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21 agosto, 2023

ROF-44 live - Eduardo&Cristina

Il mio personale percorso a ritroso nella presenza alle tre opere del cartellone ha riservato l’ultimo posto (dulcis-in-fundo?, haha) al titolo principale di questa edizione del ROF: Eduardo&Cristina, già visto e udito – via etere/RAI - alla prima dell’11 e sul quale avevo anticipato qualche mia peregrina osservazione alla vigilia, e senza aver ancora potuto leggere il programma di sala. Il quale reca altre preziose e fondamentali considerazioni dei due curatori dell’edizione critica, Malnati e Tavilla.

Per affinità di… origini etniche (copyright Francesco Lollobrigida) segnalo subito il commento scritto a caldo dopo la prima dalla mia conterranea Roberta Pedrotti, della quale condivido ampiamente i giudizi del tutto positivi sul piano musicale; e, diciamo, ehm, politically correct, quelli meno entusiastici (o almeno dubitativi) sull’allestimento.  

Do quindi spazio in primo luogo alla messinscena, o meglio, all’idea di base di Stefano Poda, che pare farsi scudo dell’esempio rossiniano (dove una stessa musica può supportare indifferentemente il diavolo e l’acqua santa…) per proporci un approccio registico che si dovrebbe adattare – parole di Poda medesimo, riportate sul programma di sala - a questo Rossini così come a Tristan&Isolde, o a Romeo&Giulietta oppure anche ad Orfeo&Euridice(Osservo però che trattasi di drammi finiti in tragedia, a differenza del centone rossiniano, che chiude in gloria.)   

Tradotto in termini Pod-iani, in scena non va in onda il soggetto originale, ma una libera interpretazione delle mille materializzazioni del concetto amore-morte. Che artisticamente, secondo il regista, si traducono in immagini di corpi umani mostrati (staticamente/sculturalmente o dinamicamente/carnalmente) nelle più diverse posture associabili a pulsioni erotico-spirituali dell’insieme anima-corpo di ogni essere umano.

La componente freddamente materiale di ciò è il fondo-scena occupato da un gigantesco bassorilievo in cui appare un’accozzaglia di sezioni di corpi umani (teste, petti, cosce e glutei alla rinfusa, tipo deposito di macelleria) e dalle quinte laterali costituite da enormi scaffali occupati da manichini di gesso raffiguranti corpi ignudi. Quella dotata di anima e corpo è invece rappresentata da mimi (quasi sempre completamente nudi, salvo minuscoli cache-sexe) che si muovono ieraticamente sul palcoscenico ad esternare (per noi poveri pirla che non saremmo in grado di raffigurarcele) le segrete pulsioni che animano la psiche dei personaggi del dramma.

Naturalmente Poda ci notifica quando in scena arrivano personaggi del soggetto reale (i protagonisti e i componenti dei cori) che, per ragioni forse anche di… ehm… indisponibilità alla nudità in pubblico, sono ricoperti di costumi che ne identificano lo status e la fazione.

Insomma, un’idea come tante altre che serve al regista per scaricarsi della responsabilità di mostrarci qualcosa che abbia una sia pur minima attinenza con il soggetto dell’opera. Evabbè, uno potrebbe obiettare che per questo ci sono già le esecuzioni in forma di concerto, senza scomodare (con relativi costi) scenografi, coreografi, costumisti, addetti alle luci (tutti qui distillati, e retribuiti, nel solo… Poda!) e figuranti assortiti e per di più correndo il rischio che lo spettatore, tutto preso a decifrare quegli alati simboli, finisca o per annoiarsi o per perdersi anche quanto di buono c’è nella musica…

Ma, si sa, ai festival tutto è concesso, dalle più grandi trasgressioni alle più comode e ammiccanti paraculate, e qui abbiamo un esempio cumulato dei due approcci (!?)
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Confermata invece l’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico. 

Daniela Barcellona è tornata qui con una prestazione di grande classe, che il pubblico (anche ieri parecchi vuoti in sala…) ha accolto trionfalmente. Forse la voce non ha più la penetrazione di un tempo, ma la nobiltà dell’emissione, il portamento e la sensibilità interpretativa sono sempre da incorniciare.

Anastasia Bartoli non è stata da meno, confermando l’ottima impressione suscitata alla prima. La voce è adamantina, senza sbavature o vetrosità, gli acuti sempre squillanti e gli abbellimenti virtuosistici e le colorature impeccabili. Le due hanno poi strappato applausi a scena aperta nei duetti e nei concertati.

Enea Scala dal vivo mi è parso meno efficace rispetto alla ripresa tecnologica: la voce non sempre passa adeguatamente, gli acuti a volte sono staccati con fatica e gli abbellimenti non proprio impeccabili. Comunque ha ricevuto un interminabile applauso dopo la sua grande aria del primo atto.

Matteo Roma si è pure ben comportato in tutti i suoi interventi, e in particolare nella sua aria (che nell’edizione critica viene escluso sia di Pavesi, ma sospettato possa essere proprio di Rossini…) meritandosi calorosi applausi. Così come Grigory Shkarupa, voce davvero imponente, come la presenza scenica. Applaudi a scena aperta anche per lui dopo l’aria di Pavesi del second’atto.

Applausi e ovazioni anche per il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che ha una corposa presenza in quest’opera, nobilitata da una prestazione di alto livello, sia nel complesso, che nelle due sezioni chiamate a sostenere le scene più drammatiche.

Di Jader Bignamini non posso che ripetere tutto il bene possibile. Lui è arrivato più tardi di altri alla ribalta della Direzione, dopo lunga gavetta in orchestra (clarinetto in MIb a laVerdi) ma ormai è lanciatissimo sulla scena internazionale: da Detroit (dove è di casa) al resto del mondo. Anche per lui grande successo, insieme a qfello della prestigiosa OSN-RAI, inclusi i due continuisti Giulio Zappa e Jacopo Muratori (fortepiano e cello).

