XIV

da prevosto a leone
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17 giugno, 2019

La giara fantasma del Regio (con Cavalleria)


Ieri al Regio-Torino quinta delle nove recite di un dittico abbastanza insolito: al dramma verista mascagnano viene infatti affiancato il balletto (precisamente: commedia coreografica) La giara di Alfredo Casella. Effettivamente un punto di contatto fra le due opere esiste (meglio dire: esisterebbe, a fronte di ciò che si vede a Torino): la Sicilia, dalla quale provengono i due autori delle opere letterarie ispiratrici, e della quale si mettono in scena - magari inventandoli - alcuni tratti naturalistici ed antropologici.   

Il soggetto della Giara è tratto dalla famosa novella di Luigi Pirandello, che narra la bizzarra vicenda di Zì Dima, un anziano artigiano esperto in riparazioni di giare e oggetti consimili, chiamato ad aggiustarne una di dimensioni enormi a casa del ricco possidente Don Lolò. Lui per sistemarla come nuova vi si introduce all’interno, e così ne rimane fatalmente imprigionato. Dopo un braccio di ferro con Lolò che pretenderebbe il pagamento della giara in cambio della sua liberazione, la storia si conclude con lo scorno del padrone di casa e il trionfo dell’artigiano.

La struttura del balletto è in due macro-parti, per una durata poco superiore alla mezz’ora. Per meglio esplorarla possiamo ricorrere a quest’unica registrazione live disponibile (che io sappia) su youtube, grazie all’amor proprio del maestro Mauro Fabbri, che l’ha diretta tempo fa in Bulgaria. Nel seguito sono evidenziati i tempi corrispondenti alle diverse indicazioni agogiche presenti in partitura, corredate, quando esistenti, dalle didascalie di scena.
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I - a) Preludio b) Danza siciliana

Preludio
(28”) Andantino dolce, quasi pastorale
(1’53”) Un poco più lento, quasi adagio
(3’02”) Allegro grottesco ed animato (Zi’ Dima passa al procenio e scompare)
(3’20”) Tempo primo

Chiòvu (Chiodo, danza popolare siciliana)
(5’00”) Allegro vivace (Scena: aia siciliana; entrano i contadini)

Danza generale
(5’40”) Allegro vivace
(6’19”) Lontano - Avvicinandosi - Brillante e giocoso
(7’17”) Sempre più forte, ma senza affrettare - Con tutta la forza - Calmato
(8’20”) Lontano - Avvicinandosi - Giocoso
(8’55”) Sempre più brillante e fortissimo - Stringendo
(9’33”) Vivace (Irrompono tre ragazze spaurite)
(9’50”) Grave, funebre (La grande giara spaccata; tutti piangono; strazio generale)
(10’51”) Vivace (Un contadino chiama tre volte Don Lolò)
(11’16”) Allegro drammatico (Don Lolò appare e scende; scena di furore; finimondo; contadini atterriti)
(12’50”) Poco a poco stringendo (Entra Nela)
(13’17”) Vivace grazioso (Nela riesce a placare le ire del genitore)
(14’13”) Allegro vivace e grottesco (Entra Zi’ Dima; i contadini lo accolgono come a una messa)
(14’32”) Allegro vivace e rustico (Tutti lo circondano e gli raccontano il fatto; lo conducono davanti alla giara)
(15’21”) Lento (Zi’ Dima esamina la giara; silenzio religioso)
(15’38”) Di nuovo animando (Zi’ Dima annuncia che riparerà la giara; “Evviva Zi’ Dima”)
(15’53”) Stringendo (Don Lolò si spazientisce e scaccia i paesani; tutti fuggono; Don Lolò esce con Nela)
(16’22”) Andante moderato (Zi’ Dima prepara la riparazione; si fa notte; fora i pezzi col trapano)
(17’16”) Vivace (Le tre ragazze spiano Zi’ Dima)
(17’40”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende il lavoro)
(17’56”) Vivace (Le tre ragazze riappaiono; Zi’ Dima non le vede)
(18’13”) Andante moderato (Zi’ Dima riprende ancora il lavoro)
(18’30”) Allegro animato (Rientrano giocosamente i contadini)
(18’52”) Stringendo (Zi’ Dima viene introdotto nella giara, poi chiusa con lembo rotto)
(19’07”) Lento molto e misterioso (La giara sembra nuova; i contadini sono ammirati)
(19’32”) Pesante ed allegro (I contadini cercano si estrarre Zi’ Dima, ma la cosa non va)
(19’42”) Agitato (Zi’ Dima urla; nuovi tentativi dei contadini; nuove urla del vecchio; sforzi eroici)
(20’01”) Allegro vivacissimo (Arriva Don Lolò stravolto e fa ruzzolare a terra i salvatori; disputa violentissima fra padrone e contadini)
(20’24”) Alla breve, stringendo (I contadini vogliono spaccare la giara per liberare Zi’ Dima; Don Lolò non lo permette: prima Zi’ Dima deve pagare il danno; baruffa generale)
(20’47”) Prestissimo (Don Lolò, dispersi i contadini, risale in casa)

