XIV

da prevosto a leone
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25 gennaio, 2024

Beatrice Venezi: cosa non va

Il maestro (così si legge sul decreto di nomina) Beatrice Venezi è salitoa alla ribalta dei teatri della cronaca da quando (17/11/22) è statoa nominatoa Consigliere per la Musica dal Ministro Sangiuliano. Come è logico e giusto, la sua collaborazione viene remunerata con € 30.000 (come certificato dal Ministero). 

Da allora lui lei ha fatto parlare di sé, più che per le sue imprese artistiche, per le contestazioni che ha ricevuto a sfondo politico (il pubblico, a Nizza) e professionale (alcuni professori d’orchestra, a Palermo). Lei ovviamente si difende, esibendo il suo corposo C.V., considerandole pretestuose e motivate solo da volgari pregiudizi ideologici (precisamente come quelli che – ricordate? – portarono all’ostracismo della Scala a Gergiev…)

Segnalo qui un intervento assai equilibrato e condivisibile, da parte di un esperto che (come me, che non sono esperto…) non ha ancora avuto il piacere (o dispiacere) estetico di ascoltare e vedere dal vivo la bella Beatrice.

Ma allora, cos’è che non va? Beh, qualcosa su cui in Italia da sempre si tende a transigere e in futuro poi (con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio) nemmeno più si indagherà. 

Si chiama: conflitto di interessi. 


02 settembre, 2023

Lettura estiva: Ross su Wagner

Per un wagnerite che si rispetti è quasi un dovere ineludibile leggere l’immenso tomo (900 pagine, escluse note varie!) del grande Alex Ross. Così mi son messo di buzzo buono all’impresa, in attesa di tornare all’attualità con la ripresa delle stagioni musicali (la Scala e laVerdi, in particolare).

Il testo è articolato in 15 macro-capitoli (quasi delle monografie, verosimilmente rielaborazioni di articoli scritti negli anni da Ross per il NewYorker, il che comporta qualche problema – vedi ripetizioni - riguardo l’organicità del contenuto) più un Preludio e un Postludio. Come suggerisce il titolo, non solo e non tanto si tratta di Wagner come fanno la maggior parte dei lavori che ormai da un secolo e mezzo si sono occupati del fenomeno più straordinario che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra civiltà musicale (certo, troviamo dispersi nel libro riferimenti biografici e commenti o esegesi di opere e drammi) ma si esplorano alcune delle principali problematiche sollevate dalla figura del compositore e i riflessi che le sue opere (ma anche i suoi scritti filosoficihanno avuto sulla nostra società, e non solamente nell’ambito strettamente artistico. 

Preludio. La morte a Venezia.

Contiene una minuziosa raccolta delle più svariate reazioni seguite nel mondo alla notizia della scomparsa del tanto famoso e idolatrato quanto contestato compositore.

1. Rheingold. Wagner, Nietzsche e il Ring.

Sommaria esegesi del Ring, delle sue implicazioni filosofiche (Feuerbach > Schopenhauer) e del processo che portò alla costruzione del Festspielhaus a Bayreuth; intersecata con una dettagliata analisi degli sviluppi del rapporto fra il filosofo-discepolo e il musicista: dall’adorazione/adesione alla conflittualità/distacco (e riconciliazione post-mortem?)   

2. L’accordo del Tristan. Baudelaire e i simbolisti.  

A dispetto del titolo, ma coerentemente con il sottotitolo, il capitolo tratta diffusamente dei rapporti di amore-odio tra Wagner e la cultura francese in generale. A partire dal piano musicale, ovviamente, con ampi squarci sulla disastrosa esperienza del Tannhäuser (1861). Baudelaire vi ha un posto privilegiato, così come Mallarmé, ma largo spazio è dedicato al semi-sconosciuto Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, Comte de Villiers de l’Isle-Adam (!) E poi ai veri e propri pellegrinaggi, prima a Tribschen e poi a Bayreuth, di letterati francesi letteralmente fradici (Stabreim!) di wagnerismo! Ma un posto di rilievo occupa poi la pittura francese, in specie l’impressionismo: Cézanne, Monet, Gauguin, Manet, ma anche il parigino-di-passaggio VanGogh! Infine, la Révue wagnérienne e il simbolismo.   

