XIV

da prevosto a leone
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04 maggio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.21

Yoel Gamzou ha fatto il suo gradito ritorno sul podio dell’Auditorium – a quasi due anni dal suo esordio, ancora in era post-Covid - per dirigere il settimanale concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di MilanoSala non certo affollatissima, ma piacevolmente vivacizzata da scolaresche di ragazzini, cosa che di per sé risolleva il morale.

Il cosmopolita Direttore, oggi 36enne, ci ha offerto un programma bipartito di musiche (del ‘900 e ‘8-‘900) ispirate da pittori e pitture.

La prima opera era la Sinfonia Mathis der Maler di Paul Hindemith, che ha risuonato qui quasi undici anni dopo l’ultima esecuzione (che fu anche la prima per laVerdi) allora di Zhang Xian, in occasione della quale avevo scritto alcune note cui rimando gli eventuali interessati.    

Il Direttore israelo-americano ha messo in risalto tutte le qualità di questa difficile partitura, valorizzandone adeguatamente i tratti ora religiosi, ora lirici, ora (ultima parte, soprattutto) anche persino infernali. Un’opera forse guardata con sospetto (di ammiccamenti alla tradizione solo per non inimicarsi i censori nazionalsocialisti) che tuttavia meriterebbe più ospitalità nelle sale da concerto. E di conseguenza più dimestichezza da parte del pubblico, che anche ieri, attaccando uno sparuto applauso dopo la prima parte, ne ha rivelato la sua scarsa conoscenza.

L’Orchestra è stata impeccabile, presa davvero per mano da Gamzou, che alla fine ha fatto il periplo del palco per felicitarsi di persona con prime parti e non solo.
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È poi seguita l’opera di Modest Musorgski - del 1874, per pianoforte, divenuta celeberrima ed eseguitissima grazie alla straordinaria orchestrazione di Maurice Ravel del 1922 – Quadri di un’esposizione. (Anche per questa rimando il lettore ad un mio precedente intervento, basato peraltro sull’originale per pianoforte).

A differenza della Mathis, questa partitura è universalmente nota ed eseguita, e quindi è diventata uno dei cavalli di battaglia dell’Orchestra, che l’ha già suonata almeno una dozzina di volte, la prima addirittura nella stagione dell’esordio, 30 anni orsono, sotto la bacchetta del venerabile fondatore Vladimir Delman.

E il risultato è stato un trionfo epocale. Gamzou alla fine, spalleggiato da un interminabile applauso ritmato, ha impiegato almeno cinque minuti a girare da un leggìo all’altro per complimentarsi e ringraziare quasi uno ad uno i ragazzi per questa strepitosa esecuzione, che tale è stata ovviamente anche per merito suo.

23 gennaio, 2020

Il Maeschtre è tornato alla Scala


Ieri sera Riccardo Muti è tornato - dopo quasi tre anni - a calcare il podio scaligero. Portandosi ancora dietro... tutta la numerosa famiglia americana, con la quale sta girando mezza Europa e dopo aver già fatto soste a Napoli e Firenze, due città che - ma chissà poi perchè - pare gli siano molto care.

Come a Napoli e a Firenze (dove si è registrato il tutto-esaurito da settimane) anche il Piermarini era affollato, anche se non proprio come un barile di sardine... Dove Muti ha eseguito lo stesso programma presentato proprio lo scorso lunedi all’OF: programma davvero impegnativo, oltre che interessante dal punto di vista dei contenuti. Val la pena sottolineare il diverso grado di oggettiva difficoltà (per l’ascoltatore, quindi per il pubblico) dei due programmi italiani (Ouverture wagneriana a parte): quello di Napoli (il Prokofiev trascinante di Romeo&Giulietta e l’inflazionato Dvorak del Nuovo Mondo) è fatto di musica, per così dire, facile, che si può godere anche ad un ascolto passivo, tanto accattivanti sono temi e motivi che la innervano. Quello di Firenze-Milano (presentato anche nella prima delle tre fermate viennesi della tournée della CSO) propone due sinfonie poco conosciute al vasto pubblico, proprio perchè sono musica piuttosto ostica, cerebrale, di non immediata presa.

Credo difficile pensare che questa differenziazione di programmi (tra NA e FI-MI) sia stata frutto del caso o di scelte fatte tirando la monetina o condizionate da qualche esigenza tecnica, e non sia invece stata influenzata anche da ragioni... geopolitiche (ciascuno ne tragga poi le conclusioni che crede!)

Così anche ieri alla Scala, dopo l’Ouverture dell’Holländer, sono state eseguite due Sinfonie che ebbero curiosamente gestazioni simili (e assai complicate) negli anni ‘30 e ‘20 del ‘900: entrambe infatti furono composte impiegando materiale di opere teatrali che gli autori stavano completando o che avevano appena completato, ma che avevano difficoltà a mettere in scena. Mathis der Maler fu composta da Hindemith nel ‘33-34, mentre l’opera vide la luce solo nel ‘38, e non in Germania, causa... Hitler. La Terza di Prokofiev è del ‘28-29, mentre l’opera L’Angelo di fuoco (del ‘22, cui la Sinfonia è debitrice) addirittura non sarà mai rappresentata vivente l’Autore.