II - a) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” b) Danza di Nela c) Entrata dei contadini d) Brindisi dei contadini e) Danza generale f) Finale

(21’08”) Allegro animato (Un contadino torna, accende la pipa a Zi’ Dima e lo tranquillizza)
(21’22”) Lento, calmissimo (Notte; chiaro di luna; calma; dalla giara escono le volute di fumo della pipa)
(21’55”) “La storia della fanciulla rapita dai pirati” (Dal fondo della campagna s’innalza un canto popolare) (testo di Alberto Favara, 25 battute musicali in FA# maggiore cantate dal tenore)


(24’00”) Vivacissimo e leggero (Nela scende dalla casa; danza attorno alla giara; chiama i contadini)
(25’29”) Allargando (Entrano tutti i contadini festosamente)
(25’35”) Pesante (Viene portato da bere)
(25’55”) Allegro deciso (Brindisi dei contadini che acclamano Zi’ Dima)

Danza generale
(26’39”) Allegro rude e selvaggio (I contadini ebbri danzano intorno alla giara)
(29’57”) Orgiastico e brutale (Don Lolò, destato dal baccano, si affaccia e vede la scena)
(30’14”) Allegro vivacissimo (Don Lolò scende come toro infuriato; spavento generale)
(30’26”) In due (Don Lolò abbranca la giara e la fa ruzzolare giù dall’altura; terrore dei contadini che si precipitano in soccorso di Zi’ Dima)
(30’47”) Allegretto molto moderato e rustico (Rientrano i contadini, innalzando in trionfo Zi’ Dima liberato)

Finale
(31’51”) Prestissimo (Don Lolò, disperato, è fuggito; Nela guida la danza generale)
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Non ci vuol molto a concludere che quest’opera si basi su tre pilastri strutturali, già sospettabili nel genere attribuitole dall’Autore: commedia coreografica. Che comporta quindi il carattere di commedia, cioè di soggetto letterario, con tanto di trama, personaggi e azioni; e comporta caratteri di coreografia, sostanzialmente di danza e di pantomimica. Ebbene, l’ineffabile regista-coreografo siciliano (si noti!) Roberto Zappalà cosa ti combina? Tiene buona solo la danza e butta nel cesso la commedia e la pantomimica! E per raggiungere questo mirabile risultato si serve pure di un Dramaturg (Nello Calabrò). Apperò, complimenti! Il suo balletto poteva e potrebbe benissimo essere indifferentemente appiccicato alla musica di Petruška o del Faune... Perchè scovarci tracce di giare, di Don Lolò, di Nela e di... Sicilia è impresa proprio disperata. Ecco perchè alcuni sparuti ma sonorissimi buh piovuti dall’anfiteatro all’abbasarsi del sipario non mi son parsi per nulla immeritati. Insomma, una Giara davvero fatta a pezzi! Peccato per i tanti bambini che i genitori avevano magari portato a teatro proprio perchè vedessero rappresentata quella storia imparata a scuola...

Battistoni (si dà sempre pose che finiscono per renderlo antipatico) ha diretto però con apprezzabile cura questa partitura in cui risuonano, oltre ad atmosfere sicule, anche accenti (vecchi di 10 anni almeno) stravinskiani. Marco Berti da lontano ha efficacemente cantato la canzoncina riservata al tenore. 
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Ecco poi la sempreverde Cavalleria. Qui le cose sono andate decisamente meglio, in quanto abbiamo appunto visto Cavalleria e non, che so... Pagliacci!!! Merito di Gabriele Lavia (che i Pagliacci proprio qui li ha già fatti, e ben... distinguibili!) Approccio assolutamente rigoroso (i soliti schizzinosi lo definiranno... soporoso, ma peggio per loro) con la Sicilia (magari non proprio quella di Vizzini, come ammette lo stesso regista) ben rappresentata da lavia lava solida (nera come la tragedia) e... liquida (rossa come il vino e il sangue che scorrono a fiotti). Movimenti di masse ben gestiti; moderato ricorso a stereotipi stantii (una Madonna e un Cristo, nulla più); e grande cura della recitazione per i protagonisti. Insomma, uno spettacolo assolutamente dignitoso e (parlo per me) del tutto soddisfacente. 