3. Il cavaliere del cigno. L’Inghilterra vittoriana e l’America della Gilded Age.  

Dopo la Francia, che per Wagner ebbe amore (di pochi intellettuali) e odio dall’establishment, ecco l’Inghilterra, terreno di conquista di Wagner, gratificato nientemeno che da incontri del compositore con la Regina Vittoria. Pretesto per il titolo del capitolo è la cosiddetta Marcia nuziale dal Lohengrin, che divenne ben presto lo standard da suonare ai matrimoni reali britannici e poi anche a quelli (persino in America) di gente pretenziosa o altolocata. Ampio spazio viene dato ai rapporti fra la scrittrice George Eliot e il mondo dell’estetica wagneriana, vicina per certi aspetti a quella dei preraffaelliti d’Oltremanica. E dotte divagazioni riguardano lo scrittore-poeta Algernon Charles Swinburne, che modellò su Tannhäuser la sua (scandalosa) Laus Veneris; e William Morris, studioso dei miti norreni e quindi vicino al mondo del Ring, avendo scritto un poema epico su Sigurd(=Siegfried); e infine Matthew Arnold, autore di un poema su Tristano e Isotta. Da buon americano ben informato, Alex Ross si dilunga infine in una corposa analisi dell’esplosione del wagnerismo negli USA. Esplosione spiegabile con ragioni di business (ça va sans dire) oltre che di gusto e di propensione yankee per l’avventura, la grandiosità, il liberismo sfrenato e selvaggio (Siegfried!) E i vaneggiamenti di Wagner su un suo possibile trasferimento in USA (Minnesota, considerato alla stregua di un Eden!) non facevano che alimentare l’interesse per le opere del genio di Lipsia. La parte finale del capitolo è dedicata alla Gilded Age (l’Età dell’oro, gli ultimi 30 anni dell’800) e ad autori come Mark Twain, piuttosto sarcastici sull’idolatria per Wagner, ma alla fine conquistati dalla sua musica.

4. Il Tempio del Graal. Il Wagner esoterico, decadente, satanico.

Questo capitolo, dopo una sommaria esegesi dell’ultimo dramma wagneriano che ne mette in evidenza i (supposti) aspetti di natura esoterica, è dedicato all’influenza che esso (Parsifal, ma non solo… vedi Tristan) ebbe sull’ambiente artistico fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Ross premette che tale influenza fu determinata fondamentalmente dal diffondersi – a dispetto delle intenzioni di Wagner ed equivocando sull’interesse di quest’ultimo per filosofie e tradizioni orientali - della gratuita e banalizzante definizione di Parsifal come di una messa nera. È questa fasulla definizione che ha portato artisti di diversi orientamenti ad impiegare Parsifal (e Tristan) come materia prima nelle loro opere imbevute di esoterismo, spiritismo. occultismo, satanismo, etc. Seguono alcuni esempi, presentati sempre con gran dovizia di particolari. Altre due sezioni del capitolo sono riservate ai rapporti fra (le opere di) Wagner e la teosofia, e all’influenza di Wagner sugli irlandesi, difensori delle tradizioni celtiche, che individuavano nel Tristan.

