse toglie un poco della moglie petulante e noiosa, mostrandocela come una gattina morta che vuol convincere il marito con qualche moina. Il suo momento più forte (Deiner ev’gen Gattin heilige Hehre) mi è parso poco efficace (la Young forse ha qualche colpa…)

Lo Hunding di Günther Groissböck ha ben meritato, forse gli è mancata un poco più di… cattiveria musicale (in quella scenica invece il regista ha persino esagerato).

Le otto Valchirie, che tengono banco con il loro parapiglia nella prima scena dell’atto finale, hanno svolto più che bene il loro non facile compito.

Che dire, in conclusione? Nulla di storico, ma uno spettacolo che merita ampia sufficienza, che il pubblico (non proprio da tutto-esaurito…) ha accolto (regista a parte) con unanimi ma contenuti consensi. Resta da chiedersi se la Scala possa fare di più.

 

28 luglio, 2014

Bayreuth: un filino meglio


Come già accadde lo scorso anno, Die Walküre ha un po’ risollevato il livello qualitativo di questo Ring, che di sicuro pochi ricorderanno come… memorabile.  

In particolare è il primo atto ad aver(mi) pienamente convinto: il trio Botha-Kampe-Petrenko ne ha dato un’interpretazione degnissima, cui il nuovo (rispetto al 2013) Hunding di Kwangchul Youn ha aggiunto un tocco di serietà fin eccessiva. L’entusiasmante finale è stata una vera perla, come raramente capita di ascoltare, con la semiminima conclusiva che Petrenko ha mirabilmente inchiodato nella prima metà della battuta e non enfaticamente tenuto (nella seconda) come usa fare la maggior parte dei Kapellmeister. Bravo!

Il direttore russo tiene in generale tempi rapidi (61–85–64 minuti) ma non ci fa mancare nulla dei dettagli e dei pregi della partitura. Qualche piccola libertà nell’agogica fa parte (non da oggi) del… patrimonio dei direttori, grandi e piccoli.

L’ingresso in scena, dal second’atto,  degli altri tre protagonisti (due dei quali purtroppo dovremo incontrare anche nelle giornate successive) ha poi nettamente abbassato il livello qualitativo della recita: Wolfgang Koch e Catherine Foster (parliamoci chiaro) non dovrebbero cantare nei panni di Wotan e Brünnhilde! Le note le faranno anche (beh, insomma, la Foster ha abbastanza calato un paio di DO nei suoi Hojotoho…) ma è proprio la caratteristica fisica della loro voce a fare a pugni con le esigenze minime dei ruoli. Lui ha fatto varie volte Alberich, che probabilmente gli calza meglio; lei invece fa Brünnhilde praticamente ovunque e quindi devo essere io a sbagliarmi (smile!) Quanto a Claudia Mahnke, è anche qui (come nel Rheingold) una Fricka piuttosto incolore, poi non si riscatta molto travestendosi da valchiria (Waltraute). 

Insomma, suonatori sugli alti standard di Bayreuth e compagnia di canto male assortita: anche questo pare divenuto uno standard – negativo – sulla verde collina.

28 luglio, 2013

Bayreuth 2013: le Valchirie volano su Baku


Tutti i commentatori sono concordi: per capire l’essenza intima del Konzept di Castorf bisognerà attendere l’ultima nota del Crepuscolo… dopo aver preso diligenti quanto dettagliati appunti durante i tre precedenti drammi. E solo allora (anzi almeno un paio d’ore dopo, per dar tempo al pubblico di riguardarsi gli appunti e finalmente scoprire il significato profondo di questo Ring) il genio ex-DDR nonché ex-stalinista si degnerà di presentarsi al proscenio per raccogliere l’omaggio del pubblico, finalmente edotto ed estasiato.

Intanto ci raccontano che, dopo la vigilia trascorsa in una GasStation con annesso Motel sulla Chicago-SantaMonica, la prima giornata ci ha teletrasportato sul MarCaspio, dove si estrae il petrolio che poi, opportunamente raffinato, diventa il diesel venduto lungo la gloriosa Route66.

