XIV

da prevosto a leone
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16 marzo, 2025

Una lunga Tosca alla Scala.

Ci sono più intervalli che opera… Così una signora di prima galleria dopo i 50’ di sosta fra il primo e il second’atto (guai non meglio precisati nel cambio-scena).

A poco più di 5 anni di distanza è tornata alla Scala la produzione (Santambrogio 2019) affidata per l’allestimento a Davide Livermore, che però è come Paganini, non ripete, e quindi cede il testimone ad Alessandra Premoli.

[Qui le mie note critiche di allora; e qui invece, qualche mia elucubrazione… filologica sull’opera; e infine un parere sulla drammaturgia di Tosca, assolutamente politically-correct, dell’omnisciente IA.]

Oggi cambia il Direttore (Gamba subentra a Chailly) mentre nel cast restano, almeno per qualche recita, due dei personaggi chiave: Meli e Salsi, più il simpatico Spoletta di Bosi.    

Le mie perplessità sulla messinscena espresse allora ovviamente rimangono tali (non essendo io un personaggio politico, non ho la necessità di ribaltarle a seconda del ruolo in parlamento…)

Quindi mi limiterò a qualche considerazione sul fronte musicale. Anticipando che il pubblico (gallerie, quanto meno) si è ampiamente diviso fra applausi e contestazioni. Che hanno colpito Francesco Meli, fin dalla Recondita armonia e poi – assai più accese – dopo il Lucevan le stelle. Contestazioni che non mi sento di condannare del tutto, poiché all’apprezzabile livello dell’espressione non sempre ha corrisposto lo smalto della voce, tutt’altro che impeccabile.

Ma persino Salsi ha avuto alla fine qualche dissenso, personalmente non condiviso. Chiara Isotton è stata una Tosca più che positiva: voce corposa, calda e sempre ben impostata, non ha fatto troppo rimpiangere la Netrebko del 2019.

Bene il Sagrestano di Marco Filippo Romano e il veterano Carlo Bosi come Spoletta. Un po’ al di sotto Costantino Fiorucci (Sciarrone) e un cavernoso Huanhong LI (Angelotti). Gli accademici Xhieldo Hyseni (Carceriere) e la piccola Anastasia Fazio (Pastore) all’altezza dei compiti.

Detto del coro di Malazzi, sempre in gran forma, chiudo su Gamba, a sua volta oggetto di qualche dissenso, in mezzo a convinti applausi. Personalmente gli rimprovero solo qualche eccesso di bandismo, che in un paio di occasioni ha finito per coprire le voci.

Alla fine, nessuna uscita singola a sipario chiuso (…) Insomma, una ripresa di questa produzione non proprio entusiasmante, ecco.

11 dicembre, 2024

La Forza dal vivo

Ieri sera ecco la vera prima (con tutto il rispetto per giovani e vip) della stagione scaligera 24-25.

Confermo subito il mio personale giudizio, formulato dopo la visione TV: una produzione complessivamente apprezzabile, ma come media ponderata di componenti che si posizionano su una forbice (dal dignitoso all’ottimo) abbastanza ampia. E in ogni caso, nulla di mai visto-sentito prima e di cui rimanga indelebile ricordo…

Vediamo quindi per prima la messinscena di Muscato. Il quale deve pur metterci qualcosa di suo, per giustificare onori e… parcella: il risultato è per certi versi apprezzabile, per altri un po’ meno.

Come il regista stesso aveva apertamente annunciato, il suo Konzept (cioè il messaggio che intende mandare allo spettatore per tramite del suo allestimento) verte sull’attualità più pesante che accompagna ogni nostro santo giorno: la guerra.

Il tutto presentato, va riconosciuto, con maestria ed efficacia… ma: siamo proprio sicuri che fosse questo il succo (e il messaggio) che Verdi ci ha voluto inviare con quest’opera? Farci cioè riflettere sugli orrori delle guerre (che pure erano notizia di tutti i giorni ai suoi tempi)? Il mirabile Pace, mio Dio, si riferisce a questo tipo di guerre? O non, invece, alla pace interiore che la povera Leonora implora dal Signore?

Verdi si era innamorato del Wallenstein di Schiller. Dovendo musicare un testo (di Saavedra) che tratta anche di guerra sì, ma con poche righe (a Velletri) a descriverne le fucilate e gli scontri all’arma bianca, per il resto raccontandoci la prosaica vita nella guarnigione spagnola, Verdi incaricò Piave di scrivere le scene di Velletri mutuandole dalla trilogia schilleriana. Ma quale parte del Wallenstein scelse? Proprio quella più vicina al testo spagnolo: non scene cruente di guerra, ma la prosaica vita nella guarnigione (il prologo Wallensteins Lager) dove ufficiali e soldati disquisiscono e spettegolano di generali, strategie e rivalità e dove i soldati si lasciano andare a deplorevoli azioni contro la cittadinanza che li ospita.