Due lavori che sono anche vagamente accomunati da una componente, per così dire, mistica, pur se in scenari quasi agli antipodi: sinceramente religioso, nel raccoglimento come nel trionfo, quello di Hindemith; nobile, ma con accenti talvolta quasi sacrileghi quello di Prokofiev!
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Sull’eccelsa qualità della CSO è inutile dilungarsi; che circa 10 anni orsono abbia fortemente voluto come guida Riccardo Muti testimonia invece dell’alta considerazione in cui il Maeschtre è tenuto in tutto il mondo. E il rifiuto dei professori ad alzarsi, alla terza uscita finale, la dice lunga della stima di cui Muti gode dentro la compagine orchestrale.  

Fulminante il biglietto da visita con cui l’Orchestra si è presentata: l’attacco dell’Olandese, con gli archi (violini e viole) in un tremolo letteralmente tagliente! Muti ci ha poi messo del suo, chiedendo a corno inglese ed oboe la massima espressività nella presentazione del tema della Redenzione (la ballata di Senta) e poi evitando facili sguaiatezze nei motivi dei marinai norvegesi. Poderoso il pieno orchestrale in chiusura dell’Ouverture, accolta da ovazioni.

Mathis è una  composizione che meriterebbe più attenzione da chi programma concerti: ricordo una benemerita esecuzione de laVerdi nel 2013 (con Xian) ma non ci sono in giro molti casi analoghi. L’esecuzione di Muti con la CSO ha confermato la qualità di questa musica, che il Maestro ha ulteriormente valorizzato, accentuandone proprio il carattere di religiosità composta e nobile, quella ispirata alle pale dipinte dal pittore cinquecentesco a Isenheim.     

Della Terza del compositore ukraino Muti ha scavato le profondità espressioniste, così legate al soggetto teatrale cui già Prokofiev aveva dato forma anni prima, pur non essendo ancora riuscito a farlo rappresentare. È una musica che si fatica a digerire se si prescinde dalla sua sorgente, che invece le conferisce quella narrativa (il conflitto aspro e insanabile tra religione e stregoneria) che ce la rende apprezzabile, spiegandocene le apparenti contraddizioni.          

Alla fine Muti ha offerto lo stesso bis di Firenze, il mirabile Andante cantabile in MI maggiore dall’Intermezzo del second’atto di Fedora, dopo aver reso omaggio a Milano e a due musicisti cui deve tutto: il suo maestro e pigmalione Antonino Votto e il grande Gianandrea Gavazzeni. Poi ha fatto ciao-ciao a due mani e si è portato via i suoi ragazzi, tutti subissati da strameritati applausi...

31 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 19


Riecco Jader Bignamini con laVERDI in un programma davvero corposo ed interessante, dove Strauss racchiude Hindemith e Goldmark.

Apre la serata Till Eulenspiegel (I tiri burloni di…) dove Strauss fa un regalino al padre (famoso cornista) scrivendo quel tremendo passaggio che l’interprete deve suonare a freddo (battuta 7) e che prevede, dopo tre scalate apparentemente facili, un precipitare sulla triade di FA di quasi tre ottave, dal RE acuto al FA grave:
Oltretutto la prima volta va suonato piano, il che non aiuta, mentre subito dopo, in mezzo-forte sfociante a fortissimo, già lo strumentista può rinfrancarsi assai.

Come in tutta la musica a programma, la pertinenza dei suoni con il programma è lasciata alla nostra capacità di giudizio, o alle nostre reazioni di fronte ai suoni, una volta che ci sia stato chiaramente spiegato da chi, cosa o quant’altro siano stati, quei suoni, ispirati al musicista.

Che l’assolo del corno, come quello più avanti del clarinetto in RE, ci sbozzino la personalità del burlone Till è concetto che arriviamo a condividere soltanto dopo che siamo stati informati dell’identità del citato burlone. Mai e poi mai – ignorando tale identità – avremmo potuto sbottare, ascoltando di primo acchito quei temi: ma certo, come no! è quel mattoide di Till, lo si riconosce da lontano!

Insomma, sulla natura della musica aveva mille ragioni il tanto vituperato Eduard Hanslick, e se la musica a programma ci può piacere è solo - ed esclusivamente – perché è grande musica di per se stessa, alla faccia del programma!

Sarà che non lo suonano spesso, ma mi è parso che i ragazzi avessero qualche problema di affiatamento, che peraltro non ci ha impedito di ascoltare un Till più che dignitoso, anche se non eccezionale. Bignamini da parte sua ha mostrato ancora una volta le sue doti e la sua personalità, fin dal vibrante attacco del corno (Allmählich lebhafter) che ha velocità tripla rispetto all’introduzione (Gemächlich) mentre troppo spesso viene eseguito (per far un favore al cornista…) con eccessiva sostenutezza. Tutto sommato una prova ben accolta dal pubblico (anche ieri sera non oceanico).
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Ecco poi il virtuoso di casa Radovan Vlatkovic interpretare il Concerto per corno di Paul Hindemith. Ne fu dedicatario Dennis Brain, che ne eseguì la prima giovedi 8 giugno 1950 a Baden-Baden con Hindemith sul podio della Südwestfunkorchester. Ecco qui i due in una successiva registrazione con la Philharmonia.