Beh, sono indizi già interessanti, prendiamone accuratamente nota. Castorf ha copiato quasi alla lettera un vecchio pozzo di petrolio azero, per farci gli ambienti in cui collocare i Wälsi e le volanti Valchirie:


 










Quanto alla scritta che compare su una parete del pozzo, ci sarà da stabilire se Castorf sia il copiatore o il copiato:




















Scritta che ricorda una particolare ricorrenza azera, oggi festa nazionale: il 20 settembre 1994, giorno in cui il giovane Stato, sgattaiolato via dal disfatto impero sovietico (di cui Castorf era sfegatato ammiratore, si noti bene…) aprì i suoi pozzi al capitalismo occidentale e a tutti i famelici Wotan, Alberich e Fafner che popolano i nostri mercati finanziari!

Insomma, forse siamo sulla buona… autostrada per capire e quindi apprezzare il capolavoro.  
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Dall’etere sono arrivate notizie… confortanti, anche se non proprio strepitose. 

Su tutti Kirill Petrenko, a cui se si perdonano le solite pisciatine di cane (leggi: scarti indebiti di tempi qua e là…) bisogna riconoscere buone qualità di direttore wagneriano.

Bene i due gemelli, Johan Botha e Anja Kampe, e non solo nel grandioso duetto del primo atto, ma anche nelle drammatiche scene del secondo e (per lei) del terzo.

Wolfgang Koch e Catherine Foster magari le note le cantano anche, ma accipicchia, hanno voci più adatte per impersonare i ruoli di Don Wotanni e Zerlhilda (smile!)

Anche Claudia Mahnke ha confermato gli alti e bassi del Rheingold: il suo trionfo sul marito mi è parso piuttosto palliduccio. Come Waltraute… aspettiamola al Crepuscolo.

Franz-Josef Selig sta meglio nei panni di Hunding che non in quelli del Daland di qualche giorno fa: ieri sera ha quasi cantato bene…

Le otto Valchirie (fra cui si è intrufolata… Wellgunde!) han fatto la loro dignitosa caciara e le loro belle risatine ammiccanti agli accoppiamenti dei loro destrieri.
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Prossima tappa di questo Ring unto e bisunto? Si vocifera sia la Berlino post-DDR: mancando il servizio rapido delle Valchirie (tutte licenziate in tronco dai nuovi sfruttatori calati su Baku come locuste) il trasloco richiede precisamente un giorno di tempo…

26 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (2)


Dopo l’Allegro maestoso del Rheingold, eccoci al secondo movimento della Ring-Sinfonie: l’Andante mosso della Walküre (i paralleli sono del compianto Teodoro Celli).

Prima dello spettacolo, la presentazione dei contenuti condotta da Elisabetta Fava presso la Fondazione Cariplo: un bigino dell’opera fatto però con intelligenza e soprattutto mettendo sempre in risalto i contenuti più profondi delle vicende (pseudo)mitologiche che ne sono alla base, e la loro declinazione in termini musicali.
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L’apertura di Barenboim è drammatica davvero, anche se le folate dei secondi violini e delle viole (tremolo in corda doppia) sembrano coprire un po’ troppo le semiminime staccate dei violoncelli che evocano la corsa a balzelloni di Siegmund in mezzo alla tempesta.  

Simon O’Neill ha (guarda caso) sempre la stessa voce di due anni fa e gli manca la laurea di Heldentenor: però il suo Siegmund parrebbe migliorato, almeno quanto ad accuratezza di esposizione. La sua cassa toracica è sufficientemente ampia da permettergli un’apnea di 10 secondi sul SOL di Wälse senza scoppiare, né risentirne per il resto dell’opera (ok, ok, muore alla fine del second’atto…) Le sue due arie (Wagner non si offenderà…) non sono propriamente un modello di riferimento, ma l’importante è che trasmettano all’ascoltatore le dovute emozioni.

