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04 aprile, 2009

Se Bardi l’avesse previsto...

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Il Corriere della Grisi riporta in primo piano l’ormai annoso problema delle regìe di opera, pubblicando un decalogo di regole di comportamento cui i registi - e i loro datori di lavoro, sovrintendenti e direttori di teatri - dovrebbero attenersi, allo scopo di limitare, da un lato, il fenomeno della sistematica distorsione della natura delle opere, e dall’altro di calmierare i costi di allestimenti che coniugano la scelleratezza artistica con un ormai insostenibile sperpero di risorse del contribuente.

Di certo v’è da chiedersi se Giovanni Bardi avrebbe deciso lo stesso di fondare la sua Camerata, se avesse previsto che fine avrebbe fatto l’opera lirica, anzi il dramma per musica da lui così fermamente voluto, a 500 anni di distanza.

Perchè - purtroppo - ciò che Bardi inventò è una cosa talmente speciale e unica al mondo che - unica, appunto, fra tutte le arti - si presta alle più stampalate (o anche serie a volte) manipolazioni, adulterazioni, ai più grotteschi o cervellotici stravolgimenti fra ciò che l’Artista autore aveva ideato e scritto sulla carta e ciò che un tizio, chiamato regista, si arroga il diritto di mettere in scena. Colui che dovrebbe essere il servo di quell’opera e quindi della volontà del suo Autore, è oggi assurto al ruolo di libero ricreatore dell’opera originale. E spesso e volentieri si tratta di ricreazioni che andrebbero gratificate mettendo il ricreatore a ricrearsi nell’ora d’aria di un carcere. Invece sono ricompensate con cachet milionari.

Tanto per fare un esempio, ve lo immaginate un regista che ambientasse l’Enrico IV ai giorni nostri, calando il Re d’Inghilterra, che so, nei panni del George W. Bush che si appresta a far guerra all’Iraq, dopo aver messo a ferro e fuoco l’Afghanistan? Sentite come esordirebbe il 43:

Scossi ancor come siamo
e spalliditi dai recenti affanni,
non concediamo tuttavia respiro
a questa nostra spaurita pace
e, con voce pur rotta dall’affanno,
ritorniamo a parlar dell’altra guerra
da portare su più lontani lidi.

Una gran farsa, diciamolo pure, nulla più. E infatti nessuno ha avuto - per ora almeno - il coraggio di proporre una simile stupidaggine.

Invece un Bieito qualunque può impunemente rappresentare il Ratto ambientandolo in un postribolo, con sesso orale esplicito... tanto c’è la musica di Mozart che lo salva, e il pubblico medio poco bada alla “trama”, addirittura alle parole e al fatto che il regista abbia stravolto la prima e manipolato le seconde. Perchè se la performance musicale è di livello, si passa sopra anche alle più bieche idiozie del regista, anzi quasi le si apprezza perchè allora sembrano dare un tocco di vita e di novità ad oggetti che altrimenti apparirebbero, appunto, come ammuffiti in un museo (oh, che barba, rivedere la Gioconda di Leonardo per la ventesima volta; godiamoci quella baffuta di Duchamp, che è più moderna!) Sembra poi un paradosso, ma quanto più le regìe sono strampalate ed arbitrarie, tanto più necessitano di un’esecuzione musicale (canto e orchestra) di primissimo ordine, poichè il pubblico in fin dei conti è andato lì principalmente per ascoltare la musica e apprezzare il canto, non perchè attirato dalla profondità dei testi o dalla plausibilità della trama (manco per Wagner... che è tutto dire).

Sul fronte più serio, i Carsen e gli Herheim, come i loro maestri-brechtiani-DDR-impastranati alla Götz Friedrich, mettono in scena spettacoli che sono - in se stessi - delle opere d’arte ma, appunto, sono il Parsifal di Herheim (non di Wagner) o l’Alcina di Carsen (non di Händel).