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Ecco, chiudo così i miei commenti sul cartellone principale di questo ROF. Che però deve ancora terminare: a parte le due ultime recite, ci sarà il gran finale della Petite Messe Solennelle, che ho deciso di seguire da… (non troppo) lontano. 

12 agosto, 2023

Apertura del ROF-44 via radio(-TV)

Partito ieri il clou del 44° Rossini Opera Festival con la prima assoluta (a Pesaro) di Eduardo&Cristina nella nuova (ancora da pubblicare) edizione critica della Fondazione. Lo spettacolo inaugurale è stato trasmesso in diretta da Radio3 e in differita di 75 minuti da RAI5.

L’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico (spero verrà confermata dal vivo…) è decisamente positiva, grazie alla direzione dell’ormai navigatissimo Jader Bignamini, coadiuvato al meglio dalla prestigiosa OSN-RAI e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, da anni compagini stabili del ROF.

Ottima nel suo complesso la compagnia di canto: Daniela Barcellona, davvero una veterana del ROF (vi debuttò nell’ormai lontano 1996!) ha messo tutta la sua esperienza, oltre che la voce sempre solida, al servizio di Eduardo.

Al suo livello Enea Scala (anche lui da quasi tre lustri ospite a Pesaro) che ha ben meritato come Re Carlo: voce sempre ben impostata e squillante e acuti sicuri.

Una piacevole sorpresa (per chi non la conosceva) è venuta da Anastasia Bartoli (figlia d’arte, di mamma Cecilia Gasdia, soprano di valore prima di assumere incarichi… gestionali all’ArenaVR) debuttante al ROF. Voce dal timbro caldo e corposo, in tutta l’estensione, è stata una Cristina quasi perfetta, anche sotto l'aspetto attoriale.

Bene Matteo Roma (dal 2019 ospite al Festival) come Atlei, per il quale l’edizione critica ha scovato un’aria (Da nume sì benefico i miseri mortali) per la scena 5 del primo atto.

Altrettanto dicasi per Grigory Shkarupa (34enne di SanPietroburgo, esordiente al ROF in un cartellone principale) che ha prestato a Giacomo una voce ben tornita e profonda.


Per tutti ampi consensi, a scena aperta e alle uscite finali. 
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Lo spettacolo di Stefano Poda? Aspetto di ragionarci sopra un po’… e poi di vederlo dal vivo prima di esprimere un giudizio più equilibrato. Così d’acchito dovrei coinvolgere uno psichiatra con specializzazione in ossessioni sessuali e disturbi dell’io profondo (!?!)  


08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

20 ottobre, 2014

Bignamini sfida la Forza a Parma

 

Il Festival Verdi 2014 si è aperto con l’opera più sfigante (stra-smile!) del cigno di Busseto. Il malcapitato di turno è però Jader Bignamini, una specie di Siegfried – ignorante di tutte le maledizioni che incombono sull’opera – che affronta il drago con la massima disinvoltura e finalmente ne viene a capo vittorioso! Così è stato anche ieri pomeriggio, in un Regio affollato anche se non proprio esaurito, alla terza, o meglio, alla 2,5… stante il degrado della seconda, causa renzite acuta (smile!)
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Il libretto dell’opera è uno fra i più inverosimili mai prodotti e il povero Piave, che doveva essere proprio messo male, ne ha parecchia colpa (insieme allo stesso Verdi, va detto) avendo riciclato in peggio il soggetto – già di per sé ai confini della realtà - dovuto a tale Ángel de Saavedra, aggiungendogli una spruzzatina di Schiller (tanto per gradire): eccone qui una sinossi fin troppo seria (!)

Per carità, il cosiddetto destino fa parte della vita quotidiana, non solo dei melodrammi, e non di rado si materializza in modo crudele. Tanto per restare a Verdi, anche in Rigoletto c’è parecchia forza del destino, con la maledizione di Monterone che alla fine si abbatte sul povero giullare attraverso lo scambio di… insaccati operato da Sparafucile&soreta; e nel Trovatore è sempre la forza del destino a portare il Conte a perseguitare un rivale fino a giustiziarlo per poi scoprire a frittata cotta che si trattava di suo fratello; e che dire del Ballo, dove l’innocente Riccardo viene risucchiato dal vortice della forza del destino preconizzatogli da una maga da strapazzo! Non parliamo poi di casi di travestimenti o di ritrovamenti incredibili, che si ripetono spesso, come in Boccanegra; o di fatti insignificanti e maledette coincidenze che provocano drammi immani, come in Otello.

Però a tutto c’è un limite, perbacco! Nel testo della Forza di Piave-Verdi (persino più che in quello di Saavedra) c’è un tale cumulo di situazioni gratuite e del tutto in-plausibili da rasentare (e pure superare) il grottesco: e chissà che Verdi, proprio rendendosi conto di queste deficienze di un soggetto di cui peraltro si era innamorato, non abbia deciso di seguire il clichè del Ballo, infilandoci almeno un paio di siparietti da avanspettacolo (del tutto assenti nel serioso dramma spagnolo) dei quali il finale del terz’atto - mutuato da Schiller - è solo la punta più evidente. In effetti: È seria la vita, allegra è l’arte. Con queste parole di Schiller si chiude il Prologo al dramma da cui Verdi trasse il suo finale terzo!
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Con il dramma Don Alvaro o la fuerza del sino, che era di produzione abbastanza recente (ai tempi di Verdi) Saavedra volle mostrarci che contro il destino (o la sfiga, per meglio dire) non c’è partita: la vince sempre lui/lei. Se uno nasce sfigato, non avrà scampo, nemmeno se fugge in capo al mondo o si isola in un eremo. E poi il destino, quando si accanisce, colpisce tutti e nessuno risparmia: colpevoli, innocenti, vittime e carnefici; e trasforma gli esseri umani in strumenti infernali: Yo soy un enviado del infierno, soy el demonio exterminador… è l’ultima esternazione di Alvaro, prima di gettarsi nel vuoto!