Waltraud Meier, che ormai veleggia verso i 60, è ancora e sempre una Sieglinde di tutto rispetto, anche se la voce si assottiglia e giù in basso fatica a passare. In ogni caso il duetto d’amore che i due ci propongono resta (certo, grazie al mago Wagner) una delle cose più emozionanti che si vivano a teatro; e Barenboim lo chiude da par suo con un autentico orgasmo orchestrale, prima dello schianto sul LA-SOL che mescola insieme passione e schiavitù.

Nel primo atto compare ovviamente anche lo sbifido Hunding, del quale per la verità Mikhail Petrenko non dà un’interpretazione indimenticabile, avendo una voce non abbastanza truce (in senso estetico, dico). Cosa del resto già emersa (e che fatalmente tornerà) con Hagen.

Irene Theorin si presenta subito con i suoi Hojotohò piuttosto, ehm, selvaggi (smile!) ma in fin dei conti appropriati alle caratteristiche del personaggio, ancora abbastanza goliardiche, prima della drammatica esperienza di vita che la rivolterà come un calzino.

Arriva anche il Wotan di René Pape (che sapremo più tardi essere in condizioni non perfette): fatta salva la sua maestrìa e professionalità, la voce non è proprio quella che ci si aspetterebbe.

Ekaterina Gubanova è la pedante (ma, purtroppo per Wotan, con tutte le ragioni di questo mondo) Fricka. Il loro colloquio-scontro nella prima scena è musicalmente porto in modo eccellente. L’unica critica che mi sento di fare (ma credo sia da indirizzare a Cassiers) è nella piattezza esteriore con cui i personaggi esternano i rispettivi stati d’animo che dovrebbero, per così dire, incrociarsi; all’inizio un Wotan spavaldo e sorridente e una Fricka infuriata; alla fine, Wotan disperato e Fricka trionfante. E in mezzo il progressivo trasmutare degli stati d’animo dei due coniugi. Invece qui assistiamo ad una scena monocorde, dove Wotan sembra già corrucciato fin dall’inizio e Fricka sembra ancora di cattivo umore alla fine, dopo aver cantato quella cosa straordinaria che comincia con Deiner ew’gen Gattin heilige Ehre…        

Da incorniciare invece (voce di Pape a parte, che non ha potuto esplodere come si deve il suo cruccio) la seconda scena, che purtroppo si presta ad essere considerata (soprattutto dallo spettatore superficiale) come un insopportabile mattone: ieri ne è uscito qualcosa di veramente emozionante, grazie anche a Barenboim e alla meticolosità con cui ha fatto emergere di volta in volta dall’orchestra i motivi che accompagnano il drammatico racconto di Wotan e ne evocano mirabilmente lo stato d’animo dissociato.

Dopo la movimentata terza scena, dove la Meier interpreta egregiamente i sensi di colpa di Sieglinde e le sue funeste previsioni, ecco l’incontro di Brünnhilde con Siegmund, un’altra delle pietre miliari dell’opera, culminante nel prodigioso mutamento di registro nella mente della Valchiria. Barenboim qui fa uscire dai violini tutta l’inebriante carica di entusiasmo, ebbrezza, amore e sollecitudine che ha invaso corpo e anima di Brünnhilde, musica che lascia sempre senza fiato e ti fa salire un groppo in gola.

Purtroppo la regìa rovina abbastanza la scena della morte di Siegmund, con quella stupida esagerazione del colpo di grazia che Hunding assesta ad uno che è già morto… Per fortuna salva tutto la musica: straordinario, all’inizio, l’intervento dei violoncelli ad esporre il tema della Primavera, prima dell’udirsi dei corni di Hunding.

La cavalcata che apre l’atto conclusivo è sempre un kolossal, ma forse ieri lo è stato un po’ meno del dovuto, chissà: mi è parso che le sezioni più pesanti (tromboni e tuba) fossero appunto meno pesanti del dovuto. Non strabilianti nemmeno le otto sorelline di Brünnhilde, piuttosto vocianti che cantanti.

