Domenica 14 marzo 1847 il Teatro della Pergola di Firenze ospitava
la prima di Macbeth. E quindi non
c’era miglior occasione che il bi-centenario verdiano per riproporre la versione originale dell’opera
proprio nel teatro che la vide venire alla luce.
Produzione dedicata assai
opportunamente alla memoria di un grande personaggio recentemente scomparso: Bruno Bartoletti.
Ieri pomeriggio è andata in scena la
penultima delle sei rappresentazioni, in un teatro quasi al completo, che alla
fine ha accolto la recita con gran calore; e anche con grande partecipazione
per la situazione a dir poco drammatica in cui si trova l’Istituzione teatrale
fiorentina, sintetizzata da uno striscione recato dalle maestranze del teatro,
che reclama di scongiurarne la chiusura:
Peraltro si direbbe che Graham Vick non nutra soverchie
illusioni, se già suggerisce verso quale professione alternativa avviare le
ragazze del coro:
(Lo so, può sembrare una freddura
fuori luogo, ma spero abbia almeno un effetto scaramantico…)
E visto che ho tirato in ballo Vick,
dirò che la sua proposta (coriste a parte, smile!)
non mi ha particolarmente colpito: niente di trascendentale, qualcosa di simile
(appena un pochino meglio, diciamo) a quanto propinatoci mesi fa alla Scala da
Giorgio
Barberio Corsetti.
Macbeth è un soggetto solo
apparentemente storico, in realtà è per Shakespeare (e per Verdi!) un pretesto
per trattare problemi universali e senza tempo: pulsioni dell’animo umano
(soprattutto debolezze…) come sete di potere, complessi di inferiorità o turbe
psichiche derivanti da malsani rapporti di coppia, e così via, freudianamente
elencando. Quindi si tratta di archètipi di problemi anche nostri,
perfettamente calabili nella realtà contemporanea.
In linea di principio quindi, nessuno
scandalo se Vick sposta l’ambientazione dal medioevo ai giorni nostri. Però il
problema del regista è quello di trovare degli scenari non solo compatibili con
quelli dell’originale, ma anche verosimili e plausibili proprio sul piano
dell’attualità: viceversa, tanto varrebbe attenersi pedestremente al libretto,
che se non altro garantisce (o dovrebbe farlo) il massimo livello di
consistenza.
Ma non basta: l’allestimento dovrebbe anche garantire coerenza con
la parte musicale, che in fin dei conti è quella che conta di più. Per chiarire il concetto, proprio
Vick, con il suo Mosè al ROF, aveva in pieno contraddetto quest’ultimo
principio, mostrandoci uno scenario plausibile (le vicende recenti della lotta
di Israele per la libertà, atrocità incluse) sulla colonna sonora rossiniana,
la quale non supportava minimamente quell’ambientazione.
Qui Vick compie l’errore speculare:
per fortuna non pretende di darci, a spese di Verdi, lezioni di storia o di
(in)civiltà. Ma lo scenario che ci presenta può solo far sorridere: ma come,
nel terzo millennio (o alla fine del secondo) vediamo bande armate di mercenari
e agenti segreti inglesi e scozzesi che si fronteggiano, armate di mitra e
kalashnikov, per supportare o scongiurare colpi di stato, in mezzo ad ogni
genere di atrocità e ad esodi di massa (!?) Ohibò, ce lo vedete il patriota Sean Connery a cantare Patria oppressa in mezzo a profughi
scozzesi bivaccanti nella stazioncina di Birna?
Purtroppo per Vick, la mediocre e
prosaica modernità degli ambienti finisce per togliere all’allestimento quell’aura
di mistero e di orrore garantita nell’originale dalle cupe muraglie e dai tetri
ambienti dei medievali castelli scozzesi. Oltre a creare ridicole incongruenze
con il testo; per dirne una: perché mai Macbeth deve ammazzare Duncano usando
un pugnale, quando potrebbe evitare di sporcarsi le mani di sangue, impiegando
comodamente una pistola con silenziatore? A proposito di pistole, all’annuncio
della morte della moglie, il nostro non trova di meglio che sparare a
bruciapelo alla di lei badante, sentenziando che tanto La vita!...
che importa!
(?!) Particolare curioso: la tuta qui indossata dal sovrano, ormai sulla soglia
della follia, reca un marchio inconfondibile:
Per concludere: un allestimento né
carne né pesce, che nulla aggiunge alla fama dell’estroso regista albionico.
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Sul fronte musicale c’è da registrare
– contrariamente alla cervellotica edizione scaligera di Gergev-Corsetti - il
rispetto totale della versione 1847. O meglio, quasi totale, dovendosi segnalare un paio di (peraltro non drammatiche)
eccezioni: la mancata ripetizione dell’aria Trionfai!
e l’apertura del coro dei profughi con le parole Patria oppressa e non Scozia
oppressa.
Sulla prima eccezione andrebbe
appurato se sia stata un’idea del concertatore o del soprano: vero è che Verdi
per primo espunse quest’aria nel 1865, evidentemente ritenendola indegna del
contesto, ma se si fa, tanto varrebbe farla come scritta. A supporto della
seconda eccezione: l’esistenza di spartiti ben anteriori al 1865 che già recano
Patria al posto di Scozia, segno che la variazione era
intervenuta assai prima di Parigi.
James
Conlon
ha diretto con grande sobrietà e sicurezza; mi sento però di imputargli una
generale tendenza ad allungare, o allargare, i tempi. Ottima la prestazione
della (ridotta) Orchestra del Maggio, con alcuni strumentisti (arpa e
grancassa, poi le trombe della battaglia) dislocati anche nei palchi di
proscenio.
Il coro di Lorenzo Fratini ha dato il meglio di sé, e gli facciamo tutti gli
auguri del caso per non far davvero la fine delle… streghe!
Su un livello dal discreto in su tutti
gli interpreti: Luca Salsi e Tatiana Serjan formano una coppia ben
assortita, oltre che essere singolarmente apprezzabili. Lui ha fatto emergere
tutti i risvolti della complessa personalità di Macbeth; a lei è forse mancato
un filino di cattiveria in più, però ha il merito di non aver usato i
suggerimenti dell’Autore (che voleva una Lady più parlante che cantante) come
pretesto per… cantar male!
Marco
Spotti
ha qualche difficoltà a farsi udire sulle note più gravi, ma è stato un Banco (o
Banquo) più che dignitoso.
Saimir
Pirgu
(Macduff) è stato bravo a porgere… la paterna
mano, ricevendo applausi a scena aperta, cosa avvenuta praticamente al termine
di ogni aria dell’opera.
Antonio
Corianò
(Malcolm) si è onestamente comportato nella sua parte non proprio banale. Così come onesta
e apprezzabile è stata la prestazione degli altri comprimari.
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Caro Maggio, che dire? Speriamo che te la cavi! (perché te lo meriti…)
2 commenti:
Carissimo, pur non lavorando più per il maggio io mi sento ancora facente parte e per questo ti ringrazio per l'attenzione e la delicatezza con cui hai esposto la tua recensione.
Un saluto!
@Marisa
non ci resta che scimmiottare Falstaff e concludere che "tutto nel mondo è burla"...
altrimenti facciamo la fine di Mac e Lady!
Ciao e tanti auguri!!!
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