Vicissitudini di ogni tipo hanno fatto sì che il cast, rispetto alle originali scritture, sia stato quasi rivoluzionato: niente Danielona Barcellona per Santuzza (le è subentrata Sonia Ganassi) e niente Carlo Ventre per Turiddu (reincarnatosi in Marco Berti). Poi anche Marco Vratogna si è dato malato (tornerà forse per due appuntamenti) e quindi lo stoico Gëzim Myshketa si è dovuto sobbarcare finora tutte le recite come Alfio.

Devo dire che tutti tre i protagonisti se la sono cavata più che discretamente, così come la Lola di Clarissa Leonardi e la comprimaria Lucia di Michela Bregantin. Onorevole la prestazione del Coro di Andrea Secchi

Battistoni ha diretto con sufficiente sensibilità e attenzione ai particolari, strappando applausi per sè e per l’Orchestra dopo il celebre Intermezzo.
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Teatro non al completo, ma prodigo di consensi per tutti.

29 gennaio, 2018

Torna al Carlo Felice la Norma-fuori-norma


Nel mio personale tour delle Repubbliche marinare, dopo la Venezia del 21 ecco, ieri 28, la Genova del Carlo Felice, che ha ospitato la terza recita di Norma. Beh, mentre la Lanterna (personalmente) mi eccita assai meno di SanMarco, devo dire che il Bellini (e non solo quello di Norma) è davvero altro rispetto allo Spontini (e non solo quello del Pasquale) che pure fu uno dei suoi modelli.

Poco meno di 5 anni fa avevo potuto assistere all’esordio in Norma di Mariella Devia (con il quasi-esordiente Mariotti) a Bologna. E ne avevo scritto come di un evento di prima grandezza, con un epiteto che ho ripreso oggi nel titolo di questo post. A quel tempo la Mariellissima aveva già compiuto i 65, e adesso, 3 mesi dopo questa nuova Norma, lei spegnerà nientemeno che 70 candeline: un cosa da Guinness dei primati! E ovviamente non nella sezione dei Fenomeni da baraccone, ma in quella dei più Grandi artisti lirici di ogni epoca!

Ieri pomeriggio si è fregiata di un ennesimo trionfo, con una prestazione proprio da manuale. Certo, alla sua età le note gravi potranno essere un filino problematiche, ma i centri e gli acuti sono tuttora integri e sbalorditivi. Qualcuno ancora insiste ad avanzare riserve sulla sua voce, che sarebbe di soprano non-abbastanza-drammatico: beh, credo che ieri nessuno abbia potuto tirar fuori sofismi di tal fatta.

La sua allieva (profetessa) Annalisa Stroppa ha discretamente meritato, peccando un po’, secondo me, sugli acuti, spesso piuttosto vetrosi, mentre ha mostrato buona impostazione nei centri: azzeccata comunque la scelta (non è poi una novità, si ricorda la Ludwig con la Callas) di affidare Adalgisa ad un mezzo.

Dei due protagonisti al maschile mi sento di apprezzare Stefan Pop, bella voce squillante, ma un po’ incerto e timoroso (occhi perennemente puntati su Battistoni). Ma di sicuro il tenore rumeno si farà strada, ha solo 30 anni o poco più... Discreto l’Oroveso di Riccardo Fassi, da cui avrei preteso più autorevolezza, sia scenicamente che vocalmente: il suo mezzo è notevole, ma va forse meglio disciplinato.

Elena Traversi e Manuel Pierattelli han dato il loro onesto contributo. Da lodare il Coro di Franco Sebastiani, sempre solido e compattissimo nello strepitoso guerra, guerra!