Ma in fondo le preziosità vengono dopo, a cominciare dal momento dell’annunciazione che Brünnhilde fa a Sieglinde della prossima maternità, dove Theorin e Meier si sono superate, sull’apparire del tema di Siegfried e di quello della (cosiddetta quanto millantata) Redenzione.

E poi con la lunghissima scena conclusiva, costellata da momenti di musica uno più sbudellante dell’altro. Pape, di cui nel secondo intervallo era stata annunciata un’indisposizione, ha probabilmente tenuto tirato il freno per evitare guai (efficace il triplice Leb’wohl, un poco meno il colossale Wer meines Speeres Spitze fürchtet) tuttavia il suo mestiere gli ha consentito di portare fino in fondo e in modo più che onorevole il suo compito, ben assecondato da Barenboim che ha illuminato l’Incantesimo del fuoco con fantasmagorici bagliori (magari fin troppo accesi, nei due ottavini).

Un interminabile tripudio ha salutato la (prima!) giornata: certo dovuto anche all’eccezionalità dell’avvenimento (di Ring-come-a-Bayreuth la Scala ne fa uno al secolo…) ma credo anche all’obiettiva qualità – non ineguagliabile, sia chiaro – della performance.  
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Adesso una pausa (come a Bayreuth…) con Luchino Visconti e il suo memorabile Ludwig.
  

15 dicembre, 2010

La discreta Walküre della Scala


Dopo la prima diffusa in TV, ieri sera terza rappresentazione della Walküre. Comincio dagli interpreti.
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O'Neill è tornato, dopo un turno di riposo; la raucedine è passata, ma ovviamente tre giorni non bastano per irrobustire una vocina; né purtroppo per correggere imprecisioni sparse negli attacchi.
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Sir John è l'unico ad avere ancora un vocione che non teme la vastità del Piermarini, né le intemperanze degli ottoni… però esce ormai solo attraverso schiamazzi, il che serve a dare ad Hunding un aspetto ancor più truce di quanto immaginato da Wagner.
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Kowaljow si conferma un Wotan promettente; in ambienti più raccolti è probabile che la sua presenza si faccia ancor meglio sentire.
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La venerabile Waltraud conferma tutte le sue qualità (Sieglinde ormai fa parte della sua vita, insieme ad Isolde) ed anche i suoi limiti (soprattutto di udibilità in basso).
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La Nina si conferma una Brünnhilde coi fiocchi, e la consuetudine con il ruolo non potrà che dare risultati ancora migliori.
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La Gubanova credo avesse speculato assai sui microfoni della ripresa televisiva. Dal vivo mi è sembrata meno autoritaria e incisiva; comunque una Fricka dignitosa.
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Le otto sorelle (vedi locandina per i nomi) hanno dato il loro onesto contributo ai parapiglia del terzo atto, e ciò è quanto basta.
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Barenboim (che ricorda a memoria il primo atto… poi si fa recapitare la partitura) guida l'orchestra con sicurezza e mestiere consolidati da 30 anni di consuetudine con questi drammi. Peraltro mi è parso aver tolto troppo allegramente le briglie agli ottoni (impeccabili, tecnicamente) in alcuni passaggi topici (soprattutto nel secondo atto) col risultato di coprire le non potentissime voci sul palco.
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Ciò che – rispetto alla ripresa TV – mi ha piacevolmente sorpreso è stato lo spettacolo di Cassiers. Può darsi che la regìa televisiva fosse troppo sbilanciata sui primi piani, ed abbia così prodotto due nefasti risultati: mostrare il peggio di Cassier (la mimica facciale degli interpreti) e celarne il meglio, o il meno-peggio: la visione complessiva dell'azione. Un esempio per chiarire il concetto: la (prima) scena-madre del secondo atto, fra Wotan e Fricka. L'aspetto drammatico peculiare qui è la transizione lenta, ma inesorabile, dello stato d'animo di Wotan, che deve passare dall'assoluta sicurezza e tranquillità alla totale e più nera disperazione. E ciò è mirabilmente ottenuto, dal mago Wagner, attraverso la musica, oltre che naturalmente supportato dalla recitazione. Ecco, quella scena è stata resa complessivamente in modo adeguato (grazie appunto alla musica) salvo che per un punto: l'espressione del volto di Kowaljow-Wotan, sempre corrucciata e disperata fin dall'inizio. Ma ciò per fortuna si può notare solo usando un binocolo, o il primo piano della ripresa TV, mentre a visione naturale non si avverte più di tanto.
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Per il resto, Cassier si è attenuto abbastanza scrupolosamente alle didascalie di Wagner: ad esempio Wotan che accarezza i capelli a Brünnhilde, nella scena delle confidenze. O ha addirittura tenuto conto delle osservazioni raccolte alle prove del 1876 da Heinrich Porges, come il Siegmund che si inginocchia al momento di implorare la spada promessa dal padre. In verità, qualcosa di bizzarro l'ha voluto anche inventare, come la scena della morte di Siegmund, del tutto strampalata: Brünnhilde che si intravede soltanto (mentre dovrebbe attivamente proteggere Siegmund); Wotan che, dopo aver spezzato la Nothung, letteralmente spinge Siegmund addosso alla punta della spada (perché non una lancia, come prescrive Wagner?) di Hunding; e soprattutto Siegmund che non muore subito, ma continua a dibattersi al suolo, avvinghiato a Sieglinde (forse Cassiers ha voluto qui introdurre una reminiscenza della Völsungasaga, dove Sigmund sopravvive per giorni e giorni, e ha tempo di fare testamento!) finchè Hunding non lo finisce con un orripilante colpo di spada, inferto a due mani, dall'alto in basso… Mah! Comunque, una regìa abbastanza fedele all'originale, che non si inventa troppe cose cervellotiche e non pretende di aggiungere valore al capolavoro con trovate intellettualoidi.
Le scene sono improntate ad un certo minimalismo, qui con qualche libertà gratuita, come il caminetto settecentesco nella stamberga di Hunding, ma in complesso sono sufficientemente efficaci. Meno, credo, le proiezioni, che finiscono più che altro per distrarre. Bizzarri davvero, invece, i costumi, in particolare delle Valchirie, vestite da megere dal busto in su, e da volatili sul lato-B (forse perché dei cavalli c'erano solo tracce da sala di macelleria, smile!)
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In totale, uno spettacolo sufficientemente godibile, accolto con entusiasmo e generosi applausi per tutti, ma in particolare per Nina e Daniel.

