XIV

da prevosto a leone
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26 giugno, 2024

Il funerale di Puccini secondo Livermore

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla coppia Davide Livermore / Michele Gamba.

Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet, è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]

In ogni caso, ingressi esauriti per tutte le sette recite!

Vengo subito all’allestimento di Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro (masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono stati dotati anche gli spettatori.

Sopra il palco era calata un’enorme immagine a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25 aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso così quella storica recita.

E francamente avrebbe potuto essere la conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci (Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra poco.

Il regista si è attenuto strettamente al soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di un de Ana o di uno Zeffirelli.

Le scene (sue e di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino: quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per intenderci.

E poi una serie di oggetti dalla simbologia più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine di Calaf all’avventura…     

Il tutto accompagnato da immagini video (D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.

Infine Livermore fa comparire in scena il povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida personalità di Turandot.

Ebbene, nella scena finale del duetto Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto – con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.

E così ecco che lo sgelamento di Turandot si giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al regista!]  

Aggiungerò un altro paio di idee registiche che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!

Ecco, uno spettacolo di gran livello, dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
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Michele Gamba (subentrato al designato Harding) conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle opere precedenti.

L’orchestra è stata praticamente perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e drammatiche che caratterizzano la partitura.

E il Coro di Malazzi è stato se possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.

Di Anna Netrebko mi sento paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come quio qui).

La quale Liù è invece la casertana Rosa Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.

Yusif Eyvazov non ha cambiato (…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed espressività.

Più che discreto il Timur di Vitalij Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.

I tre piccoli porcellin alti funzionari statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.

Oneste le prove del Mandarino (Adriano Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati.)

Haiyang Guo è il tenore che ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma; dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio l’impervio ostacolo!
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In definitiva: una proposta accolta trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte – ça va sans dire – per la divina Anna. Da non perdere!
   

04 maggio, 2023

Il ritorno di Chénier alla Scala

Dopo il fortunato SantAmbrogio del 2017 ecco tornare alla Scala l’Andrea Chénier, con Kapellmeister e cast quasi completamente rinnovati. A parte il team registico (di Mario Martone) e ovviamente l’Orchestra e il Coro della Scala, gli unici due superstiti di quella produzione sono il signor Netrebko e l’Incredibile Carlo Bosi. Cui però si è aggiunto, ieri alla prima, Luca Salsi, arrivato in fretta e furia a provvidenzialmente sostituire l’Ambrogione Maestri.

Rimando quindi per le mie impressioni sulla regìa – sostanzialmente positive, che questa ripresa non fa in nulla mutare - a quanto da me scritto in quell’ormai lontano 14 dicembre 2017; qui invece una mia succinta esegesi dell’opera.

Pubblico non debordante (non escluderei anche qualche fuga all’intervallo…) e con atteggiamento dal tiepido al caldo, non di più: accoglienza finale direi nella media delle durate (10 min al massimo) e consensi distribuiti un po’ a tutti (a Yoncheva anche una modesta contestazione).

Personalmente, detto che Salsi evidentemente ha tenuto in cuore questo Gérard del ’17, quindi merita il massimo (al Nemico il Piermarini è esploso…), benino (non per tutti) la Yoncheva, che non è ancora (ma le auguro di arrivarci) la Netrebko. Il cui maritino mi pare migliorato nella linea della… vita (lo ricordavo ben più pasciuto, ecco) mentre in quella del canto starei un filino più cauto (discorso a parte il timbro della sua voce che non mi è mai piaciuto… de gustibus). Ottima la Zilio, una Madelon strappalacrime e strappa… applausi, oltre la semplice sufficienza gli altri.

Armiliato? Senza infamia, ma anche con scarsa lode, direi: una prestazione non più che onesta, la sua, dovuta più che altro alla buona forma dell’orchestra. Sicura come sempre la prova del coro, che non ha ostacoli insormontabili da superare.

Insomma: dopo la non stratosferica Lucia, una ri-proposta che non ha dato (a mio modesto giudizio) il classico colpo-di-reni… ci penserà forse il bel tenebroso Jonas???

05 marzo, 2022

Adriana Lecouvreur (Putin-free) alla Scala


Ieri sera prima rappresentazione alla Scala dell‘Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, co-prodotta (con Vienna, Parigi, Barcellona e San Francisco) dalla ROH nell’ormai lontano 2010.
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(aperta parente...
Ovviamente la vigilia è stata vissuta, più che sul piano strettamente artistico, su quello politico, con il gran rifiuto della diva Anna Netrebko, seguito all’ostracismo deciso dal Teatro contro Valery Gergiev, reo di mancata abiura anti-putiniana. Invece il signor Netrebko (al secolo l’azero Yusif Eyvazov) oltre al green-pass si è potuto procurare anche il necessario war-pass e così è potuto tornare a calcare il tavolato del Piermarini.

