La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata
ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I.
Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito
al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di
platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria
contestatrice.
Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e
abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto
i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di
teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già
alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva
cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena
dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe,
ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma
erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e
rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le
contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che
lei ha fatto, a dir il vero.
Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di
applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di
grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture
all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua
rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio
di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla
platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio
del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le
sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente
conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere
stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema
regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva,
parlando sostanzialmente di eccesso nel
voler strafare da parte di Michieletto.
Il peccato originale della sua
impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto
ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In
effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo
l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto
di Berlioz(Goethe) che si allontana
manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura
speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna
anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di
un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di
tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di
attaccamento morboso alla cultura e
non un passato di disgrazie familiari
(il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista
di sana pianta!
Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di
Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non
maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie
che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da
quanto si legge nel Capitolo 40, titolato
Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo
sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma
addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta
di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André
(suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò
un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo
(di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue
orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV
dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli
provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso
Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del
romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la
gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a
terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine
(!)
Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che
sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche
di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad
un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe
sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto;
l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta,
per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione
viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo
petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si
surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali.
Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un
desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti
godimenti. Solo dopo arriva lo spleen,
che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica;
l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza
verso l’intero universo (Quadri I e II...)
Ora, dal passo
citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una
straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di
Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera
vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per
ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso)
arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie
interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero
Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert
Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla
Marcia ungherese che Berlioz impiega
per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla
vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero
austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata
con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di
infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua
freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva
essere in Francia la Marsigliese!)
Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori
(per le accuse di lesa-maestà) della
vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in
delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e
alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe
nazionale!
E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel
Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!
Michieletto?
Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da
parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come
non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona
marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande
schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato
rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto
originale, pure interpretato in modo... originale!
Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione
al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la
ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel
Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del
suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.
Non mancano
anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e
Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di
congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione
del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso
Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare
miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi
a scambiarsi un estatico bacio.
Ma a proposito
di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista:
il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès,
puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay.
E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera
Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom)
infilati un po’ a caso.
Strampalate (anche
se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano
altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in
scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo
essere l’indossatore della pelle di topone
(no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro
efficacemente presentata, tipo-sanremo).
E poi il
mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre
di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i
piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari –
quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che
invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per
salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla
bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz,
l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la
frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui
(ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una
spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo
contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione
in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non
dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la
ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)
Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei
di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre
ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto
i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.
Quanto alle voci, rispetto all’ascolto
radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il
microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi
irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a
sufficiente+ la Veronica Simeoni (con
il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran
Jurić)
e a sufficiente- Pavel Černoch.
Per tutti, comunque (team registico
escluso, poichè non-pervenuto sul
palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente
affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.
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