07 dicembre, 2010

L’apertura della Scala, fra Corriere e RAI5



Il Corriere della Sera ha dedicato oggi alla Scala un inserto speciale di 24 pagine, di cui 13 di presentazione dell'opera che ha aperto la stagione. Il titolo in prima pagina dell'inserto è di quelli che solleticano le fantasie macho dei nostri ragazzotti moderni: Donne selvagge mai sottomesse al maschio guerriero.

Come distillato della Walküre è davvero strepitoso. (A scanso di equivoci, dirò subito che il contenuto del pezzo che appare sotto a quel titolo restituisce tutta la dovuta serietà alla nostra Valchiria). Certo che attorno a quel titolo si potrebbe costruire qualche film con le famose valchirie Giovannona e Ubalda e qualche improbabile arrapato alla Alvaro Vitali. In realtà, è in linea con la classica atmosfera del foyer di SantAmbrogio, dove Sieglinde e Brünnhilde possono facilmente diventare Matilde e Clotilde, tanto tutto fa brodo. Meno male che la presenza del Presidente (sempre quello buono, l'altro ha gusti differenti, lo sappiamo bene) tira su la media.

C'è la diretta di RAI5 - ma solo via TV, non in web, evviva il progresso! – che con le sue riprese sembra farci capire che la messinscena, oltre che costosa, sia anche sostanzialmente innocua, nonostante gli sforzi disperati di Cassier di spiegarcela, con arrampicate sugli specchi sui concetti di famiglia borghese e nobile. Più spettacolare – fuoco compreso - è ciò che accade fuori dal teatro, dove c'è gente che urla incazzature e rivendicazioni. Riprese, dentro il Piermarini, da Barenboim, che prima di attaccare Mameli, sale in platea a leggere un comunicato anti-Bondi; solo che Bondi si è guardato bene dal venire e gli fa un virtuale cippirimerlo da chissà dove.