L’orchestra, assai leggera, presenta archi, legni (1-2-2-2, mentre il corno solista è l’unico degli ottoni) e timpani. La struttura del concerto è nei classici tre movimenti, ma assai sbilanciata sul fronte delle durate, con i primi due che insieme occupano circa 6’ (73+138 battute) e il terzo che da solo supera i 9’ (274 battute). In omaggio alla sua seconda patria americana, le indicazioni agogiche sono presentate da Hindemith in inglese e, a fianco, in tedesco.
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Seguiamo l’esecuzione ascoltando Hindemith e Brain. Il Moderately fast iniziale presenta un tema principale, esposto dall’orchestra e poi dal solista, tema che la fa da padrone, e un secondo motivo esposto dal solista. È l’orchestra ad aprire il movimento (4”) con l’esposizione del tema principale, caratterizzato da diversi salti di tempo e costituito da tre sezioni di cui le prime due insieme coprono il totale cromatico dei 12 suoni. Qui la parte dei violini, che il flauto doppia per la prima sezione:

Siamo quindi in presenza di un classico esempio di quella dodecafonia tonale che Hindemith teorizzò e praticò in opposizione alla dodecafonia atonale di Schönberg.

(19”) Il tema viene ripetuto a uguali altezze da violoncelli e fagotti, che però alla quinta battuta lo variano senza chiuderlo, mentre flauto e clarinetti (28”) entrano sul tema in contrappunto, ma partendo dal DO#. (41”) Ora violini e flauto riespongono la sola sezione iniziale del tema, ripetendola per tre volte in 5 battute di 5/4 ma traslando, rispetto all’inizio, la scansione di una semiminima in ritardo e l’altezza di un semitono in alto (si parte da FA#).

(54”) Adesso (battuta 21) entra il corno solista, che espone, tornando al FA e con scansione più regolare (4/4 in prevalenza) il tema ampliato e leggermente variato: la seconda sezione presenta due inversioni di note della serie e viene ripetuta altre due volte. La chiusa (SIb - SOLb - FA) è enarmonicamente identica a quella dell’esposizione orchestrale:
(1’15”) Ancora sul FA archi e flauto espongono la sola sezione iniziale del tema. Il corno (1’18”) ne riprende il frammento finale (4 note) reiterandolo variato, prima di esporre (1’37”) un secondo motivo più mosso, che parte dal SOL#:
(1’50”) Archi e flauto tornano ancora sul tema principale (prima sezione) questa volta dal SOL#; i violini espongono la seconda sezione, che il corno contrappunta e poi sviluppa ulteriormente per tornare (2’14”) ad esporre il tema, canonicamente dal FA, ma variandolo ulteriormente.

(2’41”) Riecco nel corno il secondo tema, questa volta dal FA# e variato, fino a condurre (2’52”) alla cadenza finale, basata sul primo tema e chiusa (3’09”) da un inciso esposto in forte dal solista e poi in fortissimo dall’orchestra, seguito da una mesta fanfara sul FA grave del corno.

Abbiamo ora il tempo centrale, Very fast, che è in forma di Rondo con struttura A-B-A-B-A-C-C’-A-A’ e una Coda conclusiva. È di norma il corno a prendere l’iniziativa, mentre l’orchestra risponde con gli strumenti acuti (ottavino e violini).

(3’24”) Il corno espone il ritornello A (che parte e chiude sul FA) con timpani e celli ad accompagnarlo in contrattempo:
Il ritornello (3’33”) è ripreso, semplicemente arricchito nell’armonia, dall’orchestra, poi (3’41”) il corno espone il primo episodio (B), avente sempre il FA come nota di riferimento:
L’ultimo FA diviene anche il primo della ripresentazione del ritornello (3’51”) sempre nel corno, ma con traslazione di una semiminima (timpani e celli sui tempi forti della battuta, corno in contrattempo).

(4’00”) L’orchestra imita il solista riproponendo il motivo B seguito (4’08”) dal ritornello in contrattempo. Rientra ora il corno (4’17”)  che espone il motivo C, assai mosso, stavolta centrato sul SOL:

(4’27”) Il motivo C viene ripreso ed arricchito (C’) dall’orchestra con il solista ad accompagnare con sporadici interventi di semicrome. (4’33”) Riecco il corno con il ritornello, sempre dal FA, ora in tempo giusto, compreso l’accompagnamento dei fagotti, mentre i violini si sbizzarriscono con volate di semicrome. Il ritornello è proseguito (4’42”) dall’orchestra (A’) mentre il corno accompagna con un motivo diatonico e poi dialoga con l’oboe fino all’arrivo (4’58”) della Coda, che ha la inizialmente la forma del ritornello A. Poi tutto si stempera fino ad un esilarante sussulto (5’07”) del corno, prima della chiusura sul FA.

Il terzo movimento è, come detto, il più robusto ed articolato dei tre: si suddivide in sei sezioni, caratterizzate da motivi e tempi diversi.

(5’21”) Il corno, con discreto accompagnamento, attacca in tempo Very slow esponendo un tema costituito da due sezioni, di cui la seconda formata dalla ripetizione anche variata di un breve motivo:
L’orchestra riprende negli archi (5’59”) con agitatissime biscrome dei fiati, l’elemento (a) e subito il corno (6’13”) espone un nuovo motivo (c) accompagnato dai soli archi con incisi nervosi:

Ora il tempo muta (6’56”) in Moderately fast, una vasta sezione caratterizzata dall’esposizione di nuovi motivi, magari imparentati perché ottenuti attraverso trasformazioni:
Corno e oboe ci giocano, poi (7’53”) è il flauto a presentare un nuovo motivo, sul quale subito risponde il corno:

(8’06”) È ancora il corno a dare inizio alla parte finale della sezione, esponendo un nuovo motivo (d) la cui conclusione:
è ripresa dai clarinetti che poi si aggiungono al corno per la chiusura.