E per questo passaggio Verdi scelse (impiegando la traduzione di Maffei) la scena 8 di Schiller (divenuta la 14 dell’opera), quella del Cappuccino (reincarnatosi in Melitone) che rimprovera i militari per la loro ignavia e dissolutezza, mentre al fronte si muore… Le scene che chiudono l’atto terzo, Rataplan incluso, sono quasi da avanspettacolo, una parodia della guerra. Dopodichè Verdi, per preparare il terreno a… Schiller, inventò di conseguenza (e di sana pianta, rispetto a Saavedra) anche la colorita scena di Petrosilla simpaticamente guerrafondaia ad Hornachuelos. 

Muscato invece ci mostra continui riferimenti alla guerra, calati in epoche diverse: settecento, otto/novecento e… oggi. Ne vediamo già nel primo atto qualche traccia: la presenza - non prevista dal libretto, anche se didascalicamente utile - di Carlo, militare di carriera, al momento dell’uccisione del padre. Le guardie armate che puntano i loro archibugi contro potenziali intrusi attorno alla residenza dei Calatrava, e persino Leonora, nella transizione al second’atto, che si traveste da soldato per raggiungere in incognito Hornachuelos.

Dove – invece che in una locanda frequentata da qualche personaggio locale, da carrettieri e magari da pellegrini diretti al Giubileo – troviamo un vero e proprio centro di arruolamento di reclute e volontari, crocerossine incluse, tutti allegramente pronti a seguire Preziosilla in Italia per combattere l’odiato tedesco. 

A Velletri la guerra si fa più vicina a noi, prendendo le sembianze della WWI (gli archibugi diventano moschetti M91…) Un po’ di forzatura esiste (nel libretto la battaglia è solo descritta con poche righe di didascalia e in musica occupa la scena 3, poco più di 100 battute…) tuttavia fin qui l’idea di Muscato regge abbastanza bene, mescolando i riferimenti bellici con le goliardate di Hornachuelos e Velletri.

Ma dove francamente Muscato eccede è nel volerci presentare anche le guerre di oggi impiegando come scenario il Convento, dove Melitone distribuisce la sbobba ai poveracci. E dove (è proprio l’attualità più spinta) assistiamo ad una scena che ricorda odierne distruzioni e genocidi, o campi di concentramento (o magari i nostri C.A.R.A.) ben presidiati da agenti anti-sommossa equipaggiati con kalashnikov (???)

Insomma, a me pare che la centralità della guerra che caratterizza la messinscena di Muscato sia magari accattivante, ma anche sovrabbondante. Il regista ha – come accade spesso e volentieri – creato il suo Konzept prendendo, del soggetto, una parte per il tutto. Come isolare una tessera di un mosaico e ingigantirla a scapito di altre che vengono così penalizzate. Non leggiamo in ogni studio sulla Forza che si tratta di un unicum nella produzione verdiana, proprio dal punto di vista della poliedricità della forma e dei contenuti? Dove troviamo dramma, tragedia, lutti e omicidi tutti interni ad un ambiente famigliare (i Calatrava e Alvaro) e dove la guerra rappresenta poco più di un pittoresco accessorio.

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Dal punto di vista tecnico, l’idea, ormai diventata quasi uno standard registico, di impiegare una piattaforma girevole per agevolare la rapidità dei cambi-scena è azzeccata, proprio in ragione della struttura dell’opera, che presenta diverse occasioni in cui quell’accorgimento mostra la sua efficacia.

Apparentemente bizzarra (ma invece coerente con l’idea di mostrarci la guerra nei… secoli) la scelta di vestire protagonisti e masse con costumi da emporio di trovarobe: dalle parrucche settecentesche alle uniformi ottocentesche agli odierni kalashnikov.  

Scene più o meno appropriate ai diversi ambienti, con vasto impiego di cartapesta e flora finta. E, a proposito di foglie, quelle che alla fine spuntano rigogliose da un tronco rinsecchito ad accompagnare la Verklärung di Alvaro, vengono direttamente da… Tannhäuser!

Luci (e oscurità…) ben dosate. Movimenti di masse e singoli che vanno da staticità tipo tableau-vivant ai caotici assembramenti. Il regista ci mostra talvolta in scena personaggi che non vi dovrebbero essere: la cosa ha ora aspetti positivamente didascalici (Carlo presente all’uccisione del padre, in modo che sia più facilmente riconoscibile quando lo si incontra per la prima volta a Hornachuelos) o francamente stucchevoli (FraMelitone che compare clandestinamente qua e là senza ragioni particolari, come ad esempio nel terz’atto, ben prima delle scene schilleriane).