Il dramma di Saavedra si struttura in 5 giornate, che molto alla lontana corrispondono ai 4 atti di Piave, che concentra nel terzo le giornate 3 e 4 dello spagnolo. 

La prima giornata, di 8 scene, si apre con 4 di queste (ignorate nel libretto dell’opera) che costituiscono un’introduzione a ciò che Piave-Verdi ci presentano all’inizio. Scopriamo così, da chiacchiere di strada nel quartiere Triana di Siviglia (nei pressi del ponte di barche sul Guadalquivir) che Alvaro è uno straniero arrivato da poco dalle Indie (America latina) e pare sia figlio di una principessa Inca; constatiamo che è stimato da tutti (i popolani, quanto meno) e che è già diventato il miglior torero (!) di Spagna. Sul fronte Leonora: intanto scopriamo che ha due (!) fratelli (Carlo e Alfonso) e poi veniamo a sapere che la sua infatuazione per Alvaro è ormai di dominio pubblico, tanto che il padre (il Marchese di Calatrava) contrario a quell’unione, ha deciso di trasferirla nella tenuta di campagna di Aljarafe, una trentina di Km a ovest della città; dove però Alvaro è stato visto recarsi nottetempo più di una volta e infatti lo si vede in diretta, di sera, mentre si avvia sul ponte che porta in quella direzione; al che un canonico lì presente si affretta ad andare ad avvertire il Marchese (ohibò!) In queste prime scene compare (e scompare immediatamente per non vedersi mai più!) una gitana che canta e suona la chitarra, tale Preziosilla, la quale un giorno ha letto la mano di Alvaro, trovandoci cattivi presagi. Gli stessi che sua madre ha scoperto sulla mano di Leonora (!)

Le 4 successive scene corrispondono più o meno al primo atto del libretto di Piave, salvo un accenno che il Marchese fa ai due fratelli di Leonora (Carlo, militare a Barcellona e Alfonso, studente a Salamanca). Abbiamo quindi la buona notte, il colloquio Leonora-Curra e i preparativi per la fuga, l’arrivo ritardato di Alvaro, le indecisioni della donna, l’irruzione del Marchese, il colpo accidentale di pistola che lo fa secco e la fuga dei due giovani.

La seconda giornata, sempre di 8 scene, corrisponde genericamente al second’atto del libretto di Piave. Nelle prime due scene ci troviamo in una locanda ad Hornachuelos (100Km a nord-est di Siviglia, 50Km a ovest di Cordova, ai piedi della Sierra morena). Uno studente (per Piave-Verdi sarà Carlo travestito, ma qui il testo non lo dice, quindi dobbiamo pensare che sia proprio un compagno di Università di… Alfonso) suona la seguidilla con la chitarra e fa ballare tre coppie (di Preziosilla, come detto, non c’è qui traccia). Poi mostra interesse alquanto sospetto per un avventore arrivato con Trabuco (il mulattiere-rigattiere) e subito ritiratosi in camera, senza mangiare. Quindi declina all’Alcalde le proprie (autentiche?) generalità e il suo ruolo di investigatore privato al servizio di Alfonso di Vargas, con tanto di visite a Cordova (dove scopriremo era ospitata Leonora) e Cadice, dove apprenderanno della morte di Leonora e dove il protettore dello studente, lasciato il fratello a far ricerche di Alvaro in Spagna, si è imbarcato per inseguire l’assassino del padre nelle Indie. L’Alcalde impedisce però allo studente di intrufolarsi nella stanza dell’ospite misterioso… La locandiera, che aveva irriso lo studente per la sua storia inverosimile, scopre poi che la signora (! Leonora?) se n’è già andata via. Come si vede, il testo di Saavedra dice-e-non-dice, ci lascia quindi una notevole suspense sui fatti che stiamo osservando. È quindi un po’ come un libro giallo, dove anche i particolari si spiegano solo in un secondo tempo. Non così in Piave, che ci mostra chiaramente, un paio di volte, Leonora travestita.  

Le sei scene successive hanno come teatro il Convento degli Angeli e corrispondono (con qualche dettaglio in più) alla parte finale del second’atto del libretto di Piave: Leonora arriva al Convento, producendosi nel suo drammatico monologo (e solo qui abbiamo la certezza che l’avventore misterioso nella locanda era lei, e che aveva origliato i discorsi di Carlo, il che spiega anche la sua precipitosa fuga e il suo rancore verso Alvaro, che l’avrebbe abbandonata per fuggire in America; poi è ricevuta da Melitone, quindi si rivela (grazie anche alla missiva di Padre Cleto di Cordova) al Padre Guardiano e lo implora di ospitarla nell’eremo. In alternativa, Padre Guardiano qui suggerisce alla donna, oltre all’opzione-monastero (ripresa da Piave-Verdi) anche la possibilità di tornare dalla zia di Cordova (nominata evidentemente da Cleto) presso la quale Leonora ha vissuto per un anno. La giornata si chiude con l’assenso di Padre Guardiano a condurre Leonora all’eremo e alla descrizione delle condizioni di totale isolamento che le verranno colà garantite. I due entrano – sempre da soli, si noti bene – in Chiesa.