Inizia ora (8’53”) la sezione Very fast, dove il corno tacet (è il classico momento di pausa che il solista impiega per… svuotare lo strumento). Gli archi, poi raggiunti dai fiati, curiosamente ripropongono il motivo iniziale (a) con valori aumentati, equilibrando quindi l’effetto della diversa agogica. Si tratta di una serie di varianti del tema che viene magistralmente esposto e contrappuntato alternativamente da archi e fiati.

(9’43”) A questo punto sulla pagina della partitura Hindemith scrisse alcuni versi (in tedesco antico) sotto il titolo Declamation, in cui esalta i suoni del corno (che nelle successive 41 battute propone un motivo dal sapore arcano, quasi declamasse proprio quei versi) invitando l’ascoltatore a lasciarsi da essi trasportare nel passato, di cui onorare le vestigia:

“Mein Rufen wandelt
In herbstgetönten Hain den Saal,
Das Erben in Verschollnes,
Dich in Gewand und Brauch der Ahnen,
In ihr Verlangen und Empfahn dein Glück.
Gönn teuren Schemen Urständ,
Dir Halbvergessener Gemeinschaft,
Und mir mein tongestaltnes Sehnen.“
“Il mio richiamo trasforma
l’auditorium in un bosco di suoni autunnali,
l’erede nello scomparso,
te nelle vesti e nei costumi degli antenati,
la tua felicità nella loro nostalgia e accoglienza.
Concedi la resurrezione alle care ombre,
a te la comunione con loro, semidimenticati,
e a me la mia nostalgia plasmata nei suoni.”

È una specie di compendio poetico dell’estetica di Hindemith, che propugnava una rivalutazione dell’antico (non un ritorno tout-court all’antico) come motore per il progresso della musica. Insomma, lui vestiva un po’ i panni di Hans Sachs!

I primi tre versi, liberamente tradotti in inglese, sono incisi sulla lapide che allo Hampstead Cemetery di Londra ricorda Dennis Brain, prematuramente scomparso a soli 36 anni nel 1957, schiantandosi contro un albero con la sua Triumph TR2, mentre tornava a casa da Edinburgo, dove aveva suonato la Patetica con Ormandy:


Dopo la chiusura (11’30”) inizia ora una sezione in tempo Lively, che negli archi e poi (12’11”) nel corno e quindi nell’ottavino ripropone i motivi della precedente Moderately fast, sottoposti a sottili manipolazioni. Anche il motivo (d) ricompare (13’09”) nel corno, subito imitato dal clarinetto.

(13’57”) Nell’ultima sezione (Very slow) il corno, accompagnato discretamente dagli archi e alla fine anche da clarinetti e fagotti, riprende il motivo (c) e conduce serenamente alla conclusione, sul DO che si unisce al LA dei clarinetti, al DO dei fagotti, al FA dei contrabbassi e a due discese dei violini (DO-SIb-LA e poi LA-SOL-FA). Insomma, si chiude su un perfetto… FA maggiore!
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Il grande Radovan non si smentisce e cava dal suo corno magico bellissimi suoni – compresi quelli a campana chiusa alla fine della Declamation - che danno piena ragione ai versi di Hindemith! Per lui trionfo assicurato e quindi un bis che – come ha già fatto altre volte – non esegue da solo ma insieme a colleghi dell’orchestra: così con Ceccarelli, Amatulli e Buldrini ci porge il primo tempo della Sonata per 4 corni (1952) di… Hindemith!
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Ora è la volta del poco conosciuto Karl Goldmark e della sua ouverture Im Frühling. Che spiega perché questo compositore sia… poco conosciuto (smile!) Questo pezzo che sta, diciamo, fra Dvorak e Rimski, a me dà l’idea del tipico vorrei, non posso. Francamente mi sfugge il razionale di averlo proposto – vaso non di coccio, ma di cartavelina – fra tre vasi d’acciao. Come sempre in casi simili, va lodata l’abnegazione dei ragazzi che se lo sono studiato per proporcelo facendo del loro meglio.
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Ha chiuso la serata l’inflazionato Zarathustra, che a differenza del Till l’orchestra padroneggia ormai disinvoltamente e di cui anche Bignamini ha fornito un’interpretazione davvero pregevole, salutata da ovazioni per tutti e ripetute chiamate per il Maestro, che fra una settimana ci farà un’anteprima della Butterfly che lui dirigerà prossimamente alla Fenice

07 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.37


Gaetano d’Espinosa, che dalla prossima stagione sarà Direttore Principale Ospite de laVerdi, si ripresenta sul podio con un bel programma che incastona un lavoro di Hindemith fra due opere di Mendelssohn. Sono due mondi solo apparentemente lontani, in realtà avvicinati dalla presenza di Weber, che in qualche modo ispirò il Mendelssohn del Sogno e che Hindemith fece direttamente oggetto della sua Metamorfosi.  

Ad aprire la serata l’Ouverture del Sogno: se si pensa che fu composta praticamente da un ragazzino, vien da dar ragione – magari solo nel caso specifico - a Schumann che parlava di Mendelssohn come di un nuovo Mozart! Tanto meravigliosa è la poesia e mirabile la struttura formale di questo autentico gioiello, certamente ispirato dall’Oberon di Weber prima che da Shakespeare, ma prodotto di un autentico talento naturale (le idiozie che Wagner scrisse su Mendelssohn nel suo Das Judenthum in der Musik trovarono la più palese e clamorosa smentita proprio da Wagner medesimo, che fece letteralmente razzìa di temi Mendelssohn-iani nel comporre i suoi capolavori).         