Tu sei la soave primavera, che di nuovo mi adornò,
che mi ringiovanì la linfa di rami e tronco:
fu il tuo richiamo, che allontanò da me la notte,
che nell'inverno teneva intorpidita la mia arte.
Così come mi affascinò il tuo nobile saluto benedicente,
che deliziosamente impetuoso le mie pene rimosse,
così io ora fieramente ricolmo di gioia vago su nuovi sentieri
nel regno estivo della grazia.

No, non sono versi dello sbudellante duetto Siegmund-Sieglinde. Sono parole che Wagner indirizzò al giovane re Ludwig, nell'estate del 1864, da Starnberg, dove abitava grazie alla munificenza de re, e dove aveva iniziato la sua love-story con Cosima, dopo una surreale scenata con il di lei marito, Hans vonBülow, fino a quel giorno suo idolatrante ammiratore. Ma ben dipingono la natura del nostro, tanto sublime nella produzione artistica, quanto leccaculo e mangiapaneatradimento (oltre che antisemita, così, tanto per gradire) nella vita materiale.

C'è chi sostiene che Wagner si immedesimasse in alcuni personaggi dei suoi drammi: Re Marke, Hans Sachs, Gurnemanz. E magari anche in Wotan, come ci è stato spiegato da Daverio &C. Personalmente credo invece che la grandezza del nostro consista nell'aver saputo immedesimarsi in qualunque personaggio, per esprimerne mirabilmente pensieri, sentimenti e azioni.

E mai come nella Walküre ciò emerge in modo straordinario, basta ascoltare parole e musica, senza farsi distrarre troppo dagli effetti speciali di regìe che si illudono – o ci marciano – di aggiungere valore ad opere d'arte come questa, con giochi di luce e proiezioni. (Ma forse è la ripresa televisiva a trarre in inganno… chissà se dal vivo le cose andranno meglio).

Interpreti? Al solito, è il price/performance a lasciare qualche ombra di dubbio. Con il price di un teatro di provincia, la performance sarebbe anche più che accettabile. Con il price della sedicente unica, invece, il rapporto peggiora un filino.

O'Neill ha una vocina leggera, che di certo non piacerà a chi si è fatto una certa idea dell'Heldentenor. Io sarei anche disposto a transigere (Siegmund in fondo è poco più che un ragazzo) senonchè la mezza raucedine (che gli ha risparmiato i SOL bemolle e naturale dei Wälse e il LA del Wälsungen Blut, ma non il SOLb del Geliebte della terza scena del secondo atto) me lo ha fatto scendere sotto la sufficienza.

Tomlinson è un vecchio marpione che garantisce sempre un servizio decoroso.

La Gubanova devo dire mi è piaciuta assai: il suo Deiner ew'gen Gattin heilige Ehre è stato la degna conclusione di una prestazione maiuscola.

La Meier è sempre la Meier, e in Sieglinde si trova proprio a casa sua, niente da dire.

Kowaljow era acconciato che pareva il fratello, non il padre dei gemelli e delle Valchirie, ma a parte questo non mi ha deluso: anche la voce è giovanile, baritonale, quindi un po' fuori dagli stereotipi tradizionali, però ci ha messo espressione e – soprattutto, a differenza di O'Neill – non ha mai costretto Barenboim a rincorrerlo.

La Stemme è pure una Brünnhilde un po' leggera, ma canta magnificamente, e ciò è per me quel che conta di più. 

Dignitosa la prova delle otto sorelle, tutte voci adeguate, con un paio di piccole sfasature nelle entrate.

Barenboim non sarà Thielemann (che però ha imparato qualcosa da lui sulla collina) ma con Wagner non delude mai: per lo meno a livello di gestione della dinamica (sul suono meglio giudicare dal vivo).


