XIV

da prevosto a leone
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12 maggio, 2024

È tornato alla Scala il DonPasquale di Livermore

Dopo un gradevole aperitivo beethoveniano con l’Orchestra Giovanile di Milano, eccomi all’affollatissima Scala dove, poco dopo il dittico verista, è andata in scena un’altra ripresa di una recente produzione (2018): il donizettiano DonPasquale ideato da Davide Livermore.

Rispetto al 2018 cambiano: il podio (Evelino Pido’ al posto di Chailly); il Maestro del Coro (Bruno Casoni > Alberto Malazzi) e due dei cinque interpreti: Norina (Rosa Feola > Andrea Carroll) ed Ernesto (Renè Barbera > Lawrence Brownlee). Rimangono impavidi al loro posto e ai loro ruoli il protagonista Ambrogio Maestri, il Dottor Malatesta Mattia Olivieri e il Notaro Andrea Porta.

Ricordo – purtroppo - di non essermi affatto entusiasmato sei anni orsono: uno Chailly piuttosto pesantuccio e un Livermore già allora abbastanza ripetitivo. Le premesse non erano quindi troppo allettanti, ma alla fine devo dire che nel complesso lo spettacolo non mi ha poi totalmente deluso. Certo, l’allestimento dell’ex-tenore piemontese non è che sia invecchiato bene, come un buon dolcetto d’Alba, ma insomma non si è neanche… ehm, maderizzato, ecco!

Parte del merito dell’ampia sufficienza che mi sento di garantire a questa ripresa va alla parte musicale, in particolare agli interpreti. Ambrogio Maestri è ovviamente una sicurezza ed è stato giustamente, e prevedibilmente, il mattatore della serata. Ma anche gli altri tre interpreti principali (più il comprimario Porta) hanno ben meritato: Andrea Carroll da Bethesda ha sfoggiato una vocina pungente e – per me, almeno – adatta al personaggio della Norina, una ragazza un po’ gattina morta e un po’ cinica femminista. Il rotondetto afroamericano Lawrence Brownlee è stato un Ernesto ingenuo e patetico come da copione, e lo ha rivestito dalla sua bella voce acuta e penetrante… rossiniana. Mattia Olivieri a sua volta ha riscosso ampi consensi per la sua prestazione solida e senza sbavature.

Bene anche il coro di Alberto Malazzi, pur nella limitatezza (solo terzo atto) del compito cui è chiamato. Quanto alla direzione/concertazione del navigato Pidò, gli rimprovero qualche eccesso bandistico, per il resto la definirei di onesta routine, ecco.

Tutto sommato, una ripresa che mi sento di giudicare dignitosa, ma non di più.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.

05 luglio, 2012

DonPasquale alla Scala… col SI bemolle


Ieri sera alla Scala (scandalosamente semivuota in platea e palchi) terza rappresentazione (col cosiddetto secondo cast) del DonPasquale di Gaetano Donizetti, in una produzione del Teatro Comunale di Firenze ripresa dall’Accademia della Scala.

Comincio con una piccola curiosità. La locandina del teatro esplicita che si tratta della Revisione, secondo la partitura autografa, di Piero Rattalino. Il quale ci ragguaglia – sul programma di sala – in merito a tanti piccoli particolari in cui l’originale autografo e le edizioni successivamente impiegate divergono. Uno di questi - il primo citato dal revisore - riguarda una nota del corno in DO, che a battuta 23 della Sinfonia risponde al violoncello che aveva esposto la prima sezione del tema (in FA maggiore) Com’è gentil (quello che Ernesto canterà a mo’ di serenata – in LA maggiore - nel terzo atto). La terza nota (che si ripete 4 battute più avanti) viene solitamente, e come da tradizione, eseguita come SI naturale (è la cosa che sembrerebbe più… naturale, appunto):

Rattalino ha invece scoperto sugli autografi che quello sarebbe un – abbastanza bizzarro, si direbbe a prima vista – SI bemolle. Ma in realtà è proprio il motivo cantato da Ernesto che lascia teoricamente aperte entrambe le possibilità, in quanto vi compaiono in successione le due diverse figurazioni:
Adesso, tutto questo stucchevole tormentone non avrebbe alcun senso se non vi dicessi come il corno accademico scaligero ha suonato quella nota; ebbene: proprio un SI bemolle, che magari qualcuno avrà scambiato per una stonatura (smile!)

A parte questo dettaglio (e altri su cui non val la pena soffermarsi) Rattalino riporta un’interessante considerazione riguardo la strumentazione dell’opera, che potrebbe essere, per così dire, male interpretata, con il risultato di appesantirne eccessivamente il tessuto musicale: fa l’esempio dei tre tromboni, che suonano quasi sempre le stesse linee, e che potrebbero ingrassare i suoni in modo eccessivo, dato che oggi si dispone degli strumenti a coulisse, assai più corposi di quelli a pistoni in uso ai tempi di Donizetti.