La terza giornata (di 9 scene) ci porta a Velletri, dove infuria la battaglia fra spagnoli e tedeschi (in realtà: austriaci). Questa giornata corrisponde alle prime due scene del terzo atto in Piave-Verdi, che l’hanno ripresa abbastanza fedelmente, eliminando particolari di scarso interesse. Ci troviamo (scene 1 e 2) la partita a carte di ufficiali spagnoli, cui si aggiunge Carlo che si ritiene imbrogliato al gioco. Nella scena 3 abbiamo il grande monologo di Alvaro, che ricorda le sue origini e i genitori incarcerati a Lima: sapremo dal racconto di Alfonso alla fine che suo padre era il Vicerè che cercò di usurpare il trono, sposando la Principessa Inca. Poi (nella 4) abbiamo il suo intervento a salvare Carlo dalla furia degli ufficiali e la proclamazione dell’indissolubile amicizia fra i due (che ancora non conoscono le rispettive identità). Quindi (scene 5 e 6) abbiamo la descrizione della battaglia fra spagnoli e tedeschi con il ferimento di Alvaro e ancora (scena 7) il ricovero di Alvaro e la sua richiesta a Carlo di conservare e poi distruggere, alla sua morte, ritenuta imminente, le sue carte segrete. La scena 8 vede Carlo aprire il baule di Alvaro e scoprirvi il ritratto di Leonora, quindi riconoscere il seduttore della sorella e assassino di suo padre, sospettare che la donna sia da qualche parte in Italia, e giurare vendetta, ripromettendosi di uccidere entrambi. Cosa resa possibile dalla notizia (scena 9) che Alvaro è ormai completamente fuori pericolo.  

La successiva quarta giornata (di 8 scene) corrisponde alle scene 3-9 del terzo atto (1869) in Piave-Verdi, che però qui si prenderanno parecchie libertà. Si apre con il drammatico confronto fra Carlo e Alvaro: il secondo che crede morta Leonora ma viene smentito dal primo, che l’ha saputa con una zia a Cordova (e però deve constatare che Leonora non è In Italia con l’amante); confronto che culmina con la richiesta di Carlo - cui Alvaro cerca invano di opporsi - di battersi a duello, al quale i due si preparano. Qui Piave-Verdi abbandonano i due e introducono le scene mutuate da Schiller, ignorando del tutto ciò che avviene in seguito (scene 2-8). La scena 2 ci mostra la piazza di Velletri, dove ufficiali spagnoli commentano l’andamento della guerra e le decisioni di Re Carlos (pena di morte per chi si batte a duello); improvvisamente compare Alvaro, disarmato, arrestato e portato in caserma per aver ucciso Carlo proprio in duello! Nelle scene 3 e 4 assistiamo ad un colloquio a quattr’occhi fra Alvaro e il capitano, che gli conferma la più alta stima e gli annuncia che i suoi ufficiali chiederanno al Re la grazia per lui. Ma Alvaro si dichiara omicida e (scena 5) esterna tutta la sua amarezza e il suo dolore: Leonora vive e lui sta per morire come un volgare assassino, avendo tradito oltretutto i propri genitori, che giacciono in un carcere di Lima. Nella successiva scena 6 torna il capitano che informa Alvaro dei tentativi (inutili) fatti dai generali di convincere Re Carlos a graziarlo: Alvaro attende la morte, che considera meritata. Ma ora succede l’imprevisto (scena 7): i tedeschi sono dentro Velletri e si deve immediatamente intervenire per contrastarli. Il capitano lascia libero Alvaro, che (scena 8) impugna la spada e si avvia a combattere: se non troverà morte in battaglia, allora promette a Dio di abbandonare il mondo e ritirarsi in un deserto. Quest’ultimo è un particolare non trascurabile: sapremo da Padre guardiano che Rafael (Alvaro) non arrivò spontaneamente al convento, ma vi fu portato, gravemente ferito, dal padre elemosiniere; solo dopo le cure e la guarigione trovò la sua vocazione religiosa! 

Eccoci ora alla quinta giornata (di 11 scene). Qui la trama è macroscopicamente quella che verrà ripresa da Piave-Verdi nell’atto conclusivo, ma con differenze non proprio marginali. Le prime due scene ci mostrano Melitone alle prese con la distribuzione del rancio ai mendicanti-petulanti e poi a colloquio con Padre Guardiano a proposito di Padre Rafael, che scopriremo essere Alvaro sotto mentite spoglie: è qui che Padre guardiano precisa che Rafael è lì da circa 4 anni, da quando l’elemosiniere lo trovò lungo la strada per Siviglia, ferito probabilmente da qualche brigante. Nella terza scena arriva al convento Alfonso (evidentemente reduce dalle Indie…) in cerca di quel Padre Rafael che lui sospetta essere l’assassino di suo padre. Convince il recalcitrante Melitone a condurlo alla cella di Rafael. Melitone (scena 4) lo annuncia ad Alvaro-Rafael, che si chiede (scena 5) chi possa cercarlo fin lì: qualcuno che gli porta notizie da Lima? 

Nella scena 6 assistiamo al drammatico scontro fra Alvaro e Alfonso, che viene subito al dunque, smascherando il frate e mostrandogli il volto. Alvaro rimane sconvolto, mentre Alfonso gli dice di averlo inseguito per 5 anni fino in capo al mondo e di aver portato con sé due spade, per il duello nel quale dovranno battersi. Alvaro cerca in tutti i modi di mantenersi calmo e di non reagire alle continue provocazioni di Alfonso, che lo offende nei suoi più intimi sentimenti; poi, di fronte all’ennesimo affronto, si decide al duello. Nella scena 7 Alvaro e Alfonso si fanno aprire la porta del convento da Melitone, e si avviano di corsa verso la foresta, proprio in direzione dell’eremo occupato da Leonora. Melitone (scena 8) cerca invano di avvertirli della scomunica che pende su chi viola quel luogo, poi decide di avvertire il prelato, mentre si prospetta una notte tempestosa.