Se devo fare un piccolo appunto a D’Espinosa citerei la scarsa enfatizzazione dei famosi quattro accordi che aprono, intermezzano (?) e chiudono l’Ouverture: quelle corone puntate, secondo i miei gusti, meriterebbero più spazio di quanto non ne abbia loro riservato il Direttore, proprio per staccare più marcatamente con il parossismo dei violini che si slanciano sul tema delle fate. Per il resto, encomiabile direzione ed esecuzione.
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Paul Hindemith, che dopo svariati alti-e-bassi nei suoi rapporti con il nazionalsocialismo aveva finalmente deciso di emigrare (prima in Svizzera, con la moglie ebrea, e poi in USA, inizialmente da solo) compose la Symphonic Metamorphosis of Themes by Carl Maria von Weber for Orchestra (il titolo è più lungo della composizione, smile!) nel 1943 nella sua casa di New Haven (dove era titolare di una cattedra di Teoria della Musica a Yale) recuperando materiale che in origine era destinato ad un balletto di Léonide Massine, poi andato a monte.

Il titolo inglese (che è chiaramente al singolare, quindi la - non le – metamorfosi) fu espressamente voluto in omaggio al mondo che il compositore aveva abbracciato (almeno temporaneamente, in attesa che Hitler togliesse il disturbo) come una nuova Patria, tanto che Hindemith si arrabbiò assai quando il suo editore tedesco, ristampando la partitura per l’Europa nell’immediato dopoguerra, pensò bene male di tradurlo in tedesco…

I temi di Weber che Hindemith sottopone a metamorfosi non sono certo presi da Oberon, o Euryanthe, o dal Freischütz, ma da tre piccole composizioni per pianoforte a quattro mani (op. 60, del 1818 e op. 10 del 1809) e dall’ouverture delle musiche di scena per la Turandot di Schiller (1809). In origine pare che Hindemith intendesse comporre un’opera più estesa: fra i suoi appunti e schizzi sono stati trovati riferimenti ad altri 4 (o 5) brani (delle op. 3, 10 e 60) che evidentemente avevano attirato l’attenzione del compositore.

E non sono solamente i temi, ma praticamente i brani completi, che Hindemith non si limita ad orchestrare ma, appunto, a trasformare e reinterpretare a suo modo. Il risultato che ne consegue è una specie di breve sinfonia in quattro movimenti, per una durata totale di poco più di 20 minuti. Qui è l’autore stesso che la dirige con i Berliner, una dozzina d’anni dopo la composizione.

Il materiale weberiano di origine non è certo di prim’ordine: non è praticamente mai eseguito in concerto e per lo più è impiegato come esercizio per studenti. Ma Hindemith ne ha saputo cavare qualcosa di - quanto meno - interessante (non parliamo di capolavori, certo) a testimonianza della maturità che aveva ormai raggiunto e della capacità di padroneggiare le forme classiche verso le quali le sue attenzioni di studioso si erano rivolte. 
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Il primo brano (Allegro) viene dal quarto degli Otto Pezzi op. 60. I primi violini riprendono alla lettera la melodia originale, ma l’orchestra già ribolle di sonorità sgargianti, come testimoniano gli impertinenti interventi degli strumentini:


Il brano ricalca fedelmente l’intero pezzo di Weber, arricchendolo però di esuberanza e di humor.

Il secondo tempo (Scherzo, Moderato) è derivato dalla Turandot. Qui la storia assomiglia ad una catena di SantAntonio, così sintetizzabile: Hindemith prende a soggetto l’Ouverture di Weber, il quale per dare un sapore d’oriente al pezzo senza doversi immaginare o inventare la musica cinese, non aveva trovato di meglio che sfogliare il Dizionario musicale di Jean-Jacques Rousseau, dove aveva scovato una melodia cinese, che Rousseau aveva a sua volta scopiazzato (impercettibilmente modificandola) da un trattato sulla Cina di tale Jean-Baptiste Du Halde. Insomma, una genealogia che arriva, compreso lo sconosciuto e supposto originale cinese, alla quinta generazione! E ogni generazione ovviamente cambia qualcosa nel soggetto, in primo luogo la tonalità…

Mentre Weber aveva preso alla lettera la melodia di Rousseau, costruendoci sopra una (relativamente) breve ouverture attraverso ripetizioni variate del tema, Hindemith si permette anche qualche piccolo intervento sul soggetto weberiano, oltre ad abbassarne la tonalità di un grado.

Poi dilata ipertroficamente il brano, in pratica raddoppiandone la durata rispetto a Weber, ma sempre attraverso l’uso della variazione (o… metamorfosi?) o spostando il tema principale da una sezione all’altra dell’orchestra e contrappuntandolo con incisi o frammenti suonati dalle altre (trilli nei legni, veloci scale negli archi). In forma di passacaglia e con un procedimento abbastanza vicino a quello impiegato da Ravel nel suo Bolero, Hindemith ottiene un crescendo del volume del suono fino a raggiungere un climax, su un accordo tenuto dell’intera orchestra, al quale segue una specie di pausa di riflessione, rappresentata da un agitato recitativo dei primi violini.

E qui ecco l’esilarante sorpresa: arriva il jazz! Combinato con la fuga! Manco a dirlo sono i tromboni ad introdurre una versione fortemente sincopata del tema, che poi contagia l’intera sezione degli ottoni, cui in seguito dà il cambio quella dei legni, mentre percussioni e timpano dettano il ritmo proprio come in una band.