Non è un caso che gli stessi concetti esprima Riccardo Muti in questo video ripreso alle prove aperte del DonPasquale di Piacenza, nel 2006, ricordando gli ascendenti napoletani e mozartiani dell’opera. E dove il maeschtro non perde l’occasione (3:20 nel video) per confutare il luogo comune che attribuisce alla musica capacità descrittive

A me è parso che Enrique Mazzola abbia sostanzialmente seguito i dettami di Rattalino e Muti, cercando di evitare ogni appesantimento eccessivo del suono, sempre tenuto su livelli di accettabile trasparenza. Nella Sinfonia ha accentuato in modo forse esagerato alcuni salti di tempo (come il Più Allegro e il Più stretto ai numeri 5 e 6 della partitura) creando effetti magari interessanti, ma un pochino pacchiani. Comunque a lui e ai ragazzi strumentisti dell’Accademia va un doveroso plauso per l’ottimo livello dell’esecuzione. Una citazione particolare per William Castaldi, prima tromba, per come ha eseguito la lunga melodia (cantabile) che introduce il lamento di Ernesto all’inizio del second’atto. (Chissà perché a me ricorda sempre il Deguello di Dimitri Tiomkin, nel western Un dollaro d’onore…)   

E a proposito di reminiscenze, DonPasquale era un’opera praticamente fuori tempo già al suo apparire, in uno scenario musicale dove il comico era ormai scomparso e tutt’al più sopravviveva il genere semiserio. Eppure lo straordinario carico di novità che contiene ne ha garantito non solo il successo immediato, ma la presenza stabile nel repertorio di teatri, direttori e cantanti. E nell’opera si trovano spunti che altri hanno preso a modello: ad esempio, non è dato sapere con certezza se Wagner ebbe modo di ascoltarla, ma di certo l’atmosfera di Ah, un foco insolito, che il patetico DonPasquale canta nell’Introduzione, tutto eccitato dopo che Malatesta gli ha magnificato le doti della futura moglie, sembra ritrovarsi nell’esternazione del patetico Beckmesser (terzo atto dei Meistersinger) dopo che ha avuto da Sachs il permesso di impiegare il suo Lied per la tenzone canora.

Gli interpreti di ieri hanno fatto del loro meglio per mettere in risalto le caratteristiche (psico-)musicali dei diversi personaggi: il senescente incartapecorito, ma ringalluzzito Don, che Nicola Alaimo ha impersonato con bravura scenica e discreta prestazione vocale (sorvolerò su qualche sguaiatezza…); lo sbifido faccendiere Malatesta, che Filippo Polinelli ha ben proposto sul piano scenico, con qualche riserva invece su quello della voce, non sempre penetrante; il pavido Ernesto, cui Leonardo Cortellazzi ha prestato la sua voce piccola, ma ben impostata e gradevole; la birbantella intraprendente Norina, che Ludmilla Bauerfeldt (forse la migliore del gruppo) ha caratterizzato in modo assai efficace, proprio sul piano musicale; e il notaio, una particina musicalmente davvero esigua, ma che Mikeil Kiria – grazie al regista - ha interpretato con efficacia. Su un buon livello il coro di Alfonso Cajani.

E a proposito di regìa, direi che l’allestimento di Jonathan Miller – assolutamente tradizionale – è quanto mai gradevole e in sintonia con lo spirito dell’opera. La scena è immutabile e mostra la sezione della casa di DonPasquale, disposta su tre livelli (il più alto credo poco visibile dalla seconda galleria…) con le diverse stanze in cui si muovono i protagonisti.

Due gigantesche ante si aprono a inizio opera per mostrarcela e si richiudono nel terzo atto, a partire dalla scena nel boschetto. Al piano terra di norma si muovono tre domestiche, addette più che altro a faccende di cucina (tipo tirare la sfoglia col mattarello) che intrattengono ospiti in attesa di essere ricevuti in casa: dapprima Malatesta e poi il Notaio, che se la spassano mangiando e bevendo mentre al piano superiore il Don se la vede con Ernesto (atto I) e poi ci si prepara alla registrazione del finto matrimonio (atto II): sono siparietti simpatici, anche se proprio per questo rischiano di distrarre l’attenzione dello spettatore da ciò che accade di sopra…

La fissità della scena comporta che la casa del Don sia anche quella di… Norina. E non a caso perciò, all’apertura del sipario, vediamo il Don che sta per alzarsi da letto, al primo piano, mentre al secondo (toh!) Ernesto e Norina concludono evidentemente una simpatica notte, con la ragazza in pigiama che sale ulteriormente le scale, scomparendo alla vista, per poi ritornare a fine atto per la sua cavatina.

All’inizio dell’atto III abbiamo anche un inserto pubblicitario, allorquando il piano terra viene invaso da scatoloni rosa colmi di capi d’abbigliamento ordinati dalla vulcanica Norina, e recanti con grandi e ben leggibili scritte i marchi Versace, Prada, Gucci e Valentino: forse per invitare il pubblico popolare di una serata come questa a vestirsi come quello del 7 dicembre (smile!)

Tirando le somme, uno spettacolo godibile, che dai loggioni (unica parte abitata del teatro) è stato accolto con favore.