Andrea Battistoni si agita sempre come un forsennato (forse per cercar di smaltire... ehm, qualche chilo di troppo) e saltella sul podio come da giovane faceva Daniel Oren; quando ci sono brani a piena orchestra scatena i fiati (ottoni in particolare) in accompagnamenti fracassoni che coprono la melodia degli archi. Però nelle scene ad elevato tasso di lirismo (tipo il duetto Norma-Adalgisa dell’atto secondo) si riscatta, trattenendo l’orchestra come si deve, per far risaltare le meraviglie di Bellini.
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L’allestimento, già visto da maceratesi e palermitani, è della premiata coppia di Teatrialchemici (i siculi Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi). I quali avevano da tempo rivelato al mondo la loro vision dell’opera, che comporta il trasloco dell’Irminsul (che già il libretto aveva bizzarramente spostato in Gallia dalla sua natìa Teutonia) in Sardegna, fra fili, tele, reti, stracci e cordami, materiali ispirati alla compianta Maria Lai : la foresta (scena unica, di Federica Parolini) è una jungla di liane, più enormi gabbie che paiono nasse restate a marcire in mare per anni, e dove non si trova una fogliolina nemmeno a pagarla oro. Di stracci o telami simili son fatti anche i costumi (Daniela Cernigliaro) del popolino, mentre i protagonisti (tutti più o meno appartenenti a... caste) si servono da gucci o versaci. Le luci di Luigi Biondi sono abbastanza efficaci, incluse quelle che illuminano il fondale, che cangia da giorno, a notte, a... rogo.

Ma ovviamente non si potrà tacere dell’interpretazione filo-socio-psicologica, che presenta arditi paralleli fra il mondo dei Druidi e quello globalizzato attuale, e digressioni nell’antropologia e persino nella genetica, visto che il bianco Pollione mette al mondo, ingroppandosi una gallica più slavata di lui, un figlio bianco e uno nero... (Evabbè, già il libretto ha dell’inverosimile, visto che ci si vuol far credere che Norma, personaggio quanto mai in vista, abbia potuto avere non dico una, ma due gravidanze senza che alcuno - suo padre compreso, ed esclusi solo Clotilde, Pollione e, per tramite di costui, Flavio - si accorgesse di nulla.)

L’entrata di Norma lascia davvero perplessi: mescolata in mezzo ai Druidi, si stenta a riconoscerla, fin quando non comincia a cantare. Dico, lasciamo pur perdere i capelli cinti di verbena e la falce d’oro per mietere il vischio (come da libretto) ma la musica è quella che introduce una specie di regina, con il coro che la annuncia (Norma viene) con enfasi e retorica degne di una marcia trionfale! La scena mi ha ricordato da vicino l’apparizione del Lohengrin di Guth (visto anni fa in Scala) che la folla scopre a terra in preda a convulsioni epilettiche, mentre (a parte il libretto che lo descrive arrivare raggiante su una barchetta trainata dal cigno) la musica è quanto di più trionfalistico si possa immaginare. Ma si sa, quando un regista creativo si convince di avere un’idea geniale, pur di realizzarla non guarda in faccia nè a libretto, nè a partitura... e se lo spettatore storce il naso, la colpa è esclusivamente sua, ignorante che non è altro!

Devo dire però che sul lato della recitazione i registi non hanno demeritato, così come nel trattamento della masse, fatte muovere con misura ed appropriatezza. Qualche modesto dissenso nei loro confronti (all’uscita finale) è stato annegato da preponderanti applausi.

Applausi e ovazioni che sono andati a tutti indistintamente, con l’eccezione - in superlativo - per la Mariellissima, da parte di un pubblico stipato in teatro come sardine in barile. Oltretutto in una giornata di sole quasi primaverile, mentre al di qua del Turchino imperversa il nebbione... 

20 aprile, 2015

Un Billy per pochi intimi

 

Ieri pomeriggio una Genova non propriamente primaverile ha accolto la terza recita di Billy Budd, in un Carlo Felice evidentemente disertato da molti genovesi e ulteriormente svuotatosi nell’intervallo. Della serie: a dare perle ai porci succede che questi o non si avvicinino nemmeno alla mangiatoia, o l’abbandonino dopo un’annusatina, andandosene schifati a ingollare qualche lavatura di piatti. Eccola là.

Comunque, peggio per gli assenti, dico subito, chè lo spettacolo, pur con qualche veniale ombra che descriverò, è di alto livello e valorizza pienamente (tanto in scena quanto in buca) tutti i pregi di questo splendido prodotto del teatro musicale di lingua inglese del ‘900.