Il suono si dirada e sono i violoncelli a riprendere il tema principale, ma i fiati tornano a contrappuntarlo con stile jazzistico. C’è un siparietto di gloria anche per le percussioni (campane, triangolo, tomtom, gong, blocchi di legno) che vengono in primo piano e creano un curioso contrattempo, suonando sei battute in 4/4 mentre i timpani e i radi strumenti suonano una battuta in 3/4, due in 2/2, una in 3/4, una in 2/2 e una in 3/4… La chiusa è anch’essa sorprendente: un dolcissimo accordo di FA maggiore di legni, corni e archi bassi, impreziosito dal gong.

Il terzo brano è un Andantino, mutuato dal secondo dei Sei Pezzi op. 10:
Hindemith inizialmente espone alla lettera l’originale di Weber, ma poi ci mette parecchio di suo, ad esempio nella sezione corrispondente all’indicazione tranquillo.

Alla ripresa del tema principale, affidata al fagotto, il flauto occupa prepotentemente la scena, con un lungo recitativo di biscrome, che porta il brano alla conclusione.

L’ultimo tempo di questa specie di sinfonietta si rifà ancora all’op.60, precisamente al n°7, una Marcia. Notiamo un inciso che Hindemith sottolinea proprio come aveva fatto Mahler nel primo tema della sua Sesta:

E infatti non è difficile immaginare qualche sotterraneo legame che unisce circolarmente Hindemith, Mahler e Weber. Dunque: Mahler era ebreo (come la moglie di Hindemith) e come Hindemith aveva dovuto subire una qualche – più o meno blanda – angheria da parte degli ambienti legati all’antisemitismo; entrambi avevano trovato più o meno grande accoglienza in America, mentre la loro musica era bollata dal nazismo come degenerata; da parte sua, Mahler aveva avuto con Weber dei rapporti… post-mortem: quando aveva completato, dopo geniale decifrazione di schizzi e appunti, l’opera Die drei Pintos che Weber aveva lasciato allo stato di abbozzo. Non meraviglia quindi che Hindemith abbia in qualche modo voluto coinvolgere anche Mahler nel suo affaire con Weber!    
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Gagliarda l’esecuzione dei ragazzi, che D’Espinosa ringrazia alla fine quasi uno per uno… 

Chiude la bella serata l’Italiana. L’Orchestra la deve conoscere a memoria e D’Espinosa deve soltanto (ma questa non è una denigrazione, sia chiaro…) rinfrescargliela. Lui dà il suo sigillo personale con una clamorosa, quanto indebita, accelerazione nelle ultime cinque battute del finale, ma gli si può tranquillamente perdonare l’ardimento!

Per chi ama letture impegnative, ecco qui un corposo saggio su Mendelssohn del sommo Quirino Principe, comparso nel gennaio 1992 su Musica&Dossier.
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Chiusura di stagione… all’opera: Xian entra in Cavalleria


10 maggio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.34


Ancora Zhang Xian in Auditorium con Hindemith e Beethoven.

Paul Hindemith è stato uno dei musicisti più importanti del ‘900, quanto a scienza, dottrina, ricerca e innovazione, ma allo stesso tempo uno dei più controversi e bistrattati, e di certo la scarsa presenza della sua musica nelle sale da concerto non gli rende giustizia. Per la ricorrenza dei 50 anni dalla morte laVerdi ha messo in cartellone due opere in questo concerto e una nel penultimo della stagione.  

Il richiamo alle antiche tradizioni – musicali e non – fu una caratteristica della produzione di Hindemith (Mathis der Maler ne è l'archetipo) che cercò la sua strada all’innovazione rifiutando le rivoluzioni (espressioniste, seriali o neoclassiche) che imperversavano nella prima metà del secolo per rivalutare il contrappunto dei grandi maestri, Bach in testa, e impiegando in modo originale e personalissimo le risorse del sistema tonale e della scala cromatica.
     
Il 51enne Christophe Desjardins interpreta il primo brano in programma (diverso da quello annunciato a suo tempo, che era la Konzertmusik per viola del 1930): Der Schwanendreher, una specie di concerto per viola e orchestra (con gli archi ridotti a soli 4 violoncelli e 3 contrabbassi, per meglio far risaltare lo strumento solista) composto da Hindemith - lui stesso un apprezzato violista - nel 1935 ed eseguito in prima il 14 novembre (era un giovedì) di quell’anno ad Amsterdam, con il compositore alla viola e il grande Willem Mengelberg sul podio.

Il titolo letteralmente significa giratore di cigni, che sarebbe l’addetto alla… rosticceria, quello che fa girare lo spiedo. In questo contesto significa però un suonatore di organetto, di cui gira la manovella che è a forma di collo di cigno.  

