Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti
vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.
Per introdurre il mio telegrafico commento
allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo
Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 - inquadra l’opera nel contesto storico in cui
venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera
che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto
in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di
concertazione e raffinatezza di ambientazione.
Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in
questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici
e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da
volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.
Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio,
bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che
l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si
spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti
hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci.
Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola
che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo
l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni.
Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente.
E insieme a lui il coro, che nessun
fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.
Come detto, il terzo atto è stato
abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista
il complesso materno, che ci viene
esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio
decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è
decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al
cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per
ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.
Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è
quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui
assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo
sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di
più, ecco.
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