La scena 9 è ambientata nei pressi della caverna di Leonora, dove i due si preparano al duello. Alvaro vuole comunicare un segreto ad Alfonso, ma questi lo gela, rispondendogli che quel segreto lui lo conosce già, anzi… È reduce da Lima, dove ha scoperto tutto sulle origini di Alvaro, ed ora gliele spiattella crudelmente, insieme a notizie che Alvaro ignora e che ne aggraveranno i sensi di colpa. Dunque: il padre di Alvaro era il Vicerè delle Indie spagnole, poi sposò l’ultima ereditiera degli Inca e cercò di usurpare il trono, ma venne scoperto; si rifugiò in montagna, fra gli indios, dove fu arrestato. Ma il Re Felipe lo graziò, mutando la pena di morte in ergastolo; e in una prigione di Lima venne alla luce Alvaro, che poi crebbe fra gli indios e meditò la sua vendetta, ma tutto quel che fece fu di venire in Spagna, ammazzare un padre dopo averne sedotto la figlia. Ma la notizia che si immerge come una lama nel cuore di Alvaro arriva adesso: il Re, grazie all’intercessione di suo zio, ha liberato i suoi genitori, che ora sono alla sua ricerca! Alvaro per un attimo si illude che tutto si possa aggiustare, e implora Alfonso di accettare una generale riconciliazione, in nome del suo amore per Leonora. Ma Alfonso pensa solo a vendicarsi di lui; offende ancora il sangue di Alvaro e così lo scontro è inevitabile: Alfonso cade ferito e implora la confessione. Alvaro, nonostante il divieto, si slancia alla porta dell’eremo e chiede aiuto. Leonora, dopo alcuni rifiuti, esce suonando la campanella per avvertire il convento.

Qui arriva la scena-madre (10). Leonora esce e ode le voci conosciute di due uomini egualmente sorpresi di vederla in quel posto: Alvaro, che pensa che lei lo abbia seguito fin lì per amore; e Alfonso, convinto invece che la tresca fra la sorella e Alvaro fosse continuata persino in quel luogo sacro! Così Alfonso morente pugnala Leonora, sotto gli occhi attoniti di Alvaro.

Nell’ultima scena si compie definitivamente il destino: di fronte al Padre guardiano e ai frati, inorriditi alla vista di tanto sangue, Alvaro si auto-accusa di essere un emissario dell’inferno, un demonio sterminatore. E con ciò si butta dalla rupe più alta, fra la generale costernazione. 
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Beh, bisogna ammettere che il dramma di Saavedra ha una sua bella consistenza, e che tutte le fasi della sua evoluzione sono perfettamente disposte, così come sono curati al massimo i dettagli ed evitate evidenti incongruenze. Certo, ci sono casualità un po’ troppo gratuite, come il fatto che Leonora e Alvaro si ritrovino, convivendovi per 4 anni ma ignorando l’uno la presenza dell’altra, proprio in uno stesso convento sperduto sui monti fra Siviglia e Cordova, quando la Spagna di conventi ne conta più che di tori. (Ma vedremo che in Piave-Verdi la combinazione sarà ancor più smaccata…) Oppure che Carlo venga salvato proprio da Alvaro e poi viceversa! O che gli austriaci attacchino Velletri 5 minuti dopo l’arresto di Alvaro. Anche la contemporanea presenza di Leonora e dello studente nello stesso giorno nella stessa locanda è piuttosto incredibile (anche qui, peggio sarà in Piave-Verdi, dove lo studente è… Carlo!)

Ma sicuramente la debolezza di fondo nell’assunto di Saavedra - la tesi dell’ineluttabilità, e quindi della forza, del destino – consiste precisamente nella casualità dell’evento-scatenante dell’intero dramma, che degrada il nobile concetto di destino a quello prosaico di sfiga: l’accidentalità della morte di Calatravas, ben diversa - per dire - da quella del Commendatore, deliberatamente voluta da DonJuan. Abbiamo quindi un dramma dai contorni sesquipedali e dalle profonde implicazioni psicologiche ed esistenziali che poggia sullo stuzzicadenti di un evento disgraziato. Il quale poi produce in modo quasi deterministico gli altri tre casi di omicidio di membri della famiglia Vargas: due per mano di Alvaro, ma anch’essi senza alcuna premeditazione, anzi in risposta alle vigliacche provocazioni dei due fratelli (legittima difesa, si potrebbe sostenere…); l’altra ad opera di uno dei medesimi fratelli, tratto però in inganno dalle apparenze (le incredibili presenze contemporanee di Leonora e Alvaro al convento).

Poco giustificabile è perciò il tremendo senso di colpa che porta Alvaro ad auto-dipingersi come un demonio (nemmeno fosse Jago!) e a suicidarsi a sua volta. Non è un caso che proprio Verdi, già dopo la prima di Pietroburgo, abbia meditato sulla gratuità di tutte quelle morti ed abbia successivamente deciso di risparmiare almeno il quasi-incolpevole protagonista, garantendogli il perdono divino grazie all’intercessione dell’altra vittima innocente di quell’assurda catena di fatalità.

Prima di passare a Piave-Verdi va ricordato come anche Saavedra (in ottemperanza al postulato di Lavoisier che recita: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma) abbia tratto ispirazione da altri, primo fra tutti Molière e il suo DomJuan. Si è già detto dell’analogia – premeditazione a parte - fra l’uccisione di Calatrava e quella del Commendatore (della quale pure il Dom verrà assolto!) Ma poi vi troviamo, guarda caso, un Carlos e un Alonso (fratelli di Elvira) che vorrebbero vendicare l’onore della sorella ammazzando il libertino che l’ha disonorata. Ma, ancora guarda un po’ il… destino, Carlos è stato salvato proprio dal Dom, che gli ha evitato sicura morte per mano di tre banditi. Così quando Alonso arriva, riconosce il Dom e lo vorrebbe far secco, ecco che Carlos lo convince a rimandare la cosa, per gratitudine verso il suo salvatore! Prima ancora di Molière, troviamo una significativa radice del dramma di Saavedra in Tirso de Molina: nel cui Burlador, il padre ammazzato dal libertino è il comandante di Calatrava! (A proposito di trasformazioni.)

Ma eccoci ora alla premiata coppia Piave-Verdi. Come si deduce dal confronto fra il testo originale e il libretto dell’opera, i nostri intervennero sul soggetto di Saavedra sia per sottrazione che per aggiuntaE vediamo come entrambe le operazioni abbiano avuto i loro bei pro e contro, tenendo anche conto delle due (principali) versioni dell’opera: 1862 e 1869.