A riprova dell’attenzione e dell’amore di Hindemith per la tradizione e per l’arte popolare, i tre movimenti del concerto richiamano esplicitamente quattro antichi Lied tedeschi (presi da una raccolta di Franz Magnus Bohme del 1877, una specie di nuovo Wunderhorn, ma con testi corredati da precisi riferimenti musicali) e nella prefazione alla partitura Hindemith espone una specie di programma (autobiografico?) dell’opera: un menestrello che canta e suona, per un’allegra compagnia, stornelli e canzoni raccolti in lontani paesi e da lui liberamente arricchiti con propri abbellimenti.
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Il primo movimento ha la struttura di un Rondò preceduto da un’introduzione a mo’ di cadenza della viola, dove il tema principale A è quello del Lied Guter Rath für Liebesleute (Buon consiglio per gente innamorata) che tratta della separazione fra due amanti, ed è esposto inizialmente da corni e tromboni, in tre diversi spezzoni, intercalati dalla viola:


Il tema A ritorna due volte, la prima negli strumentini seguiti dagli ottoni, la seconda in chiusura del movimento, ancora negi legni. Il tema B, assai vivace, è di Hindemith, affidato alla viola, che sul tema A invece si limita a contrappuntare l’orchestra, assumendo il ruolo del menestrello che abbellisce il motivo originale del Lied. L’accordo conclusivo è un tonalissimo DO maggiore.

Il secondo movimento, lento, che ha la struttura A-B-A preceduta da un’introduzione, ha come base dei temi due Lied intitolati rispettivamente Nun laube, Lindlein laube (Ora cresci, piccolo tiglio, cresci) e Kuckuk (il cuculo). ). Dopo la lunga e struggente introduzione della viola, il primo tema - un corale - ha come soggetto il lamento di chi ha perso l’amato/a:


Il secondo tema (fugato) sempre introdotto dalla viola, racconta le avventure di un cuculo che si infradicia completamente standosene sotto la pioggia, appollaiato su una staccionata:


Il tema è presentato in successione dagli strumentini, sempre contrappuntato dalla viola. Dopo un nuovo intermezzo del solista, torna il primo tema, timidamente, a chiudere il movimento, su un calmo LA.

Il movimento finale è un tema con variazioni sul Lied Der Schwanendreher, che dà anche il titolo al concerto:


In questo caso anche la viola partecipa all’esposizione del tema, oltre che interpretare o contrappuntare le successive 12 variazioni, che impiegano svariati mezzi espressivi, intervenendo sul ritmo e sul metro, o introducendo scale, trilli ed arpeggi.

Particolare importanza ha l’iniziale scaletta discendente, che viene impiegata in modo estensivo e chiude perentoriamente il concerto, scendendo dal SOL al DO.
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Xian dispone i sette archi bassi di fronte al suo podio (violoncelli al centro e contrabbassi a sinistra) e l’arpa alla sua destra. Eccellente l’esecuzione di Desjardins, ben sostenuto dall’Orchestra dalla quale Xian estrae tutti i dettagli di questa interessante partitura. Caloroso successo e bis (sempre Hindemith?)
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Segue poi la Sinfonia Mathis der Maler, che ebbe una gestazione abbastanza insolita: mentre componeva l’opera di pari titolo (che avrà un parto assai difficile nel 1938, all’estero, a causa dei problemi che il compositore ebbe in Germania con il nazismo, con il quale cercò invano di convivere, decidendo infine per l’esilio) ad Hindemith fu richiesta da Wilhelm Furtwängler una composizione strumentale e il nostro ne approfittò per impiegare temi dell’opera (ancora in costruzione) in questa specie di sinfonia in tre movimenti, che ebbe la sua prima a Berlino con la Filarmonica diretta dal… committente, lunedì 12 marzo 1934.  

La predilezione di Hindemith per il pittore cinquecentesco Mathis Nithart (o Gothart) conosciuto come Grünewald, protagonista dell’opera, nacque forse, chissà, dalla propensione che il musicista medesimo aveva per il disegno, testimoniata da una produzione assai ricca (qui allego in proposito un interessante scritto di Marco Vallora, apparso sul numero di gennaio del 1988 della rivista Musica&Dossier) ma sicuramente dall’affinità elettiva che Hindemith trovava con quel pittore tardo-medievale, che aveva fatto della rivendicazione della missione dell’artista in una società sconvolta da fenomeni epocali la sua ragione di vita.

Le tre parti della sinfonia si richiamano a pannelli dell’Altare di Isenheim (a Colmar, Alsazia) dipinti da Mathis fra il 1512 e il 1516. Nell’opera, che è costituita da 7 quadri (ecco qui un’edizione assai… adulterata) i brani si configurano rispettivamente come ouverture e come intermezzi (la terza parte fu composta dapprima per la Sinfonia e poi trasportata, non completamente, nell’Opera).
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La prima parte, in tempo mosso e in una spuria forma-sonata, si intitola Engelkonzert (Concerto di Angeli) e si richiama al dipinto centrale dell’altare – che appare all’apertura dei pannelli esterni - dove sono raffigurati tre angeli che cantano e suonano per la Vergine:



La partitura riporta il riferimento ad un Lied popolare (che già aveva musicato Mahler nella Terza Sinfonia) dal titolo Es sungen drei Engel (Tre Angeli cantarono) esposto dai tromboni:

Nell’opera (sesto quadro) ci farà riferimento Regina (il principale personaggio femminile). Qui fa da introduzione – ripetuto altre due volte in tempo solenne dai corni e poi da tutti i fiati - all’esposizione dei temi di questo primo movimento.

Il primo dei temi, assai spigliato, il cui incipit 10 anni più tardi si ritroverà nel secondo movimento della Quinta di Prokofiev, è esposto inizialmente dai flauti:

Poi è ripreso dall’orchestra, quasi a singhiozzi, a strappi, fino all’entrata di un secondo tema, più cantabile, nei violini:

Motivo poi ripreso dai fiati e sviluppato ancora dagli archi, fino ad una pausa che introduce un nuovo motivo impertinente, nel flauto imitato dai violini:


Sotto di esso ricompare il primo tema a chiudere, con tranquilli accordi, l’esposizione.