La regìa di questa edizione, ripresa dall’allestimento torinese del 2004, è di Davide Livermore, che oggi è particolarmente di casa al Carlo Felice, essendone regista residente.

Costretto a suo tempo (Torino) dalle circostanze (si dice) a fare praticamente a meno delle scene, Livermore, con il fido Tiziano Santi, ha deciso di mettere a dura prova i martinetti che sollevano ed abbassano le sezioni del pavimento del palco, divenute così altrettanti ponti dell’Indomitable che accolgono di volta in volta le masse dei marinai o gli ambienti chiusi della cabina del capitano o delle stive. Per la scena finale del primo atto addirittura si è simulato il rollìo del vascello! Costumi moderni: cappottoni e berretti DDR al posto di settecentesche palandrane e cappelli a tre punte, tanto fanno sorridere entrambi; jeans e magliette per i vessati marinai. Mentre tutti sono vestiti di roba scurissima, arriva Billy tutto in bianco accecante: la didascalia (libera traduzione italiana) mette in bocca a Claggart l’espressione mosca bianca… ecco, abbiamo capito!

Finisco con gli aspetti più goliardici o grossolani della messinscena ricordando la fila di riflettori che sparano luce accecante negli occhi del pubblico in contemporanea alla salva di cannonate a vuoto comandata da Vere e i cannocchiali e binocoli degli ufficiali che, dovendo esplorare il mare immerso nella nebbia, si trasformano in potenti torce elettriche.

Ma tutto il resto - che è la parte più importante – è davvero da incorniciare. Intanto Livermore non ci fa perdere nessuno degli aspetti peculiari del soggetto: la violenza e i ricatti del potere sugli indifesi e diseredati, l’ottusità dell’autorità costituita, il fanatismo militarista degli ufficiali che si trasmette anche alla ciurma, e soprattutto i malsani rapporti di natura omosessuale tra le due autorità (quella maligna di Claggart e quella benigna di Vere) con l’innocente e ingenuo Billy. Ma anche i sani rapporti (pure chiaramente omosessuali) fra il Novizio e il suo inseparabile Amico. Citerò solo due momenti al riguardo: il primo è il ritorno in scena del Novizio dopo le frustate ricevute (per una colpa veniale): ciò che ci appare improvvisamente è un’immagine che richiama alla mente certi dipinti della deposizione del Cristo, con l’Amico inginocchiato che sorregge il corpo nudo del Novizio, immagine di grandissima poesia che mirabilmente asseconda la musica di Britten (col sax contralto in evidenza). Sull’altro versante, straordinaria la scena del diabolico credo di Claggart, che canta tutto il male che alberga nella sua anima e il suo odio (da frustrazione sessuale) per Billy stringendo nervosamente tra le mani il fazzoletto rosso strappato al ragazzo poco prima, e con la sua vittima dichiarata che dorme sul ponte inferiore, proprio sotto di lui.

Di grande impatto anche la scena dell’impiccagione, che vediamo in diretta (il libretto ce la lascia solo immaginare) ma che mette in grande risalto il mugugnar cantando della ciurma. A proposito di questa scena, Livermore fa eseguire la musica che accompagna l’arrivo dell’equipaggio sul ponte a sipario abbassato (come gli altri interludi): scelta arbitraria ma non del tutto censurabile, dato che queste entrate successive dei vari corpi di marinai e ufficiali scimmiottano un po’ troppo quelle delle quattro bande nel finale del Lohengrin…

Chiudo lasciando in sospeso il giudizio sulle modalità con cui ci viene presentato il Capitano Vere in Prologo ed Epilogo: lui si erge su un obelisco tipo Trafalgar Square, nemmeno fosse Nelson. La cosa non è del tutto campata in aria, dato che nella novella di Melville (non nel libretto) c’è un accenno a Vere come potenziale Nelson, se non fosse… morto anzitempo; però questa presentazione rischia di apparire come parodistica, e non sono certo che Vere se la meriti.

Tirate le somme, ripeto che giudico questa di Livermore come una proposta assolutamente di eccellenza.
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E di ottima fattura è stata anche la parte musicale, a cominciare dalle prove dei tre interpreti principali (Philip Addis, Billy – Graeme Broadbent, Claggart – Alan Oke, Vere) seguite da quelle degli altri comprimari: i tre ufficiali Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim; poi John Paul Huckle, un ottimo Dansker e il Novizio Alessandro Fantoni. Ma tutti ii singoli hanno contribuito egregiamente al livello della recita. Con loro i due cori adulti: quello di casa di Pablo Assante e quello del Teatro Nacional São Carlos di Lisbona di  Giovanni Andreoli (che guidò anni fa proprio il coro genovese) tornato ancora come nel 2005; e i piccoli/e di Gino Tanasini.

