Ieri sera terzo appuntamento per l’opera
che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente
affollato.
Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me
merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio:
Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa
musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera
adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano,
senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un
capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo
figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di
continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che
Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera
natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi
a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di
sostanza.
Anna Netrebko ha sciorinato la sua
voce nobile e ciò è bastato a fare di
lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla
qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e
tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa
parte)!
Il
maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza
acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in
quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato
ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e
Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di
uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di
certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.
Luca
Salsi
è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei
francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo
fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e
sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.
Chi invece è credibile sotto ogni punto
di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi
infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi
alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre
squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere
di più?
Nei
panni della Bersi Annalisa Stroppa (al
suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in
evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da
servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della
Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente
circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente
in classifica... Altrettanto valido Gabriele
Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità
ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un
convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante
Contessa, e la giovane Judit Kutasi
si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime
Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco
Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del
sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia
sufficienza, ecco.
Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della
componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui
in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente
espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva
impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di
altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti
dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha
impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha
contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.
L’attenzione con la quale Martone ha
predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente)
trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale,
mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato
con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.
L’Abatino, quando nel primo quadro
ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe,
secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa:
dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente
il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa
del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più
banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di
caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).
Altro esempio riguarda un particolare
del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard
promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che
consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale);
peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi
lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo
scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard.
Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la
soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto
in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di
accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.
In
altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente
intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro,
nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto,
ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli
da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però
con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di
questo Scarpia-ante-litteram ai danni
di Maddalena.
Non mancano anche trovate di carattere
volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro
Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat
e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa
il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la
polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.
Ma a parte queste piccole curiosità,
tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny,
piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o
drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con
appropriatezza e totale aderenza al libretto.
Insomma,
una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale
è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati
per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo.
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