Altro dettaglio di dubbia efficacia, a proposito della morte di Calatrava: la sfortunata accidentalità dell’episodio (che di fatto scagiona il povero Alvaro da ogni accusa di omicidio) viene smentita dal gesto del giovane indio che, invece di gettare la pistola a terra e lontano, va a depositarla con forza sul tavolino a fianco del quale si trova il Marchese: qui come minimo, vostro onore, si tratta di omicidio preterintenzionale!

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Chailly, l’Orchestra e il Coro di Malazzi hanno il merito principale di innalzare decisamente la media dei voti per questa produzione. Il Direttore rende alla perfezione tutte le sfaccettature che fanno, giova ripeterlo, di questa partitura davvero un pilastro di tutta l’opera di Verdi. Già la mirabile esecuzione della Sinfonia anticipa tutte le meraviglie che si scopriranno nelle successive tre ore!

Orchestra in stato di grazia, in tutte le sezioni come nei singoli: Il clarinetto di Meloni e il violino della Marzadori sono solo le punte di un iceberg di eccellenza.

Il Coro ormai si supera ad ogni nuova prova: per compattezza, accenti e – non da ultimo e grazie al regista – presenza scenica.

Le voci? Qui, come per la regìa, note più… mixed, ecco: dall’eccellenza all’onesta e dignitosa prestazione.

Top-down, quindi: Tézier mattatore della serata. Il suo Carlo si presta solo ad elogi: voce senza sbavature in tutta la gamma, baldanza (Pereda) cameratismo (con Alvaro) e poi odio cieco e insensato, fino alla finale (tardiva e… ipocrita?) richiesta di perdono. Davvero una prestazione superlativa.

Netrebko (ancora qualche buh dalla seconda galleria?) ormai non fa più notizia, tale e tanta è la sua eccellenza (ormai di antica data) nel puro canto, ma anche (e questa cresce ad ogni nuova prova) nell’interpretazione.   

Jagde ha una gran voce, passante e corposa (il timbro però non è proprio pulitissimo…) assai appropriata per il personaggio così combattuto e disperato di Alvaro. Forse gli manca qualcosa nell’espressione, quel quid che emozioni l’ascoltatore. Per curiosità cito un piccolissimo particolare, che ieri si è ripetuto dopo la prima del 7. Nella lunga scena con Carlo del terz’atto, Alvaro deve eseguire per due volte (sempre sul verso Vi stringo *** al cuor mio) un gruppetto (*** sta per FA-MI-RE#-MI) che invece Jagde semplifica in RE#-MI. Più avanti invece canterà altri gruppetti in modo canonico, dal che si deve dedurre che la cosa non sia dovuta a casualità, ma a preciso approccio interpretativo.

Berzhanskaya è una scatenata Preziosilla, forse portata ad andare fin troppo sopra le righe, ma la voce c’è e come, coniugata con la giusta verve che si addice al personaggio.

Vinogradov ha un vocione fin troppo cavernoso (ricorda antichi bassi… orientali) e mi pare gli manchi qualcosa della pietas che dovrebbe caratterizzare il Padre Guardiano.

Bosi e Romano hanno eseguito con dignità e onore i loro compiti, come Trabuco e Melitone.

Rahal, Beggi, Li e Hyseni (Curra, Calatrava, Alcade e Chirurgo) su un onorevole massimo sindacale, ecco.

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Pubblico entusiasta e parecchi minuti di applausi per tutti, Tézier, Netrebko e Chailly in testa.

05 aprile, 2023

La Napoli settecentesca trionfa alla Scala

Dopo La Calisto della penultima stagione, la Scala prosegue nel suo revival settecentesco con una proposta assai interessante, un’opera comica in dialetto napoletano. Si tratta di Li zite ngalera (no, non è Giorgio Bracardi…) che un musicista dal nome piuttosto impegnativo aveva composto per il Teatro dei Fiorentini di Napoli, specializzato nel repertorio leggero (quasi un secolo dopo vi sarà di casa anche Rossini, prima di passare, con l’opera seria, al SanCarlo). 

Piermarini con qualche vuoto all’inizio, poi ampliatosi assai nell’intervallo, ma chi è rimasto fino alla fine ha applaudito e ovazionato tutta la troupe per almeno 10 minuti buoni!  

L’allestimento è curato da Leo Muscato (già distintosi qui proprio con Rossini per un Barbiere, che tornerà a settembre) che è anche autore della preziosa traduzione italiana (eh sì, ad uso e consumo di noi polentoni del nord, soprattutto) del libretto di Bernardo Saddumene.

