Dopo le recite di Ravenna e prima
di quelle di Ferrara, ecco la ripresa al Teatro
Valli del Rinaldo in una
produzione firmata PierLuigi Pizzi.
Figlia di quella che proprio al Valli riportò l’opera in Italia nel 1985, e poi
presentata anche alla Scala-Arcimboldi
nel 2005. E come là, è sempre Ottavio Dantone a dirigere questo classico
esemplare di opera del barocco magico, ma qui con la sua Accademia Bizantina. Opera che lo scorso dicembre avevamo ascoltato
– in forma concertante – eseguita da laVerdi barocca all’Auditorium di Largo Mahler.
Opera somma, figlia del recitar-cantando,
mamma del bel-canto e nonna di Wagner! Di cui la messinscena di Pizzi
ci restituisce tutta la freschezza, la nobiltà e la raffinatezza. Dove anche i
personaggi e le scene più truci sono trattati e presentati – precisamente nello
spirito dell’originale - con grande senso estetico, grande misura e soprattutto
grande poesia. Sappiamo che in queste opere la trama – per quanto paludata (da
Tasso, nella fattispecie) – non è che un mero supporto per musica e canto (si
racconta che i testi delle opere di Händel venissero scritti sulla musica già
composta, e non viceversa! e come il Rinaldo in particolare sia infarcito di imprestiti da altre composizioni) e
quindi è sacrosanto che siano musica e canto ad essere messi al centro
dell’attenzione.
È proprio ciò che fa Pizzi con la sua messinscena: gli interpreti
addirittura non si muovono (meglio: vengono mossi come pedine su una scacchiera,
appollaiati su alti trespoli, o su giganteschi cavalli, o dentro a navicelle, quasi
a mostrarsi nella loro ieraticità immateriale) nè si toccano, ma si limitano,
appunto, a cantare le stupende arie
(i recitativi secchi sono ridotti al minimo in questo allestimento). Anche
tutto l’armamentario magico, che era
funzionale ai gusti e alle aspettative dell’epoca, non viene certo riproposto
oggi in modo pedestre (il che non avrebbe senso) ma con un misto di sorriso e
di garbata ironia e soprattutto con grande buon gusto.
Insomma, un modo intelligente e assolutamente moderno di presentare opere come questa, senza bisogno di
snaturarne i contenuti o di distrarre lo spettatore con invenzioni gratuite.
Non per nulla Pizzi è stato – con Dantone - il più osannato alla fine dello
spettacolo, che dopo 27 anni di onorata carriera ancora mostra di essere
pienamente vivo e vegeto (domanda tendenziosa: quanti degli allestimenti intelligenti dei registi di avanguardia
saranno ancora riproposti e osannati in questo modo nel 2039?)
Sul fronte musicale, i tagli e gli aggiustamenti ci sono, non sono pochi
né indolori (purtroppo!) ma l’approccio della coppia Pizzi-Dantone è tutto sommato simile a quello della coppia
originale Hill-Händel, che ad ogni
recita modificavano, tagliavano o aggiungevano qualcosa a seconda dello
scenario di interpreti, pubblico e teatro.
Sparisce così addirittura Eustazio,
che non sarebbe propriamente un personaggio minore, godendo di ben 5 arie (2+2+1
nei 3 Atti)! Però almeno una delle sue arie (Siam prossimi al porto) viene trasferita al fratello Goffredo, così non si butta e… rimane comunque
in famiglia (smile!) Per il resto, le
principali manipolazioni sono: espunte quattro arie del suddetto Eustazio, tre
di Goffredo, due di Rinaldo e una di Argante. Poi spostata dal primo al second’atto
Cara sposa (Rinaldo), anticipata Abbruggio, svampo e fremo (Rinaldo)
prima dell’aria di Almirena (Lascia, ch’io
pianga) e posticipato il duetto Armida-Argante del finale a dopo l’aria di
Almirena (Bel piacere e godere).
Così l’intera opera – suddivisa in due blocchi, atto I e poi II-III – non
supera di molto le due ore di durata netta, contro le almeno 2h 45’ di un’edizione
standard. Peccato perché si perde davvero della grande musica…
Quanto al sesso, gli interpreti - in penuria di castrati (smile!) - sono quasi tutti al loro
posto, tranne il Rinaldo en-travesti
e il Goffredo, en-travesti al
quadrato(!)
Proprio all’ultimo momento viene meno il-la protagonista: Marina De Liso
deve dare forfait e viene sostituita da Delphine
Galou. La quale fa evidentemente del suo meglio, date le circostanze, ma
certo non può inventarsi una voce che non ha (parlo soprattutto dell’ottava bassa,
poco udibile anche dalle prime file). Per lei applausi di stima per l’abnegazione.
L’Armida di Roberta Invernizzi ha
mostrato più le doti di temperamento da vera maga, che quelle canore (smile!) dove ha invece lasciato a
desiderare con urlacchiate poco… händeliane. Bene invece Maria Grazia Schiavo nei panni di Almirena. Su un livello (per me) più
che accettabile Krystian Adam
(Goffredo), Riccardo Novaro (Argante)
e Antonio Vincenzo Serra (Mago). Completano
dignitosamente il cast William Corrò (Araldo) e Lavinia Bini (Donna e Sirena in un colpo
solo!)
Di alto livello la prestazione dell’ensemble
di Dantone, composto da autentici virtuosi e guidato in modo impeccabile dal
Direttore.
Encomiabili infine le prove dei non-addetti-al-canto:
le furie-sirene Cristina di Paolo e Adriana Ilardi e la squadra di
bravissimi movimentatori dei trespoli
che reggono protagonisti e mostri assortiti.