Sotto il primo aspetto i nostri si posero il naturale e lodevole obiettivo di rendere più concisa e meno dispersiva la trama originale. Una delle principali semplificazioni fu quella di… ammazzare Alfonso nella culla (!) e lasciare al Marchese di Calatrava un solo figlio maschio, Carlo, che va invano in cerca di Leonora e quindi segue, prima a Velletri e poi di nuovo in Spagna, Alvaro in tutti i suoi spostamenti. Qui però c’è il rischio di cadere in enormi contraddizioni, chè nella locanda di Hornachuelos (Atto II) lo studente (che per Piave-Verdi è Carlo travestito) afferma di aver visto il Vargas (cioè… Carlo per Piave-Verdi) imbarcarsi per le Americhe! Attenzione perché questo particolare è di grande importanza, in quanto (udito da Leonora) ingenera nella donna l’idea del tradimento dell’innamorato: quindi Piave-Verdi non potevano ignorarlo. Peccato però che così abbiano infranto il principio di non-ubiquità, chè Carlo non può trovarsi contemporaneamente in viaggio per le Americhe e a Hornachuelos prima e Velletri poi! L’alternativa sarebbe che il Carlo della locanda stia raccontando un sacco di fregnacce inventate lì per lì (come infatti Preziosilla sospetta): cosa francamente poco degna di un libretto di Verdi. Fra l’altro (parlando come lo studente di Saavedra) Carlo afferma di credere Leonora morta la notte della fuga, mentre a Velletri dirà ad Alvaro che Leonora vive… Ora ci si spiega anche perché nel finale Piave-Verdi taglino completamente il racconto di Alfonso della sua visita a Lima, con la rivelazione della libertà ridata ai genitori di Alvaro.

Altro problema causato dalla soppressione di Alfonso: è ovvio e pacifico che Carlo non possa morire in duello con Alvaro in quel di Velletri, altrimenti… buonanottealsecchio! Ma dato che tutto l’atto di Velletri deve restare in piedi, con quel che segue, che si fa? Qui le due versioni dell’opera divergono; nella prima il duello avviene, Alvaro ferisce Carlo e crede di averlo ucciso… ma si sbaglia (ma guarda che destino!) Nella seconda si trova una scusa (anche questa invero ridicola, ammettiamolo) per scongiurare il duello in modo da tenerlo in canna per il gran finale al convento. In entrambe si taglia anche tutto il seguito di avvenimenti italiani come narrati da Saavedra. Vedremo tra poco come il taglio verrà ricucito, grazie a… Schiller, ma intanto non possiamo non osservare l’inconsistenza (1869) dell’esternazione (Or che mi resta?) di un Alvaro improvvisamente colpito da crisi mistica: che caso mai avrebbe avuto un senso proprio dopo l’uccisione di Carlo, ma così? Nulla di irreparabile è (ancora) accaduto da giustificare una simile rinuncia al mondo. Abbiamo anche visto come in Saavedra Alvaro maturi la sua vocazione dopo essere stato ricoverato e guarito in convento, non prima!

Nell’atto conclusivo Piave trascura un particolare (di poco conto, per carità, oltre che ininfluente) attribuendo a Carlo un’affermazione (Da un lustro ne vo’ in traccia) che Saavedra mette (plausibilmente) in bocca ad Alfonso: esser passati 5 anni da quando il fratello di Leonora si è messo alla ricerca di Alvaro. Però questo è plausibile per Alfonso, che dall’indomani della morte del padre si era messo sulle tracce di Alvaro, andando fino in Perù, dove aveva raccolto le ultime notizie sui suoi genitori, ora liberi (circostanza ignorata da Piave, come abbiamo visto). Potrebbe essere vagamente plausibile anche nella versione 1862 (Carlo gravemente ferito deve aver il tempo di rimettersi in sesto e così nel frattempo ha perso di vista Alvaro). Ma nella versione 1869 Carlo è rimasto – dopo il mancato duello - vivo e vegeto a poca distanza da Alvaro, il che rende inverosimile che abbia poi impiegato 5 anni (guarda caso, il tempo abbondante per un’andata-e-ritorno a Lima!) per tornare sulle sue tracce. 

Un’altra (piccola?) forzatura nel libretto di Piave riguarda la frase pronunciata – sempre nell’atto finale - da Carlo (ad Alvaro): Una suora mi lasciasti che tradita abbandonasti all’infamia, al disonor. Nell’originale di Saavedra Alfonso non la pronuncia, limitandosi ad accusare Alvaro di seduzione. Lui, come aveva ricordato lo studente, era convinto che Leonora fosse morta la notte stessa dell’uccisione del padre. E fra seduzione e seduzione+tradimento+abbandono c’è una certa differenza.

A proposito del finale, sappiamo che fu da Ghislanzoni-Verdi riscritto in vista della rappresentazione alla Scala (1869). Alvaro, già omicida (seppur involontario) del padre, uccide anche l’unico figlio maschio nel duello che questi ha per tanto tempo inseguito. Però che succede? Che due soli omicidi (nessuno dei quali premeditato, per di più) invece di tre come in Saavedra parvero a Verdi motivazione insufficiente a giustificare la disperazione di Alvaro e la sua auto-condanna a morte in quanto creatura infernale: così, dopo la prima versione (fedele al testo originale) in cui Alvaro si getta dalla rupe, Verdi chiese a Ghislanzoni di produrre la seconda e definitiva – e in questo caso più logica e realistica, va riconosciuto, rispetto a Saavedra - dove il poveraccio sfigato riceve il preavviso del perdono divino dalla bocca di Leonora morente e… resta vivo a piangere i morti.  