Inizia ora lo sviluppo, con due temi principali che si ripresentano e si intersecano, in un crescendo che porta, nei tromboni, alla ripresa solenne del tema del Lied dell’introduzione, ancora ripetuto dai corni e poi dall’orchestra con grandissima enfasi.

Il primo tema dà il via alla ricapitolazione, seguito dal terzo motivo, sempre nel flauto e violini; poi ancora il primo tema e quindi il secondo, ora esposto in modo assai ampio ed enfatico dagli strumentini. Tocca al primo tema l’ultima parola, prima della chiusa sugli accordi perfetti di SOL maggiore.

La seconda parte, piuttosto breve (45 battute) e in tempo lento, si intitola Grablegung (Sepoltura) e si richiama al pannello della base dell’altare, dove è raffigurata la deposizione di Cristo:


La musica ha ovviamente un carattere mesto e solenne, fino dall’introduzione:
Nell’opera compare come interludio all’interno del settimo ed ultimo quadro. È una lenta cantilena, esposta dai legni, inframmezzata da strappi, che sembrano evocare gli sforzi di chi sta calando il corpo di Cristo dalla croce. Alla fine un sereno accordo di DO# maggiore saluta la composizione della salma nel sepolcro.   

La terza parte si intitola Versuchung des Heiligen Antonius (Le Tentazioni di Sant’Antonio) e si richiama al pannello destro interno, dove è rappresentato il Santo alle prese con mostri di ogni genere:



La partitura riporta come sottotitolo una scritta latina presente sull’altare di Isenheim: Dov’eri buon Gesù / dov’eri, perché non venisti / a sanare le mie ferite?:


Come detto, parte della musica di questo finale (composto inizialmente per la Sinfonia) fu successivamente impiegata da Hindemith nel sesto quadro dell’opera, a sottolineare la visione notturna di Mathis, che sogna Sant’Antonio, San Paolo ed altri personaggi, che avevano ispirato i suoi dipinti ad Isenheim.  

L’inizio è occupato da un’introduzione lenta, proprio di carattere teatrale, con tanto di schianti improvvisi che preparano l’atmosfera delle visioni di Mathis.

Ecco quindi il Molto vivace, col caratteristico ritmo incalzante dell’accompagnamento dei fiati al tema esposto dagli archi:


Poi le parti si invertono e sono gli ottoni a riesporre il tema, assai enfaticamente, fino ad una fermata improvvisa, su un accordo di tutta l’orchestra. Segue un inciso del flauto interrotto da altri due pesanti accordi, poi riprende la corsa, su un tempo ternario scandito dal metro trocaico dell’accompagnamento, mentre oboe e poi clarinetto espongono un tema ondeggiante; corsa interrotta ancora da due schianti, poi ripresa prima che si arrivi ad un diminuendo e ad una sezione lenta. Essa è caratterizzata inizialmente da un insistito DO sovracuto in tremolo dei primi violini, che poi espongono un motivo elegiaco, che si anima progressivamente, quindi si rilassa e infine muore nel DO# grave dei violoncelli.

Adesso subentra un’altra sezione Vivace, dal metro giambico, che sfocia in due poderose perorazioni di tutta l’orchestra, dopodiché sono le viole ad esporre un nuovo tema contrappuntato da striduli incisi dei legni. Lo riprendono i violini, e poco a poco sono gli ottoni a farsi largo con una progressione che si muove sulle quartine di semicrome degli archi e su lunghissimi tremoli dei legni. Il crescendo si spegne per lasciar spazio ad un fugato degli archi su cui entrano prima i clarinetti, poi i corni esponendo un nuovo tema solenne.

Che percorre anche la Coda, sempre in fugato, contrassegnata in partitura dal sottotitolo Lauda Sion Salvatorem, che riprende la sequenza latina (che nell’opera è cantata da Sant’Antonio nell’apparizione a Mathis):


Il fugato si spegne infine sull’Alleluia, che nell’opera è cantato da San Paolo e Sant’Antonio al termine della loro apparizione a Mathis, santi che troviamo rappresentati nel pannello sinistro interno di Isenheim:


Così invece in partitura:


Subito dopo, l’enfatica e magniloquente conclusione della Sinfonia, in un luminoso REb maggiore.
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Davvero impeccabili anche qui Xian e i ragazzi, accolti da convinti e meritati applausi. Speriamo che il successo di questo concerto riapra le porte… di teatri e auditorium a questo compositore che non merita l’oblio in cui sembra caduto.
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Chiusura in bellezza con Beethoven e la sua Quinta. Che Xian affronta alla garibaldina, diciamo alla Toscanini, con tempi serratissimi (che le consentono, a parità di durata complessiva, di proporci i ritornelli sia del primo che dell’ultimo movimento, smile!)

Se proprio devo trovare un pelo nell’uovo, anzi due, citerei l’eccessivo fracasso dei fiati nel secondo movimento, che ha un pochino sommerso i poveri archi. E la scelta di lasciare i contrabbassi all’estrema sinistra, come per Hindemith, lontanissimi dai violoncelli. Ma sono in fondo dettagli di scarsa importanza: ciò che conta è la fantastica compattezza mostrata dai ragazzi, davvero un pacchetto agguerritissimo. Trionfo assicurato.
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Sempre la cinesina protagonista la prossima settimana con Wagner, in qualità di autore e di estimatore di… Beethoven.