5. Sacra arte tedesca. Il Kaiserreich e la Vienna fin de siècle.

La premessa del capitolo è – ovviamente – una concisa esegesi dei Meistersinger e degli effetti perversi (pur se indesiderati?) che lo sciovinista appello finale di Sachs ebbe molto più tardi sull’ambiente proto-nazista e sullo stesso Hitler. Si passa poi ad esaminare la complessa relazione fra Wagner e Re Ludwig di Baviera, relazione funzionale ad entrambi: al giovanissimo Re il mondo mito-fiabesco che alimentava le sue fantasie; a Wagner… illimitate risorse finanziarie! Ma non scevra da reciproche diffidenze ed incomprensioni: Wagner giudicava assurdo il progetto della costruzione di Neuschwanstein, il Re altrettanto pensava delle idee antisemite del compositore. Si passa poi ad esaminare gli effetti delle opere di Wagner nel periodo imperiale guglielmino (il Kaiserreich): effetti multiformi, che andavano dall’uso spregiudicato dell’arte wagneriana da parte dell’establishment, ai coloriti sbeffeggiamenti di buona parte degli intellettuali, come lo scrittore e romanziere Theodor Fontane. Seguono due sezioni del capitolo, dedicate all’ambiente di Monaco di Baviera, in prevalenza recalcitrante nei confronti di Wagner, e a quello di Vienna, dove invece Wagner acquistò ulteriore prestigio grazie anche alle innovazioni degli artisti della Secessione e di pittori-scenografi come Alfred Roller, oltre che di adepti musicisti, primo fra tutti Mahler. Si passa ora all’Italia, in una sezione tutta incentrata su D’Annunzio e sulle sue opere infarcite di riferimenti wagneriani (Tristan, soprattutto). Il capitolo non poteva chiudersi se non nel nome Mann: dei due fratelli, Heinrich e il minore Thomas. E di Thomas ovviamente viene analizzato il Buddenbrook, un vero e proprio Ring rivisitato, poi arricchito da riferimenti a Meistersinger, Tristan, Tannhäuser… ma anche lavori successivi, carichi di tematiche mutuate da Wagner.    

6. Nibelheim. Il Wagner ebreo e nero.

È il capitolo che tratta del nodo più controverso riguardante Wagner: l’antisemitismo. Dopo un flash iniziale (ripreso alla fine) in un ambito assai familiare a Ross (il problema razziale americano) si comincia ad entrare nel vivo con i riferimenti alle due versioni del famigerato libello Das Judenthum in der Musik, un autentico manifesto antisemita di Wagner. Che nella versione definitiva (1869) addirittura sembra prefigurare (o meglio: non escludere a priori) una soluzione violenta della reazione popolare alla progressiva giudaizzazione de mondo germanico. Seguono riferimenti ai personaggi di opere di Wagner che furono (e sono) comunemente descritti come rappresentanti (da esecrare!) dello stereotipo dell’ebreo: i Nibelunghi, Beckmesser, Kundry (ma non Klingsor…?) Segue una sezione che ricorda Houston Stewart Chamberlain, antisemita eterodosso che riuscì ad entrare nel cerchio magico di Bayreuth sposando Eva - figlia del Maestro e di Cosima - ed assumendo poi un ruolo centrale nel supporto alla soluzione finale per gli ebrei. Poi Ross ricorda come tanti ebrei diventarono invece estimatori di Wagner: a partire da Hermann Levi, scelto per dirigere nientemeno che la prima di Parsifal. E poi Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, che ebbe un ruolo decisivo nella prefigurazione dello Stato ebraico e che fu un grande estimatore di Wagner, soprattutto della figura di Tannhäuser. [Ndr: i detrattori di Wagner che ancor oggi ne vietano la musica in Israele evidentemente fingono di dimenticare queste ascendenze.] Il capitolo si chiude con alcuni interessanti riferimenti al wagnerismo afro-americano (l’influenza di Wagner su artisti – cantanti e scrittori - di colore).