Sul fronte delle aggiunte al soggetto originale, cominciamo dal second’atto, dove Piave-Verdi spostano la Preziosilla da Siviglia a Hornachuelos, nella locanda dove lei fa la sua incredibile lode alla guerra, invitando i presenti ad arruolarsi per l’Italia, dove anche lei promette di seguirli. Peccato che la cosa poteva avere magari un senso in una città popolosa come Siviglia, ma diventa piuttosto incredibile se collocata in uno sperduto paesino di montagna, affollato sì in quel momento, ma solo da pellegrini diretti al convento, poco papabili come volontari militari. Vedremo poi come questa corposa presenza della gitana servirà a giustificare un’altra e ben più corposa (e schilleriana) aggiunta al terz’atto. Qui Piave-Verdi trasferiscono da Alvaro a Carlo la predizione di malasorte della gitana! Nel libretto italiano sparisce totalmente ogni risvolto misterioso che in Saavedra caratterizza la scena nella locanda: riconosciamo chiaramente Carlo travestito da studente (e dichiaratamente alla ricerca della sorella e del suo seduttore) e Leonora (che compare di sfuggita) travestita da uomo.

In tema di aggiunte – sempre nell’atto secondo - una novità piuttosto importante è il coro finale di Padre Guardiano e dei frati del convento (Maledizione, maledizion!) Che consente a Verdi di proporci grande musica di grande effetto, ovviamente (poi sarà ripreso da Leonora nella scena finale); ma si tratta in realtà di un monito del tutto sproporzionato rispetto all’oggetto, che è un invito, per quanto severo, del Padre ai suoi frati (a chi altro…?) a non essere curiosi. Insomma, un cannone per sparare a una mosca! (Molto più plausibile la maledizione di Monterone a Rigoletto, per dire…)  

E veniamo all’atto terzo, il più martoriato di tutti e per di più rivisto nel 1869 rispetto alla prima versione. Nel suo monologo, Alvaro si dice figlio di un indio che, sposando la principessa Inca, sognava di liberare il suo Paese dalla dominazione spagnola, e venne dagli spagnoli arrestato e incarcerato (abbiamo visto che in Saavedra suo padre era invece il Vicerè spagnolo). Poi tutta la struttura dell’atto viene rivista, con l’inserzione – voluta da Verdi in persona - delle scene mutuate da Schiller, che nel suo Wallensteins Lager presenta proprio uno spaccato della vita quotidiana di una guarnigione boema ai tempi della guerra dei 30 anni, quindi uno scenario vagamente assimilabile a quello di Velletri. Nella versione originale dell’opera, dopo che Carlo ha scoperto l’identità di Alvaro abbiamo le scene schilleriane e successivamente il duetto Carlo-Alvaro e il duello, il cui esito sembrerebbe quello di… Saavedra, ma in realtà non è così, anche se Alvaro canta un’aria-cabaletta (Qual sangue sparsi! e S'affronti la morte, col DO acuto) che chiude l’atto, nella quale si dice convinto di aver ucciso il rivale. Nel 1869 la struttura cambia: scompare l’aria-cabaletta finale di Alvaro e, dopo l’aria di Carlo abbiamo il breve coro dei soldati e quindi il duetto che dovrebbe portare al duello, duello che però viene impedito in circostanze risibili. E qui partono le ultime 5 scene da Schiller, i contenuti delle quali sono del tutto avulsi dal nocciolo del dramma, al quale anzi finiscono per assestare un’insopportabile caduta di tensione. Vien quasi da sospettare che Verdi abbia - per qualche ragione, magari legata al teatro che doveva ospitare la prima - voluto impiegare qui uno degli ingredienti classici (anche per collocazione all’interno degli atti) del Grand-opéra, che contemplava per dopo la metà dell’opera la presenza di balletti o comunque di simili scene coreografiche. 

Ecco quindi che personaggi che in Saavedra sono marginali  e passano come meteore qui invece tornano miracolosamente in scena e in primissimo piano: si tratta di Trabuco e Preziosilla, che evidentemente Piave-Verdi hanno mandato (da Hornachuelos!) al seguito delle truppe spagnole in Italia. Si è già detto come, per giustificare in parte la loro presenza a Velletri, nel secondo atto era stata messa in bocca a Preziosilla quella grottesca lode alla guerra e l’intenzione di seguire i volontari in Italia. In più, ecco comparire a Velletri persino Melitone (fattosi per l’occasione e pro-tempore cappellano militare? suvvia…) cui Verdi fece vestire i panni dell’anonimo monaco che nell’ottava scena del Wallenstein fa un pistolotto a soldati e paesani della guarnigione; e chiese ad Andrea Maffei di aggiustargli all’uopo i versi già da lui tradotti del dramma di Schiller. Ed ecco qui il risultato:


Non parliamo poi del Rataplan! che chiude l’atto. Che già Donizetti e Meyerbeer avevano musicato, ma in opere di soggetto decisamente diverso (La Fille du Regiment e Les Huguenots) e che Offenbach aveva parodiato nel suo Ba-ta-clan, probabilmente noto a Verdi, che si trovava a Parigi fino alla settimana precedente l’esordio in scena (al Théâtre des Bouffes Parisiens, 29 dicembre 1855) della chinoiserie musicale dell’allora 35enne semi-sconosciuto violoncellista.

C’è però chi ipotizza che queste apparenti grossolanità, introdotte da Verdi in un soggetto più che serio, altro non siano che un mezzo – e nemmeno tanto blando – per satireggiare contro la retorica della guerra e, con riferimento a Melitone, della liturgia!

Ma se Dio vuole nell’atto quarto abbiamo la splendida invenzione dell’aria di Leonora (Pace, pace, mio Dio!) che da sola riscatta tutte le magagne del libretto! 
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Per quanto riguarda il fronte strettamente musicale, rimando a questo breve, ma come sempre penetrante, saggio di Michele Girardi. Quanto alla versione originale di Pietroburgo, la si può vedere qui, rappresentata proprio nella città che ospitò la prima.    
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Torniamo ora al Regio e a questo spettacolo di Stefano Poda (una ripresa, in effetti, dalla stagione 2011). Il regista è anche scenografo, costumista e… lucifero (forse in omaggio alle spending review oggi tanto di moda) e fa un discreto compitino sul tema, senza inventare chissà quali Konzept (per quelli bisognerebbe chiamare i Guth e i Carsen, che costano un occhio della testa!) Quindi vediamo una Forza quasi coerente (fatte salve le varianti predisposte per la Scala nel 1869) con quella che Verdi nel 1862 propose ai pietroburghesi, affamati di prodotti di marca dell’occidente.