A meno che non siano stati tagliati dalla ripresa audio, non si sono uditi buh (nemmeno per Cassier, smile!) il che stabilisce un autentico record per una prima alla Scala, e in specie a SantAmbrogio.

 

29 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (II)

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Die Walküre

È unanimemente considerata la perla di tutta la tetralogia e Wagner stesso le assegnava il ruolo fondamentale all’interno del Ring. Specialmente sul piano drammatico-musicale contiene la summa del rivoluzionario pensiero wagneriano, basti ricordare la seconda scena dell’Atto II e poi la scena finale, sempre protagonisti padre e figlia (Wotan-Brünnhilde).

La prestazione della compagnia di Bayreuth mi è parsa di buon livello (non mi metto a tentare confronti, sempre opinabili e condizionati da mille fattori) anche perché da quattro anni, salvo modifiche fatte col bilancino, il cast è praticamente lo stesso, ormai perfettamente affiatato.

Endrik Wottrich (che continua a calcare il palco di Bayreuth anche dopo che la nuova co-direttrice Kathi lo ha lasciato per un pilota…) è un Siegmund assai solido e primitivo, per me incarna assai bene la natura del personaggio.

Eva-Maria Westbroek, che ha esordito lo scorso anno, è una Sieglinde discreta, che ha evidentemente ancora molta esperienza da fare, ma in complesso non mi sento certo di darle un’insufficienza.

E insieme ai due non si può non parlare del duetto d’amore dell’Atto I, una cosa sempre sconvolgente. Diverso, le mille miglia, da quello ancor più famoso del Tristan. Dove là c’è un approccio e uno scenario tutto cerebrale, psichiatrico verrebbe da dire, qui siamo nella più selvaggia e viscerale naturalità; qui non cantano i cuori nè le menti, ma gli istinti; qui non si distingue l’essere umano dalla natura circostante; qui si sente la carne, nel senso più materiale del termine, si vedono le vene delle tempie del maschio e i seni della femmina che si gonfiano sotto la forza dell’amore, ma l’amore istintivo, quello che il vecchio Sachs scopre nell’uccellino, che a maggio canta senza studiare, ma solo perché deve farlo, sotto l’impulso cogente della natura. Wottrich e la Westbroek, pur con qualche imprecisione di entrata lui e qualche urletto sulle note alte lei, hanno tenuto assai bene la scena, supportati da un’orchestra in stato di grazia, guidata da un grande Thielemann. A cui faccio – sempre, perché lui sempre così lo fa – un appunto sulla chiusura dell’atto, quelle due misure e mezza col LA-SOL dove lui tiene troppo - a mio modesto parere, ma espresso partitura alla mano – l’ultima semiminima, togliendo quell’effetto di schianto repentino (che dovrebbe ricordarci la schiavitù e la frustrazione…)

Kwangchul Youn è un Hunding compìto, se non proprio bonario (forse pensa già a Gurnemanz?) Grande voce ma senza quella rabbia e rozzezza che l’agiografia pretende dal personaggio. Per la verità, se si scava un poco nella partitura si potrebbe scoprire che il nostro non è in effetti un puro e incivile energumeno: se lo fosse, farebbe secco Siegmund già la sera del loro incontro, invece di ospitarlo a casa sua e addirittura lasciarlo solo con la moglie, andandosene tranquillamente a letto! Anche l’etimologia (equivoca, peraltro) del nome (Hund=cane) può esser vista dal lato buono, datosi che molti cani, se non quasi tutti, sono in fondo animali domestici e amici dell’uomo. Certo più dei lupi, specie animale cui si rifà l’eroe Siegmund!

Linda Watson è ormai da 11 anni ospite fissa del Festival, dove ha compiuto un percorso piuttosto strano: da Kundry a Ortrud a Brünnhilde. Devo dire che non mi ha convinto più di tanto, fin dai primi Hojotoho! E – microfoni innocenti? – ha anche stonacchiato i SI che precedono l’arrivo di Fricka. Poco efficace (al solo udito) il suo Zu Wotans Willen sprichts du, quell’autentica perla in LA maggiore che introduce il soliloquio di Wotan. Meglio ha fatto – credo io – nella scena conclusiva, quella della sua giustificazione e del suo confronto col padre, anche se in un altro passaggio topico (Der diese Liebe…) non mi è parsa impeccabile.