Oggi si arriva ormai (Carsen docet, proprio con Alcina) a far forza alla musica, con tagli anche sostanziali precisamente funzionali allo stravolgimento che il regista ha fatto del soggetto. Domani, per le stesse ragioni (modernità, appeal verso il pubblico, innovazione) si arriverà anche ad intervenire sui righi, sull’orchestrazione, e così via.

A ben pensarci, ne può uscire un business enorme: basta immaginare quante versioni diverse, una più interessante dell’altra, si potrebbero scrivere del Fidelio, del Lohengrin, dell’Otello!
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14 marzo, 2009

Alcina (selon Carsen) alla Scala.


Su Händel se ne leggono davvero di bizzarre... ci dev’essere qualche baricca anche in Albione (nessuna meraviglia, per carità). Ma il genio non viene stabilito per voto democratico, nè tantomeno per blog-parere e ormai Händel non lo può più seppellire alcuno. Alcina è poi una di quelle opere - chiedo scusa a Giovanni Bardi: dramma per musica - che solo una mente bacata potrebbe dileggiare: peggio per lei.

Per la verità l’Alcina che si rappresenta in Scala (ripresa, con qualche aggiustamento e ulteriore taglio, dall’edizione parigina di 10 anni fa) non è propriamente l’originale di Händel, ma una libera rivisitazione di Robert Carsen, che ha applicato anche qui nel modo più classico il processo tipico del Regietheater: si studia il soggetto originale, se ne deriva una propria libera interpretazione (il Konzept) e ci si costruisce un nuovo soggetto e tutta l’opera intorno. Laddove l’originale ha parti - anche musicali! - che non collimano con il nuovo Konzept, nessun problema: si cambia l’originale, anche radicalmente, per farlo aderire alla geniale idea del regista. Il risultato può magari essere - come nel caso in questione - un’opera d’arte... peccato che è altro da ciò che l’Autore aveva immaginato e scritto. Pazienza. O così, o... così. Nella fattispecie, l’Alcina di Händel, una barocca Zauberoper (dramma magico) a lieto fine, nelle mani di Carsen diventa uno spaccato psico-sociologico della moderna società borghese, con i relativi complessi e individui complessati. Anche scene e costumi, per conseguenza, si adattano: nessuna macchina straordinaria per mostrarci i miracoli, conseguenti alle diverse magìe, ma ambienti minimalisti, funzionali al simbolismo che caratterizza la vision del regista. A parte qualche caduta di stile, artisticamente di alto livello.

Comincio dai dettagli futili e tragicomici: ieri proprio all’inizio mi è parso di essere capitato ad una porno-kermesse, tanta era la gente nuda o mezza-nuda presente in palcoscenico. Io poi, in prima fila di loggione e armato del mio binocolo da marina, ho fatto due figure grame in un sol colpo: quella del voyeur ed insieme quella del checca, datosi che i nudisti erano esclusivamente di sesso (um) ...forte. Sia chiaro: da me non uscirà un sol verbo di condanna moraleggiante di questa gratuita trovata kitsch (in gergo: pagliacciata) del genio Carsen. Il fatto è che al peggio non c’è limite, e purtroppo essendoci in giro di peggio... chiediamo che la pratica sia insabbiata, vostro onore, e non se parli più. Salvo ricordare che nell’Alcina il nudo effettivamente c’è, ma espresso con somma poesia e pudicizia, in un unico verso, recitato all’inizio (Scena IV) da Ruggiero: “Servo ad Amor, che va senz’arme, e nudo.” Inutile dire che i nudi di Carsen (che tornano ripetutamente) non aggiungono un grammo di poesia, non dico di nobiltà, a quel verso, anzi trivializzano questo e le scene in cui sono presentati.

Peccato perchè, nel bene e nel male, Carsen è un genio per davvero - come Herheim, Konwitschny, Chéreau ed altri Regisseur - e non si capisce perchè debba talvolta abbassarsi al livello di un Bieito qualunque, invece di limitarsi a stravolgere “artisticamente” il soggetto: peggio per lui.