Ho scritto quasi perché il regista, dovendo comunque giustificare la parcella, qualcosa di strano deve pur inventarsi. Ecco quindi che Leonora, nella scena dell’atto secondo al convento, invece di presentarsi ai monaci abbigliata da… monaco, si mostra in tutta la sua femminilità, e fa pure un mezzo spogliarello! Forse il regista qui voleva riempire di contenuti e razionali quell’altrimenti esagerato Maledizione! Poi, nella scena finale, affinchè nessuno abbia dubbi sullo svolgersi dei fatti, ecco che Leonora viene pugnalata (due volte, non si sa mai…) da Carlo davanti a tutti. Sorvolo su altri particolari di poco conto, come il baule (o valigia) di Alvaro (atto III) che qui diventa un moderno portafogli, più piccolo della chiave che lo deve aprire (smile!) O il pugnale che piove dall’alto dopo l’accoltellamento di Leonora, conficcandosi in un cubo posto sotto l’enorme croce che incombe sul finale. O ancora il pulviscolo luccicante (tipico delle premiazioni di squadre che vincono coppe o campionati) che scende sulla scena al calar del sipario.

L’aspetto per me più interessante della proposta di Poda consiste nel rendere seri (quale è il dramma nella sua essenza) anche i momenti da avanspettacolo che lo caratterizzano; questo contribuisce a minimizzare gli eccessivi contrasti fra le cupe vicende del soggetto e i diversivi leggeri che lo inquinano.

Quanto alle scene, nei primi due atti prevalgono pannellature enormi che chiudono la visuale, e che sono di quando in quando spostate per creare… movimento (!) Il terzo atto si apre (sul monologo di Alvaro) con un enorme pendolo (tipo la mazza sferica di felliniana memoria) che dovrebbe, credo, rappresentare l’incedere ineluttabile del destino. Nell’atto conclusivo abbiamo l’altrettanto enorme croce adagiata obliquamente, ad evocare… qualcosa che il regista dovrebbe spiegarci (smile!) I costumi dei personaggi principali tendono pericolosamente al… pastrano DDR di triste memoria, ma pazienza. Oltre ai ballerini che compaiono nelle scene del 2° e 3° atto, vediamo all’opera anche dei mimi che evocano, ad esempio, le scene di guerra in quel di Velletri.

Sul fronte attoriale, poco da dire: Poda non rischia nulla, fa cantare i protagonisti (salvo i… morenti, che per forza di cose devono stare sdraiati per terra) ben piantati di fronte al pubblico e muove il meno possibile le masse corali (facendo caso mai muovere di più – anche se… al rallentatore - i mimi).

In sostanza, un allestimento dignitoso che non farà storia, né nel bene, ma neanche – e questo è già un merito – nel male.
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Ho già anticipato della sicurezza di Bignamini, la cui direzione è di quelle che ti fanno pensare che il Direttore abbia studiato assai la partitura (cosa che parrebbe ovvia, ma che tale purtroppo non è): mai un’esagerazione enfatica, mai la buca che zittisce le voci, sempre una buona intesa fra suoni e canto. Ecco, il Direttore associato de laVERDI sfrutta al meglio le qualità di un’altra benemerita Orchestra padana (la Filarmonica Arturo Toscanini) valorizzandone l’insieme e i singoli, primo fra tutti il clarinetto (forse per affinità… elettive.)

Ottimo il coro del Regio di Salvo Sgrò, che alla fine dell’atto terzo, dopo un fulminante Rataplan, ha ricevuto uno speciale tributo di applausi. 

Applausi che il pubblico ha distribuito – in diversa misura e mescolati a qualche chiaro dissenso - a tutti, sia a scena aperta dopo i numeri principali, che al termine dello spettacolo.

Roberto Aronica (Alvaro) mi ha piacevolmente impressionato, reggendo bene sino in fondo una parte oggettivamente difficile e mettendo in mostra una voce squillante e potente, che ben si addice alla figura del mezzo-hidalgo venuto dal Perù.

Il suo rivale Luca Salsi (Carlo) ha pure ben meritato, salvo qualche problema emerso sugli acuti (parlo della ballata dell’atto secondo): con Aronica ha dato vita in modo efficace anche ai duetti di amicizia-scontro fra i due.

Molto meno convincente Virginia Tola (Leonora): non è un caso che, in mezzo a convinti applausi, già arrivati dopo le due arie, alla singola finale sulla 38enne cantante argentina siano piovuti dal loggione anche convinti… buh: forse eccessivamente ingenerosi, ma direi proprio non immeritati, stante l’opacità complessiva della sua prestazione, che non ha presentato clamorose mende, ma che non si è mai sollevata da un livello di generale mediocrità, a partire dal poco gradevole timbro della sua voce.  

Roberto De Candia (Melitone) ha forse ecceduto in qualche schiamazzo di troppo (alludo alla scena del refettorio) ma nel complesso non se l’è cavata male, specie nel suo tormentone del terz’atto.

Michele Pertusi (Padre guardiano) è un altro che mi ha sorpreso negativamente: la voce pareva perennemente forzata per assumere un accento ieratico e severo, col risultato di… risultare innaturale e stimbrata. Peccato.

Chiara Amarù (Preziosilla) ha confermato le buone qualità che l’hanno rivelata negli ultimi ROF: anche lei però, in mezzo a tanti applausi, è stata destinataria di un (peraltro isolatissimo) dissenso.  

Andrea Giovannini (Trabuco), Simon Lim (Calatrava), Raffaella Lupinacci (Curra), Daniele Cusari (Alcade) e Gianluca Monti (Chirurgo) hanno onorevolmente completato il cast.

In conclusione, un caldissimo (parlo proprio di temperatura ambientale) e piacevole pomeriggio.