7. Venusberg. Il Wagner femminista e gay.

Dopo un’introduzione che ricorda gli esperimenti e gli studi psicologici sugli effetti della musica di Wagner sulla sfera erotica, Ross si occupa dei rapporti del compositore con il sesso debole. Nei drammi wagneriani troviamo Brünnhilde e Isolde (fiere ed emancipate) e Ortrud (più strega che donna) e per il resto (Senta, Elsa, Elisabeth, Kundry) femmine in qualche modo relegate al ruolo passivo (fino alla morte…) di strumenti di salvezza per l’uomo. Ross analizza poi i riflessi che i ruoli delle donne wagneriane hanno avuto sull’arte (narrativa e figurativa) a cavallo del secolo e persino la spinta all’emancipazione indotta nelle interpreti di quei personaggi. Il capitolo tratta poi copiosamente anche delle fissazioni del compositore per vesti e tendaggi di seta e biancheria intima… ehm… equivoca e delle supposte tendenze androgine e misogine di Wagner; e persino [Ndr: qui Ross deve avere anche un personale interesse…] di quagli aspetti che vennero raccolti e sfruttati dai movimenti gay. E qui, ancora, ecco i riferimenti a Thomas Mann e in particolare a Morte a Venezia. Il capitolo chiude con lunghe considerazioni sulle capacità di psicanalisi di Wagner, che anticiparono di mezzo secolo almeno gli studi e i lavori di Freud&C.

8. La roccia di Brünnhilde. Willa Cather e il romanzo della diva.

Questo lungo capitolo è decisamente difficile da digerire e metabolizzare per noi, data la sua totale ambientazione americana. Cionondimeno ci fornisce un quadro quasi insospettabile, per noi europei, di quanto Wagner avesse già ai suoi tempi penetrato il mercato yankee. La scrittrice Willa Cather (1873, Virginia, poi trasferita in Nebraska, quindi in Pennsylvania e infine a NYC) divenne famosa per il suo romanzo (1915) intitolato Canto dell’allodola, di cui è protagonista una giovane cantante wagneriana, che si appresta ad interpretare il ruolo di Fricka. Ciò dà lo spunto a Ross per una sommaria esegesi della Walküre (second’atto in particolare). Interessante la chiusa del capitolo, dove Ross cita un altro romanzo della Cather (La casa del professore) che fa esplicito – e assolutamente wagneriano - riferimento al ruolo di Religione e Arte come strumenti di elevazione spirituale per l’Uomo.

9. Fuoco magico. Modernismo, 1900-1914.

Altro capitolo assai ostico, che prende spunto dallo spezzarsi del filo del destino nel Prologo di Götterdämmerung per paragonarlo ai movimenti artistici che nei primi 20 anni del XX secolo costituirono l’ondata modernista, che rompeva con la tradizione romantica (quindi paradossalmente anche con… Wagner, del quale si strumentalizzava soprattutto la famosa esortazione Kinder! macht Neues!) anche sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche che mettevano a disposizione dell’artista nuovi strumenti espressivi e nuovi canali di divulgazione di massa del suo prodotto artistico. Wagner rimase tuttavia ben presente sulle scene, ad esempio contribuendo con la sua musica ad alimentare nuove forme di spettacolo (di danza, soprattutto) e allo stesso tempo ricevendo da queste nuove forme contributi per la rappresentazione dei suoi drammi (Isadora Duncan, dopo aver offerto spettacoli di danza su musiche di Wagner fu chiamata a Bayreuth per le coreografie di Tannhäuser). Il teatro di Wagner fu pesantemente toccato dal modernismo, tanto che la figura del Regisseur cominciò ad acquistare importanza crescente, grazie anche all’impiego di nuove tecnologie, soprattutto della luce, come teorizzò e praticò, facendo scuola, Adolphe Appia. Parimenti influenzata da Wagner (dalla sua concezione dell’Arte come strumento di elevazione spirituale) fu la pittura di quegli anni, di cui Kandinski fu esponente di spicco. Ross passa poi a trattare l’influenza wagneriana sulla letteratura modernista anglo-americana, dilungandosi in particolare sulle figure di Joseph Conrad, Ford Madox Ford, David Herbert Lawrence ed E.M.Forster, tutti in qualche modo debitori (magari senza esserne adepti) dei drammi di Wagner. Non manca una sezione dedicata alle scrittrici-femmine, e qui è Virginia Woolf ad occupare il centro della scena. Il capitolo si chiude con un doveroso e significativo omaggio a Marcel Proust.