Quanto al suo Konzept, comporta cosette da nulla, come il totale sovvertimento della natura stessa di alcuni personaggi (massimamente Morgana e Oronte) e lo stravolgimento del libretto (con conseguenti tagli alla parte musicale) quando per l’appunto esso non “quadra” con il Konzept. Vediamo.

Intanto - già si nota dalla locandina, e non c’entra nulla con i tagli del FUS - manca del tutto un personaggio: Oberto (c’era, ma già castrato, nell’allestimento di Parigi). Quindi mancano anche le sue arie, tre perle di cui Carsen ci priva proditoriamente: “Chi m’insegna” nell’Atto I, “Tra speme e timore” nell’Atto II e “Barbara!” che si perde, compreso il Coro “Sin per le vie del sole”, insieme all’intera Scena VI dell’Atto III. Perchè Oberto stride con il suo Konzept! Carsen si fa un baffo della magìa (e delle maghe)! Händel ha scritto nientemeno che 5 opere (Bardi, scusami ancora: drammi per musica) su soggetti che implicano o richiamano la magìa? Chi se ne frega, io sono Carsen e per me la magìa è roba da baricchi, no scusate, da barocchi, siamo nel terzo millennio o no?

Quindi Morgana non è una maga, sorella della maga nonchè regina Alcina, anche lei signora degli uomini e dell’amore, no no: è una servetta di albergo che la dà via al primo che passa, come è tipico della nostra malata società, nicht wahr?

Oronte è (selon Carsen) un maggiordomo - e non il capo degli armigeri della regina - una vera macchietta, tipico complessato, che fa a volte l’untuoso, a volte la spia, secondo convenienza; si capisce bene perchè venga del tutto espunta la Scena VIII dell’atto conclusivo, laddove Ruggiero gli dovrebbe rendere la spada (ma come, la spada al maggiordomo?)

La scena di Melisso e Ruggiero all’inizio dell’Atto II (come concepita da Carsen) sarà pure geniale - niun lo nega - ma stravolge del tutto l’originale magico di Händel: secondo cui Melisso (sotto le spoglie di Atlante, altro magico particolare espunto da Carsen) porge a Ruggiero l’anello magico di Angelica, il che provoca il dissolvimento istantaneo della fastosa sala in cui si trovano, trasformata in landa desolata. È la magìa di Alcina che viene neutralizzata da altra magìa, facendo capire a Ruggiero di essere stato vittima di un sortilegio (baroccheria sopraffina). Invece il sociologo Carsen ci deve spiegare artisticamente che la magìa non esiste, ma solo il tradimento sessuale della ninfomane Alcina, mostrata a Ruggiero in una foursome orgy che apre il cervello al nostro ingenuo giovine, ma a noi spettatori mostra un’Alcina schiava del sesso, qui in totale contrasto con la complessa personalità della regina, peraltro ben rappresentata in tutto il resto dell’opera. (D’altronde anni fa abbiamo mandato Cicciolina a Montecitorio...)

L’ultima scena dell’Atto II (quello di Händel, si capisce) è ancora pervasa di magìa: Alcina cerca invano di evocare gli spiriti dell’Acheronte, perchè la difendano dal rinsavito Ruggiero; e solo quando getta la bacchetta magica, andandosene via, essi compaiono e si mettono a ballare, disturbando i suoi sogni. Carsen? Nulla di tutto ciò, anzi tutt’altro: Alcina che si aggira in mezzo ai corpi immobili (molti nudi, ovviamente) dei suoi ex-amanti! Suggestivo, nessun dubbio, ma cosa c’entri con l’originale lo sa solo Carsen.

La magìa - chiaro ormai - scompare del tutto anche nel finale, dove Alcina viene fisicamente ammazzata (o forse si suicida - à la Tristan - buttandosi sulla lama brandita da Ruggiero) e i suoi ex-amanti, molti nudi, al solito, si risvegliano per farle il funerale, depositandola su un letto. Lì dove, nell’originale, dovrebbe esserci lo scrigno delle magìe. A proposito, quello scrigno può essere benissimo immaginato come la rappresentazione del femminino (dell’utero, se proprio si vuol andar giù piatti) la cui profanazione fa cadere tutto l’incantesimo. Carsen invece va proprio al sodo-sodo, e ci mette direttamente il letto, dove noi comuni mortali facciamo le nostre per nulla magiche porcherie.