Mi permetto qui di segnalare, a proposito della questione che oggi si discute spesso con approccio da bar-sport, un bell’intervento di un musicofilo italiano che mi sento di condividere ampiamente. Aggiungendo anche una domanda: ma tale Sala, oggi Presidente del CdA della Fondazione del Teatro, colui che ha istituito il war-pass anti-Putin, non è per caso lo stesso Sala che nel 2009 faceva il City-Manager nella Giunta della zia Letizia, fedelissima di quell’altro tale che per anni e anni - dopo la carneficina di Grozny e l’assassinio di giornalisti e oppositori - ha continuato a sostenere essere Putin il più grande statista difensore della libertà e della pace?
...chiusa parente)
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Come si evince chiaramente dalla registrazione del 2010, questo di David McVicar è un allestimento di grande pregio, di quelli che si etichettano oggi come tradizionali, spesso con sufficienza e magari con sarcasmo. Perchè tutto è precisamente come prevede (e prescrive) il testo di Arturo Colautti, ricchissimo di minuziose didascalie: dall’ambientazione (siamo proprio - clamoroso! - nel 1730 e non nel 1980, i costumi sono settecenteschi e non cappottoni DDR, gli spazi sono quelli di teatri e saloni della nobiltà dell’epoca e non di pacchiani salotti da borghesia cafona e velleitaria); e soprattutto alla recitazione dei personaggi, curata nei minimi dettagli come da libretto.

Giampaolo Bisanti ha fatto il suo esordio in Scala e l’accoglienza del pubblico gli è stata più che favorevole, direi quasi trionfale: il suo gesto è magari eccessivamente enfatico, ma mai gigionesco, e soprattutto il Direttore del Petruzzelli ha saputo dosare sempre le dinamiche, passando con efficacia dai lunghi momenti di intimità e introversione agli scoppi improvvisi che costellano la partitura. Partitura che l’Orchestra ha nobilitato, rispondendo sempre da par suo alle sollecitazioni di Bisanti.    

Il Coro di Alberto Malazzi ha come sempre dato il suo determinante contributo al successo della serata, meritandosi lunghi applausi alla fine della sua prestazione, prima di lasciare la scena al drammatico atto conclusivo.

Apprezzabili anche le coreografie del terz’atto (uno scorcio che rischia sempre di abbassare la tensione a livello di drama) che McVicar impiega sapientemente per portarci verso la scena-madre dell’invettiva di Adriana.

Adriana che è la rediviva in Scala Maria Agresta, protagonista di una prestazione in continuo crescendo, dopo un attacco non proprio impeccabile all’esordio dell’umile ancella. Sarebbe stucchevole e ingiusto fare qui illazioni su ciò che la diva Anna avrebbe potuto aggiungere; diamo invece alla bravissima Maria ciò che si merita, avendoci proposto - musicalmente e scenicamente - un’Adriana commovente e convincente.  

Yusif Eyvazov, già un più che discreto Chénier anni orsono, è stato ieri sera un buon Maurizio, il che testimonia del suo continuo impegno a migliorarsi, liberandosi dall’ombra fastidiosa (artisticamente parlando) legata al suo rapporto con la Netrebko. Se posso permettermi un confronto con il Kaufmann del 2010 (vedi citata registrazione della ROH) direi che non lo perde sicuramente.

La principessa di Anita Rachvelishvili esce con luci ed ombre: il suo vocione non sempre si attaglia perfettamente al personaggio, una donna gelosa e vendicativa sì, ma anche innamorata e debole (vedi second’atto). Difficile spiegarsi perchè non sia tornata alla fine a salutare il pubblico (che credo proprio l’avrebbe comunque applaudita).

Delle prime rappresentazioni del 2010 c’è un unico superstite: Alessandro Corbelli. Che si merita il plauso che il pubblico gli ha tributato per una prestazione di tutto rilievo: voce corposa e passante, recitazione impeccabile, insomma un Michonnet impagabile.

Come perfetto è stato Carlo Bosi nella parte semiseria dell’Abate, nella quale ha messo tutto il mestiere di una lunghissima carriera.      

Il Principe di Alessandro Spina e il Poisson di Francesco Puttari, insieme a Caterina Sala, Svetlina Stoyanova, Costantino Finucci e Paolo Nevi, completano un cast di buona levatura complessiva.

In conclusione: ancora una proposta scaligera da apprezzare, a dimostrazione che allestimenti ben curati possono sopravvivere nel tempo, se alimentati da nuova linfa a livello di interpreti. 

14 dicembre, 2017

Chénier in corpore vili


Ieri sera terzo appuntamento per l’opera che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente affollato.

Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio: Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano, senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di sostanza.

Anna Netrebko ha sciorinato la sua voce nobile e ciò è bastato a fare di lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa parte)!

Il maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.  

Luca Salsi è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.

Chi invece è credibile sotto ogni punto di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere di più?

Nei panni della Bersi Annalisa Stroppa (al suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente in classifica... Altrettanto valido Gabriele Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante Contessa, e la giovane Judit Kutasi si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia sufficienza, ecco.

Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.

L’attenzione con la quale Martone ha predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente) trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale, mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.

L’Abatino, quando nel primo quadro ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe, secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa: dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).

Altro esempio riguarda un particolare del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale); peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard. Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.

In altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro, nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto, ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di questo Scarpia-ante-litteram ai danni di Maddalena.

Non mancano anche trovate di carattere volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.

Ma a parte queste piccole curiosità, tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny, piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con appropriatezza e totale aderenza al libretto.

Insomma, una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo. 

07 dicembre, 2017

Chénier in TV


RAI1 ogni tanto ne combina una giusta, a livello di programmazione, e anche quest’anno ci ha permesso di godere la prima di SantAmbrogio senza dover chiedere prestiti in banca per potervi assistere dal vivo. Sulla qualità delle riprese (audio e video) mi pare che qualcosa sia migliorato rispetto al passato (sui conduttori un po’ meno...)

Detto ciò – e rimandando all’audizione dal vivo i giudizi su cantanti e suonatori – è possibile commentare per ora la messinscena che (pur con il filtro della regìa televisiva) penso si possa valutare anche senza andare materialmente a teatro.

Partiamo da un fatto abbastanza scontato: un soggetto come questo, per mille ragioni, è praticamente impossibile da ri-ambientare (o ri-concettualizzare) sia a livello spazio-temporale, che a livello di relazioni fra i personaggi. Sostituire a Chénier ghigliottinato dal terrore di Roberspierre, per dire, un Mejerchol'd fucilato dal terrore di Stalin (solo perchè a noi un po’ più vicino) farebbe semplicemente ridere. Così come trasformare la lotta politica fra giacobini e girondini in una guerra fra moderne cosche mafioso-camorristiche (corleonesi vs casalesi). O anche ambientare il classico triangolo amoroso in un paesino siciliano, scimmiottando la Cavalleria...

E quindi il buon Martone – che con i suoi Oberto e Beffe scaligeri si era preso libertà per me eccessive - ha dovuto fare buon viso e restare allo scenario originale, cosa che di per sè farà magari venire l’orticaria a qualcuno che non può soffrire i musei, ma peggio per quel qualcuno. A me l’allestimento – che ha fatto tesoro delle minuziose ed efficacissime didascalide di Illica - non è per nulla spiaciuto e vi ho ritrovato tutto ciò che ci si può aspettare precisamente leggendo il libretto. Ed anche sbirciando la partitura – qui faccio una piccola invasione nel campo musicale – che Chailly ha presentato proprio come Giordano la pensò e la fece pubblicare, cioè come un continuo flusso sonoro (tipo Wagner, per intenderci) e senza soluzioni di continuità. In ciò assecondato dalle scene girevoli della Palli, che consentono rapidi mutamenti di quadro. Ben fatti i costumi (di ricchi&poveri) ideati dalla Patzak così come assai efficace l’impiego delle luci da parte di Mari. Anche il Corpo di Ballo della Schiavone ha avuto modo di distinguersi nella scenetta delle Pastorelle.

I tre protagonisti hanno mostrato diverse qualità, diciamo così, attoriali: Salsi è stato decisamente quello che (mi) ha convinto di più, anche perchè il suo è un ruolo così poliedrico e sanguigno (veramente... verista) che di per sè si presta (se il cantante non è proprio una cariatide) a grandi effetti scenici e drammatici. Eyvazov ha un fisico da armadio (il futuro è da Pavarotti, a parte la voce...) che non pare proprio il più confacente  a quello dello smilzo poeta francese, e per di più – per non correre troppi rischi sul piano musicale – canta quasi sempre volgendo lo sguardo al Direttore, con grave danno alla scioltezza di movimenti e di espressioni. Ma peggio ha fatto la signora Eyvazov (haha!!) che ha proprio cantato come una bambolotta (dal faccione purtroppo gonfiatosi pericolosamente in questi ultimi tempi) piuttosto rigida e quasi priva di reazioni proprie.

Più sciolti gli altri comprimari, dei quali citerò la Stroppa, Sagona e Bosi per tutti. Ben guidati dal regista i movimenti delle masse, esemplare al proposito la scena del processo.


Per ora è quanto basta, in attesa di mettere il dito.