10. Notung. La prima guerra mondiale e il giovane Hitler.  

Il capitolo si apre con il Capodanno 1914, alle ore 00:00:00 del quale scadevano i diritti sulle opere di Wagner e sull’esclusiva di Bayreuth per Parsifal. Al Gran Liceu di Barcellona il dramma sacro fu programmato per le ore 23:00 (corrispondenti alla mezzanotte in Germania) ma effettivamente iniziò alle 22:30, in modo tale che attorno alla mezzanotte (di Barcellona) suonassero le campane che accolgono Gurnemanz e il puro folle nel tempio del Gral! La predilezione dei catalani per Parsifal ovviamente derivava dalla convinzione che Monsalvat sia in realtà Montserrat, sulle montagne sopra Barcellona. In quel 1914 nacquero i primi dissapori nella famiglia Wagner, con l’allontanamento di Isolde: il Festival programmò solo due recite di Parsifal [più due Holländer e un ciclo del Ring, ndr] dopodichè chiuse i battenti per esattamente dieci anni. Ross tratta ora dell’atteggiamento delle opinioni pubbliche riguardo alla guerra (e riguardo a Wagner): in Germania e nel mondo tedesco ai supporter del conflitto non parve vero di poter usare termini wagneriani per descrivere la missione della virtuosa e religiosa Germania contro le depravate e secolari nazioni nemiche. Ciò spiega l’uso di nomi wagneriani per definire azioni belliche, linee del fronte o armi letali. Altrove, come in Francia e in Italia, non si esitò a boicottare Wagner, ritenuto l’ispiratore del militarismo e del bellicismo tedesco. In USA si passò da una debole difesa dell’artista Wagner ad una messa al bando di tutto (e tutti) ciò che sapeva di germanico. In altri casi, come la Gran Bretagna, gli intellettuali furono meno drastici, anzi riconoscendo che opere wagneriane, come il Ring, in effetti prefiguravano l’ascesa e la caduta del Reich, come quella di Wotan&C. Ross ricorda anche personaggi del mondo dell’arte che continuarono a ispirarsi a Wagner durante e dopo il conflitto, come il volante D’Annunzio e come Proust. Una sezione del capitolo è riservata al movimento futurista e dadaista: vi spicca anche Filippo Tommaso Marinetti, wagneriano fino all’osso e poi divenuto uno dei più feroci critici dei drammi del Maestro, primo fra tutti il Parsifal; insieme a futuristi che invece continuarono a inneggiare a Wagner. Il capitolo si chiude, insieme alla guerra, con riferimenti wagneriani (Siegfried) alla pugnalata alla schiena (in sostanza, tradimenti) che avrebbe inopinatamente determinato la sconfitta del Reich. Peccato che il traditore (Hagen) avesse poco prima dato il suo nome proprio all’operazione militare che avrebbe dovuto celebrare la vittoria di Siegfried! Il vittimismo legato al sospetto della pugnalata diventerà il motore del nazismo, e quindi ecco apparire sulla scena Adolf Hitler, del quale vengono ricordati i primi incontri con i drammi wagneriani ed anche leggende metropolitane fiorite attorno ad essi.