Adesso si deve chiudere: come? Con Händel? No di sicuro. Infatti, insieme ai balli (Bondi ha già tagliato il famoso corpo scaligero, per caso?) anche il finale - c’era da dubitarne? - viene brutalmente e puramente espunto (incluso il coro “Dopo tante amare pene” dove Casoni avrebbe fatto cose strabilianti) poichè unfitting con il Konzept del genio canadese, che ci mostra invece Bradamante e Ruggiero che - neanche mezz’ora dopo essersi felicemente ricongiunti - già separano le loro strade, andandosene via in direzioni quasi opposte, sul mesto accordo di SOL minore. Ovvio, noi gente scafata del terzo millennio mica vorremo credere ancora ad un lieto fine, in SOL maggiore, vero?

Carsen ha anche geniali intuizioni, come la giacca di Ruggiero, accarezzata prima da Bradamante (sull’aria di Melisso “Pensa a chi geme”) e poi da Alcina (sull’aria “Mi restano le lagrime”) a rimarcare un parallelo fra la donna (Bradamante) e la maga, finalmente ridotta a donna (Alcina) accumunate dal dolore per l’amante perduto (sempre viste a letto, peraltro). In altre circostanze Carsen è un po’ deboluccio, come nella scena dei “Verdi prati” (fondale che avrebbe mandato in bestia uno come Appia) o nella prima scena dell’Atto III, con Morgana e Oronte (la servetta e il maggiordomo) che rifanno il letto e ci si coricano amoreggiando (nulla di tutto ciò in Händel, manco a dirlo).

Insomma. L’interpretazione di Carsen immagino sarà apprezzata da chi non sopporta che un’opera barocca venga rappresentata come tale, o da chi - altrove - pretende che il wagneriano Ring sia sempre ed obbligatoriamente calato in una qualche dimensione della realtà politica o sociale contemporanea. Viva la libertà di espressione!

Veniamo alla performance artistica. Riedizione del caso Don Carlo? Alla prima il finimondo, alla seconda applausi e urla di bravo! per (quasi) tutti. Non solo per il maestro Antonini, che sembra proprio vivere in simbiosi con questa celestiale musica (peccato che - colpa del Konzept di Carsen - se ne sia dovuta tenere una buona parte nella bacchetta!) ma anche per gli interpreti, la Harteros-Alcina in testa, ma anche la Petibon-Morgana, letteralmente fatta a pezzi martedi 10. Trionfo anche per Bacelli e Hammarström, benevoli applausi per i due maschi della compagnia.

Carsen non si è fatto vedere. Forse è ancora appeso all’acero cui lo hanno impiccato martedi e ha deciso di passarci - à la Odin - 9 giorni e 9 notti, in modo da trasformarsi da genio direttamente in dio. Peggio per lui, perchè ieri sera sono sicuro che il loggione, oltre alla platea, avrebbe applaudito anche lui...

Modesto consiglio: visto che ci sono ancora parecchi posti disponibili per le prossime recite... chi appena può dia una mano a rialzare il PIL. Saranno quattrini spesi bene.
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13 novembre, 2008

Bardi vs Fiamminghi



Non è un proclama antirazzista dell’antica Roma, ma la proposizione dell’enigma di un canone rinascimentale, sul modello fiammingo. Da interpretarsi come: "Il conseguente deve cantare le note nere come se fossero bianche."





È per risollevare l’arte della musica da questa ed altre stranezze fiamminghe che Giovanni Bardi fondò, nella seconda metà del ‘500, la Camerata.



















Il dramma per musica prese forma da lì, filiando poi tutti i diversi generi di produzione operistica, dal belcanto al Gesamtkunstwerk.