Una bella conferma è venuta da Andrea Battistoni (che finalmente ho visto sorridere alle uscite!) a cui imputerò soltanto un paio di eccessi di volume nelle scene più movimentate, ma che ha guidato con autorevolezza un’orchestra a sua volta in gran spolvero.

Alla fine i pochi fortunati rimasti in sala hanno applaudito e gridato anche per gli assenti, tributando a tutti un meritatissimo trionfo. Domani e mercoledì gli scettici hanno ancora due prove d’appello per ricredersi.

08 maggio, 2012

Rachmaninov per giovani con la Filarmonica della Scala


Una vera Indigestione di Rachmaninov (in prima e per interposta persona…) nel concerto di ieri sera della Filarmonica della Scala. E con tre giovani (o giovanissimi) protagonisti: il ragazzino Andrea Battistoni (25 anni) il suo quasi coetaneo Alexander Romanovsky (28) e il loro fratello maggiore Matteo Franceschini (33).

Del quale ultimo (cui l’opera è stata commissionata dall’Orchestra) si inizia con una prima assoluta: Ja sam.

Dato che l’Autore afferma di voler impiegare il coro di voci bianche come fosse uno strumento dell’orchestra, ecco che ad esso viene riservato uno spazio sulla destra del palco (per chi guarda) spostando per l’occasione i contrabbassi a sinistra.

Cosa c’entra qui Rachmaninov? C’entra come ispiratore del brano (una cosa corposa, quasi mezz’ora, come un poema sinfonico di Strauss, per dire…) con la sua Prima Sonata per pianoforte in RE minore (in particolare l’iniziale Allegro moderato). Che Franceschini prende a modello rispettandone la struttura di forma-sonata fino nei dettagli quantitativi (357 battute e relativa suddivisione in esposizione-sviluppo-ripresa).

Non ci si aspetti però di trovare nella sua composizione delle citazioni letterali e nemmeno vaghe (almeno io al primo ascolto non le ho percepite…) Come ammette l’Autore stesso (nelle note pubblicate sul programma di sala) la Sonata del russo è stata essenzialmente di stimolo per la sua creatività.

Successo – come si dice in queste circostanze – di stima, con ripetute chiamate per Autore e Interprete. Meritatissimi gli applausi per le ragazzine del coro e il loro Maestro Casoni.

Poi arriva Alexander Romanovsky, immigrato ucraino e oggi cittadino italiano (cosa che immagino infastidirà i residui leghisti, smile!) per proporci le Variazioni su un tema di Paganini dello sdolcinato Sergei.

Il quale – imitatore e scimmiottature di natura (Ciajkovski ne sa qualcosa) – compì un’operazione analoga a quella già inventata da Liszt con la campanella e da Brahms con il medesimo tema sull’ultimo dei 24 capricci del genovese: comporvi un pezzo velleitario, una specie di concerto in 24 variazioni. Nel quale immancabilmente infila, indovinate un po’… anche il Dies Irae (un’autentica fissazione la sua!)

Romanovsky mostra qui tutta la sua grande tecnica e propone – alle mie orecchie perlomeno – una specie di coca-cola-light del brano, togliendogli parecchio dello zucchero. Assecondato da Battistoni, che ad esempio non calca per nulla la mano nel celebre quanto volgare Andante cantabile (n°18) in REb maggiore.

Gran successo per Romanovsky, che si cimenta anche in un paio di bis.

Ha chiuso la pesante razione di Rachmaninov la Seconda Sinfonia, che a Milano si è potuta ascoltare con una certa (direi preoccupante, smile!) frequenza negli ultimi tempi: dalla stessa Filarmonica con Pappano, poi da laVerdi con Xian, indi ancora da Noseda all’Arcimboldi con l’Orchestra del Regio di Torino.