Il quale Wotan è qui bene reso da Albert Dohmen, che si deve far perdonare solo qualche piccola amnesia, con relativo scambio di parole, ma che supera di slancio le prove difficili, sia di puro canto (il SOLb del Gold!) che di espressione: le quattro prove a carico contro la figlia, principianti con Wunschmaid warst du mir; il sempre sbudellante Leb’wohl; lo straordinario Der Augen leuchtendes Paar e per finire il grandioso Wer meines Speeres Spitze fürchtet.

La Fricka di Michelle Breedt, alle luci del Rheingold aggiunge qui qualche ombra: è una parte relativamente contenuta come impegno, ma che per questo necessita della massima cura. Che la cantante non è sembrata esprimere in modo adeguato; un esempio per tutti il fondamentale Deine ewigen Gattin heilige Ehre, dove per la verità anche Thielemann – sempre ritenendo innocenti i microfoni – non è sembrato dare il massimo, su quelle terzine ribattute di violini e viole.

Le Walkirie (sempre le stesse, imperterrite, dal 2006!) han fatto bene la loro dovuta confusione. Una nota di colore extramusicale riguarda Waltraute: Martina Dicke viene nel Götterdämmerung ancora declassata a 2a Norna, per far posto a Christa Mayer, la mancata Erda della prima di quest’anno; evidentemente la svedese è ancora considerata inadeguata per la parte più solistica che la sorella di Brünnhilde deve sostenere nel Crepuscolo.

A proposito della cavalcata, qui avrei un altro appunto da fare a Thielemann. Lui ha ormai l’abitudine di introdurre un arbitrario rallentando al momento in cui arrivano Rossweisse e Grimgerde. È anche il momento in cui il poderoso contrabbasso tuba si aggiunge a tromboni e tromba bassa per esporre il tema in SI maggiore. Che l’effetto della personale dinamica del Maestro sia enorme, è garantito, però è lecito chiedersi chi o cosa avrebbe impedito a Wagner di scrivere uno Schwerer o qualcosa di simile sul pentagramma. Invece, nulla di nulla, probabilmente perché l’Autore pensò che bastasse l’ingresso del bassotuba, oltre al fortissimo di corni e strumentini, per creare l’effetto desiderato di accentuazione della pompa e dell’enfasi. Io – non c’è Thielemann che tenga – sto con Wagner (anche se non sto neanche con quei detrattori di Thielemann che lo accusano di tendenze, non solo artistiche, reazionarie).

Però tutto si può perdonare a Thielemann, dopo aver ascoltato passi come la grandiosa giustificazione (che segue lo stupefacente der freier als ich der Gott! di Wotan) e l’intero finale, dove nulla è fuori posto. L’emozione è qui davvero difficile da descrivere, la droga impossibile da neutralizzare…
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10 marzo, 2009

L’ignoranza impera in Albione

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Tale Tom Service, sedicente critico musicale del Guardian (ma sì, un giornaletto da nulla, dopotutto...) scrive una recensione sul film Watchmen. E fin qui nulla da obiettare.

Datosi che nel film viene usata come sottofondo, con idea davvero incredibile e impensabile, la Cavalcata delle Valchirie, il nostro cronista si vuol dare delle arie di esperto wagneriano e così ci racconta che le Valchirie se ne andavano in giro ad ammazzare gente, essendo loro matte per il sangue e amanti dell’omicidio.

Dico: il Guardian!
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19 marzo, 2008

Segnali positivi

La premiére del Festival di Pasqua a Salisburgo prevedeva Die Walküre, con i mitici Berliner guidati da Rattle. Successo per orchestra, kapellmeister (un pò meno) e cantanti (su tutti la Sieglinde Eva-Maria Westbroek).
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Ma il segnale positivo è la sonora buata che si è preso Stéphane Braunschweig, rinomato regista eurotrash.