11. L’anello del potere. Russia e Rivoluzione.  

L’apertura del capitolo tratta dei rapporti fra il wagnerismo e il marxismo, rapporti assai multiformi, quante furono le interpretazioni politiche delle opere di Wagner e le sfaccettature del movimento socialista. Un’attenzione specifica è riservata ad uno dei più famosi e controversi socialisti-wagneriani: George Bernard Shaw e alla sua interpretazione del Ring in chiave squisitamente anti-capitalista. Successivamente Ross passa ad occuparsi della ricezione di Wagner nella Russia pre-rivoluzionaria. Dopo aver trattato della scarsa considerazione per Wagner di importanti letterati russi (Dostoevski e Tolstoi, in particolare) Ross rievoca i successi parigini di Sergej Djagilev e dei suoi Ballet russes, che si proponevano dio realizzare ciò che Wagner aveva prefigurato nell’opera: un sostanziale Gesamtkunstwerk, unione armoniosa di musica, danza e pittura. E i tre protagonisti della produzione del Sacre erano tutti in qualche modo debitori a Wagner: Stravinski per la musica, il danzatore Nijimsky per aver danzato nel Venusberg del Tannhäuser e lo scenografo-pittore Roerinch che ammirava tanto Wagner da aver disegnato – per suo piacere privato – bozzetti della Walküre e poi quelli per un Tristan. Dopo aver ricordato i legami dei simbolisti russi con il mondo wagneriano, Ross esamina il trattamento riservato a Wagner dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione. Trattamento positivamente condizionato dalla pace separata di Brest-Litovsk, alla quale seguirono numerose rappresentazioni wagneriane a Mosca e Pietrogrado. Naturalmente erano i tratti rivoluzionari di Wagner (drammi e anche scritti filosofici) che vennero fatti propri dal regime per proletarizzare la cultura. Uno spazio importante è riservato alla figura di Vseviolod Mejerchol’d, il regista che aveva introdotto grandi innovazioni nella produzione teatrale (storico un suo Tristan del 1909) e al quale purtroppo il regime bolscevico, dopo la prima parentesi di apertura alla creatività seguita alla rivoluzione, tarpò le ali reintroducendo rigide regole dall’alto. E anche Wagner ne fece le spese, praticamente messo al bando fino alla morte di Stalin, con la breve parentesi (‘39-‘41) del Patto di non aggressione URSS-Germania. Il capitolo si chiude tornando appunto in Germania, al periodo di Weimar. Dove Wagner rimase in uno stato di sospensione, fra detrattori e ammiratori trasversalmente dislocati a destra e sinistra. Fra gli altri personaggi citati da Ross, troviamo i due mariti della vedova di Mahler: l’architetto Walter Gropius, fautore della wagneriana unione delle arti in architettura; e lo scrittore Franz Werfel, che svaluta Wagner a favore del rivale italiano Verdi. Non mancano infine riferimenti a Bertold Brecht e Ernest Bloch, che ebbero rapporti altalenanti con l’eredità di Wagner.

12. L’Olandese volante. Ulisse, La terra desolata, Le onde.

Altro capitolo assai impegnativo per chi legge, poiché Ross, occupandosi di tre letterati (del mondo anglo-americano) e di loro rispettive opere, si dilunga in citazioni e riferimenti quasi enciclopedici, che a volte finiscono per far perdere il filo del discorso e l’essenza stessa delle argomentazioni presentate. In sostanza, si tratta sempre dell’influenza (diretta o spesso indiretta e mediata) del pensiero e dei testi wagneriani su opere letterarie, qui di James Joyce, Thomas Stearns Eliot e Virginia Woolf. Dell’irlandese errante Joyce viene commentato Ulisse, il romanzo che ha chiari riferimenti nel mitologico Odisseo e nell’Ebreo errante, entrambi indicati esplicitamente da Wagner come ispiratori del Fliegende Holländer. Il romanzo ha due protagonisti, Stephen e Bloom, che schematicamente rappresentano il contro e il pro rispetto a Wagner, quindi la parallela attrazione-repulsione dell’autore di fronte all’illustre modello. Dell’americano Eliot (che non nascose le sue convinzioni antisemite) trapiantato in Europa si analizza La terra desolata, vagamente ispirata dal Tristan ma anche da Parsifal. Le onde di Virginia Woolf presenta chiari riflessi wagneriani, a partire dall’apertura che richiama scopertamente Rheingold, per poi proporre una chiusura parsifaliana. Ma è ancora Joyce a chiudere il capitolo con il wagneriano (Tristan e Ring soprattutto) Finnegans Wake.