A me è parsa un’esecuzione più che accettabile, con un’orchestra in buona forma e un Direttore che sarà pure giovane e magari, come si dice in gergo, se la tira un po’ troppo (mai un sorriso, accipicchia, e atteggiamenti iper-formali) però non sembra proprio un tipo catapultato da qualcuno sul podio, e che cerca di seguire col gesto un’orchestra che tanto suona per i fatti suoi…

Al contrario, a me dà l’impressione di uno che conosce bene il suo mestiere (poi bisognerebbe chiedere ai professori se lo trovano una guida carismatica o soltanto un montato). Certe stroncature lette dopo le sue Nozze a me sembrano il classico contrappasso fatto pesare su un incolpevole per controbilanciare peana sconsiderati rivolti in precedenza ad altri giovani più o meno meritevoli (e/o raccomandati) di lui.  

26 marzo, 2012

Strehler va ancora a Nozze alla Scala


Nuovo – e gradito, a giudicare dall'accoglienza del pubblico non oceanico del Piermarini - revival alla Scala di una produzione storica, ma sempre di grande valore e di attualità: Le Nozze di Figaro del sommo Giorgio Strehler, ripresa per l'occasione da Marina Bianchi.

Poi, tanto per non smentire quella che ormai pare una ferrea regola del Teatro, ecco arrivare puntuale la defezione di uno dei protagonisti, Ildebrando D'Arcangelo, sostituito in Figaro da Nicola Ulivieri

Sul podio un ragazzino - si fa per dire, a 25 anni è incallito fumatore di sigaro e ha un curriculum impressionante, avendo già diretto oltremodo (sic!) la metà delle orchestre del pianeta - Andrea Battistoni da Verona: pare entri nel guinness come il più giovane direttore mai salito sul podio scaligero, beato lui… Forse perché invidiosi di questo primato, i loggionisti del lato destro gli hanno tributato, all'uscita singola finale, una salva di buh (unici della serata, in mezzo ad applausi non isterici, ma robusti). A me, che lo sentivo-vedevo per la prima volta, è parso assai sicuro di sè e per nulla sprovveduto; ha un piglio toscaniniano (vedi l'Ouverture, che ha diretto - non saprei se giudicarlo un pregio o un difetto – battendo il Presto in 4! certo molto diverso dalla compostezza di questo Levine) e persino il gesto (l'ampia sbracciata in chiusura di battuta) ricorda quello del Toscanini che si vede in tanti filmati d'epoca. 
In più ha diretto a memoria (salvo qualche pagina di partitura che ha sfogliato nel terzo atto) il che è comunque un segno di applicazione e di studio. Per lui devono aver fatto un'eccezione persino i famigerati corni filarmonici, con attacchi precisi e assenza di stecche o stonature, il che non è poco. E comunque lui ha almeno cinque anni di tempo davanti a sé per raggiungere (infallibilmente) l'età di altri colleghi che qualcuno fa già passare per fenomeni. Perciò… auguri.

Detto del Kindlein-Kapellmeister, buone notizie dal cast, a cominciare proprio da Nicola Ulivieri, che non ha fatto rimpiangere il forfait-tario D'Arcangelo. Ancor meglio di lui la Contessa, Dorothea Roschmann, che ha tuttora una bella voce e gran recitazione. Su un livello più che dignitoso il Conte di Fabio Capitanucci e la Susanna di Aleksandra Kurzak. Il Cherubino di Katija Dragojevic non ha demeritato, pur non destando entusiasmi (almeno nel sottoscritto). Degli altri, al solito bene la Pretty Yende (Barbarina) ma anche apprezzabili la Marcellina di Natalia Gavrilan e il Basilio di Carlo Bosi, gratificati da applausi dopo le rispettive arie sindacali (l'aggettivo è di Massimo Mila, smile!) del quarto atto. Maurizio Muraro come Bartolo, Emanuele Giannino il giudice don Curzio e Davide Pelissero Antonio: tutti all'altezza dei rispettivi compiti da comprimari. Il coro di Casoni, ultimamente parecchio criticato, non mi è sembrato demeritare, anche perché ha un ruolo francamente tutt'altro che tremendo. Alla fine applausi moderati ma convinti per tutti (cui si sono aggiunti i buh per Battistoni).

Dell'allestimento non si può parlar altro che bene, essendo uscito a suo tempo dalle mani e dalla testa di un maestro assoluto del teatro. Io devo dire che mi ero abbastanza divertito mesi fa alla moderna messinscena di Michieletto (alla Fenice); ma qui con Strehler siamo davvero su un altro pianeta. Francamente non so proprio quante delle regie di oggi verranno ancora riprese nel 2040!