ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

07 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.37


Gaetano d’Espinosa, che dalla prossima stagione sarà Direttore Principale Ospite de laVerdi, si ripresenta sul podio con un bel programma che incastona un lavoro di Hindemith fra due opere di Mendelssohn. Sono due mondi solo apparentemente lontani, in realtà avvicinati dalla presenza di Weber, che in qualche modo ispirò il Mendelssohn del Sogno e che Hindemith fece direttamente oggetto della sua Metamorfosi.  

Ad aprire la serata l’Ouverture del Sogno: se si pensa che fu composta praticamente da un ragazzino, vien da dar ragione – magari solo nel caso specifico - a Schumann che parlava di Mendelssohn come di un nuovo Mozart! Tanto meravigliosa è la poesia e mirabile la struttura formale di questo autentico gioiello, certamente ispirato dall’Oberon di Weber prima che da Shakespeare, ma prodotto di un autentico talento naturale (le idiozie che Wagner scrisse su Mendelssohn nel suo Das Judenthum in der Musik trovarono la più palese e clamorosa smentita proprio da Wagner medesimo, che fece letteralmente razzìa di temi Mendelssohn-iani nel comporre i suoi capolavori).         

Se devo fare un piccolo appunto a D’Espinosa citerei la scarsa enfatizzazione dei famosi quattro accordi che aprono, intermezzano (?) e chiudono l’Ouverture: quelle corone puntate, secondo i miei gusti, meriterebbero più spazio di quanto non ne abbia loro riservato il Direttore, proprio per staccare più marcatamente con il parossismo dei violini che si slanciano sul tema delle fate. Per il resto, encomiabile direzione ed esecuzione.
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Paul Hindemith, che dopo svariati alti-e-bassi nei suoi rapporti con il nazionalsocialismo aveva finalmente deciso di emigrare (prima in Svizzera, con la moglie ebrea, e poi in USA, inizialmente da solo) compose la Symphonic Metamorphosis of Themes by Carl Maria von Weber for Orchestra (il titolo è più lungo della composizione, smile!) nel 1943 nella sua casa di New Haven (dove era titolare di una cattedra di Teoria della Musica a Yale) recuperando materiale che in origine era destinato ad un balletto di Léonide Massine, poi andato a monte.

Il titolo inglese (che è chiaramente al singolare, quindi la - non le – metamorfosi) fu espressamente voluto in omaggio al mondo che il compositore aveva abbracciato (almeno temporaneamente, in attesa che Hitler togliesse il disturbo) come una nuova Patria, tanto che Hindemith si arrabbiò assai quando il suo editore tedesco, ristampando la partitura per l’Europa nell’immediato dopoguerra, pensò bene male di tradurlo in tedesco…

I temi di Weber che Hindemith sottopone a metamorfosi non sono certo presi da Oberon, o Euryanthe, o dal Freischütz, ma da tre piccole composizioni per pianoforte a quattro mani (op. 60, del 1818 e op. 10 del 1809) e dall’ouverture delle musiche di scena per la Turandot di Schiller (1809). In origine pare che Hindemith intendesse comporre un’opera più estesa: fra i suoi appunti e schizzi sono stati trovati riferimenti ad altri 4 (o 5) brani (delle op. 3, 10 e 60) che evidentemente avevano attirato l’attenzione del compositore.

E non sono solamente i temi, ma praticamente i brani completi, che Hindemith non si limita ad orchestrare ma, appunto, a trasformare e reinterpretare a suo modo. Il risultato che ne consegue è una specie di breve sinfonia in quattro movimenti, per una durata totale di poco più di 20 minuti. Qui è l’autore stesso che la dirige con i Berliner, una dozzina d’anni dopo la composizione.

Il materiale weberiano di origine non è certo di prim’ordine: non è praticamente mai eseguito in concerto e per lo più è impiegato come esercizio per studenti. Ma Hindemith ne ha saputo cavare qualcosa di - quanto meno - interessante (non parliamo di capolavori, certo) a testimonianza della maturità che aveva ormai raggiunto e della capacità di padroneggiare le forme classiche verso le quali le sue attenzioni di studioso si erano rivolte. 
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Il primo brano (Allegro) viene dal quarto degli Otto Pezzi op. 60. I primi violini riprendono alla lettera la melodia originale, ma l’orchestra già ribolle di sonorità sgargianti, come testimoniano gli impertinenti interventi degli strumentini:


Il brano ricalca fedelmente l’intero pezzo di Weber, arricchendolo però di esuberanza e di humor.