Soggetto che si presta, per sua natura, oltre che per le consuetudini dell’epoca, a incursioni nell’area che oggi è d’attualità sotto il termine LGBTQ+… Non solo abbiamo parti en-travesti per così dire tradizionali (femmine – tipicamente contralti, ma qui anche soprani e controtenori - che impersonano maschi e maschi – tenori - che impersonano femmine) ma anche travestimenti in senso proprio (femmine che si travestono da maschi) il che eleva a potenza le occasioni e i pretesti per creare equivoci di ogni sorta. Basti osservare come al centro del plot ci siano tre voci di soprano: una femmina (Belluccia) travestita da maschio (Peppariello) che tenta di riconquistare l’amore di un maschio (Carlo, femmina en-travesti) che sua volta concupisce un’altra femmina (Ciommetella) la quale si innamora perdutamente della travestita Peppariello: insomma, uno strepitoso triangolo, che ovviamente si presta ad ogni sorta di situazione… ehm equivoca, con piccanti doppi-sensi e salaci sottintesi.

Soggetto che presenta poi aspetti sui-generis (in territorio comico invece che drammatico) di pièce-à-sovetage (Belluccia-Peppariello tipo Leonore-Fidelio). Il tutto in uno scenario percorso da patetiche gare fra maschi frustrati che si contendono l’unica femmina passabile del circondario (a sua volta frustrata per la mancata cattura della femmina-maschio di cui sopra); e velleitari tentativi di un’attempata femmina (cantata da un tenore) per guadagnarsi i favori di quegli stessi maschi frustrati!

Immancabile il lieto fine, dove l’Autorità superiore dismette miracolosamente la sua ira punitiva per perdonare figlia e futuro genero e concedere a tutti l’auspicato, gratificante futuro… in galera, appunto.

Quanto alla musica, Vinci fa maledettamente sul serio, per rigore e austerità, mantenendosi sempre su un piano nobile, e mai scadendo nel frivolo e nel disimpegnato. Andrea Marcon la interpreta con gusto e raffinatezza, guidando i 21 barocchisti scaligeri, rinforzati da 9 elementi de La Cetra Barockorchester e sedendo lui stesso al cembalo.
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Muscato ambienta l’intera opera in un albergo e dintorni, le cui diverse zone, stanze e lobby sono costituite da mini-scenari (di Federica Parolini) che, traslando dalle quinte di destra verso quelle di sinistra o viceversa, e magari combinandosi, di volta in volta mettono in primo piano gli ambienti delle diverse scene. Un velario scende spesso per mettere in primo piano ciò che accade al proscenio.

Simpaticamente appropriati i costumi di Silvia Aymonino e assai efficaci le luci manovrate da Alessandro Verrazzi. Undici mimi contribuiscono ad animare alcune scene, tipo l’arrivo della galera del padre di Belluccia, carica di turchi e schiavottelle.  

Insomma, un’ambientazione simpatica e intelligente, che valorizza in pieno il dipanarsi dell’apparentemente complicata vicenda. Meritati quindi gli applausi e le ovazioni che hanno accolto alla fine tutto il team registico.
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Detto già della pregevole prestazione di Direttore e strumentisti (incluso lo zufolo che ha fatto per lunghi tratti il verso del pappagallo in gabbia) resta da lodare in blocco il cast delle voci.

A partire da quelle di soprano protagoniste del triangolo: lo svettante Carlo di Francesca Aspromonte, la sdoppiata Belluccia-Peppariello di Chiara Amarù e la frustrata Ciommetella di Francesca Pia Vitale. Memorabile e strepitosa la scena del loro terzetto dell’atto II.

Il controtenore Raffaele Pe ha strappato applausi per la sua prestazione – non solo canora, ma attoriale – nei panni di Ciccariello, questa specie di Cherubino ante-litteram.

L’altro controtenore Filippo Mineccia ha autorevolmente dato forma al personaggio di Titta, che alla fine viene gratificato dall’amore della tanto inseguita Ciommetella.     

Alberto Allegrezza ha prestato la sua voce, en-travesti, alle velleità amorose dell’attempata Meneca, sfoggiando per di più anche le sue doti di specialista al flauto dolce!

Il terzo pretendente (con Carlo e Titta) a Ciommetella è il navigato Antonino Siragusa, che ha messo la sua squillante voce tenorile al servizio del barbiere Col’Agnolo. Il garzone di Meneca, nonchè cuoco, Rapisto, è stato efficacemente impersonato da Marco Filippo Romano, solida e penetrante voce di basso-baritono.

Filippo Morace ha fatto la sua bella figura nei panni – peraltro quantitativamente ristretti - del Capitano di galera Federico Mariano, mentre il suo aiutante-tirapiedi Assan aveva la voce dell’altro basso, l’accademico Matias Moncada. L’altra accademica, Fan Zhou, se l’è cavata bene nei panni della schiavottella, cui è riservata una breve aria nel finale.
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Come detto, trionfale accoglienza per tutti e per ciascuno, a riprova della validità di questa coraggiosa proposta del Teatro milanese.