Il secondo tempo (Scherzo, Moderato) è derivato dalla Turandot. Qui la storia assomiglia ad una catena di SantAntonio, così sintetizzabile: Hindemith prende a soggetto l’Ouverture di Weber, il quale per dare un sapore d’oriente al pezzo senza doversi immaginare o inventare la musica cinese, non aveva trovato di meglio che sfogliare il Dizionario musicale di Jean-Jacques Rousseau, dove aveva scovato una melodia cinese, che Rousseau aveva a sua volta scopiazzato (impercettibilmente modificandola) da un trattato sulla Cina di tale Jean-Baptiste Du Halde. Insomma, una genealogia che arriva, compreso lo sconosciuto e supposto originale cinese, alla quinta generazione! E ogni generazione ovviamente cambia qualcosa nel soggetto, in primo luogo la tonalità…

Mentre Weber aveva preso alla lettera la melodia di Rousseau, costruendoci sopra una (relativamente) breve ouverture attraverso ripetizioni variate del tema, Hindemith si permette anche qualche piccolo intervento sul soggetto weberiano, oltre ad abbassarne la tonalità di un grado.

Poi dilata ipertroficamente il brano, in pratica raddoppiandone la durata rispetto a Weber, ma sempre attraverso l’uso della variazione (o… metamorfosi?) o spostando il tema principale da una sezione all’altra dell’orchestra e contrappuntandolo con incisi o frammenti suonati dalle altre (trilli nei legni, veloci scale negli archi). In forma di passacaglia e con un procedimento abbastanza vicino a quello impiegato da Ravel nel suo Bolero, Hindemith ottiene un crescendo del volume del suono fino a raggiungere un climax, su un accordo tenuto dell’intera orchestra, al quale segue una specie di pausa di riflessione, rappresentata da un agitato recitativo dei primi violini.

E qui ecco l’esilarante sorpresa: arriva il jazz! Combinato con la fuga! Manco a dirlo sono i tromboni ad introdurre una versione fortemente sincopata del tema, che poi contagia l’intera sezione degli ottoni, cui in seguito dà il cambio quella dei legni, mentre percussioni e timpano dettano il ritmo proprio come in una band.

Il suono si dirada e sono i violoncelli a riprendere il tema principale, ma i fiati tornano a contrappuntarlo con stile jazzistico. C’è un siparietto di gloria anche per le percussioni (campane, triangolo, tomtom, gong, blocchi di legno) che vengono in primo piano e creano un curioso contrattempo, suonando sei battute in 4/4 mentre i timpani e i radi strumenti suonano una battuta in 3/4, due in 2/2, una in 3/4, una in 2/2 e una in 3/4… La chiusa è anch’essa sorprendente: un dolcissimo accordo di FA maggiore di legni, corni e archi bassi, impreziosito dal gong.

Il terzo brano è un Andantino, mutuato dal secondo dei Sei Pezzi op. 10:
Hindemith inizialmente espone alla lettera l’originale di Weber, ma poi ci mette parecchio di suo, ad esempio nella sezione corrispondente all’indicazione tranquillo.

Alla ripresa del tema principale, affidata al fagotto, il flauto occupa prepotentemente la scena, con un lungo recitativo di biscrome, che porta il brano alla conclusione.

L’ultimo tempo di questa specie di sinfonietta si rifà ancora all’op.60, precisamente al n°7, una Marcia. Notiamo un inciso che Hindemith sottolinea proprio come aveva fatto Mahler nel primo tema della sua Sesta:

E infatti non è difficile immaginare qualche sotterraneo legame che unisce circolarmente Hindemith, Mahler e Weber. Dunque: Mahler era ebreo (come la moglie di Hindemith) e come Hindemith aveva dovuto subire una qualche – più o meno blanda – angheria da parte degli ambienti legati all’antisemitismo; entrambi avevano trovato più o meno grande accoglienza in America, mentre la loro musica era bollata dal nazismo come degenerata; da parte sua, Mahler aveva avuto con Weber dei rapporti… post-mortem: quando aveva completato, dopo geniale decifrazione di schizzi e appunti, l’opera Die drei Pintos che Weber aveva lasciato allo stato di abbozzo. Non meraviglia quindi che Hindemith abbia in qualche modo voluto coinvolgere anche Mahler nel suo affaire con Weber!    
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Gagliarda l’esecuzione dei ragazzi, che D’Espinosa ringrazia alla fine quasi uno per uno… 

Chiude la bella serata l’Italiana. L’Orchestra la deve conoscere a memoria e D’Espinosa deve soltanto (ma questa non è una denigrazione, sia chiaro…) rinfrescargliela. Lui dà il suo sigillo personale con una clamorosa, quanto indebita, accelerazione nelle ultime cinque battute del finale, ma gli si può tranquillamente perdonare l’ardimento!

Per chi ama letture impegnative, ecco qui un corposo saggio su Mendelssohn del sommo Quirino Principe, comparso nel gennaio 1992 su Musica&Dossier.
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Chiusura di stagione… all’opera: Xian entra in Cavalleria


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