13. La morte di Siegfried. La Germania nazista e Thomas Mann.  

La figura di Mann appare in questo capitolo a più riprese e nelle sue diverse sfaccettature riguardo la politica e il giudizio sul rapporto Wagner-Hitler: negli anni 15-18 Mann sostenne apertamente la guerra, tifando ovviamente per la Germania; poi, con La montagna incantata, tornò a prefigurare una società tollerante e basata sull’amore. Ebbe la presunzione di poter impedire la strumentalizzazione nazista del Maestro da parte del futuro Führer (anni 20); quindi arrivò la presa d’atto che era meglio starsene lontano da quel tipaccio (traslocando in USA, per dire, anni 30); e infine tentando di recuperare la reputazione di Wagner (anni 40) distrutta dal suddetto Hitler e dai suoi epigoni. Buona parte del capitolo è ovviamente riservata ai rapporti di Bayreuth con il nazismo (e con Hitler): l’arrivo di Winifred Williams (accanita sostenitrice del nazismo e di Hitler personalmente) e il suo matrimonio con Siegfried Wagner favorirono la progressiva deriva del Festival verso un sempre più chiaro fiancheggiamento del regime. Contemporaneamente l’apparato nazista (del quale facevano parte wagneriani incalliti) impiegava sempre di più la mitologia wagneriana per esaltare il ruolo e la missione storica della Germania. Si diffondevano discutibili e gratuite teorie che stabilivano la diretta influenza delle idee di Wagner (antisemitismo incluso) su Hitler, sfruttando l’enorme popolarità ed autorevolezza del sommo artista per portare acqua al mulino nazista. Siegfried Wagner cercò blandamente di correggere l’immagine razzista che stava acquisendo Bayreuth, con l’appello (che verrà ripreso dai figli nel 1951) Qui si fa solo arte. Hitler visitò Bayreuth per la prima volta nel 1923, subito prima del tentato Putsch della birreria; vi ritornò nel 1925, dopo la prigionia durante la quale i pezzi grossi del Festival (Chamberlain, Winifred…) gli diedero continuo supporto materiale e morale. Si fece amico di Wieland e Wolfgang, nipoti di Wagner e futuri direttori del Festival dal 1951, che lo chiamavano amichevolmente zio Wolfe (zio lupo!) Nel 1933 tornò da capo del governo! La protezione di Hitler portò a Bayreuth vantaggi e svantaggi: l’indipendenza artistica dalle idee dei gerarchi nazisti più reazionari; ma anche difficoltà finanziarie, legate alla progressiva evaporazione di gran parte del pubblico. In compenso Wagner divenne lo standard ai raduni del Partito a Norimberga, dove regolarmente veniva rappresentato Die Meistersinger, vero e proprio monumento musicale del nazismo. Ross ritorna ancora su Thomas Mann per trattare di Giuseppe e i suoi fratelli, una vera e propria tetralogia basata non sui miti ma sulla Bibbia; e infine sul Doktor Faustus, che Ross così battezza: un’allegoria della crisi spirituale della Germania. L’ultima sezione del capitolo elenca due diversi trattamenti riservati a Wagner prima e dopo la Seconda guerra mondiale: a differenza di quanto era avvenuto nel 14-18 la cultura tedesca (e Wagner in particolare) non venne demonizzata: Ross cita ad esempio Toscanini che rifiutò di dirigere a Bayreuth ma portò Wagner in giro per il mondo e persino fra gli ebrei di Palestina! Dall’altra parte, nacque una corrente di pensiero ancor oggi viva e vegeta che invertiva il nesso causa-effetto fra Wagner e il nazismo: Wagner era diventato la causa e il nazismo l’effetto! Il capitolo si chiude con una miscellanea di notizie su Wagner e i campi di sterminio e l’Olocausto.  

14. La Cavalcata delle Valchirie. Il cinema, da Nascita di una nuova nazione ad Apocalypse Now.  

Pensando ai rapporti fra la musica e il cinematografo ai tempi dello sviluppo di quest’ultimo, viene sempre alla mente il classico pianista (da strapazzo o… Shostakovich!) che solo soletto strimpella motivi più o meno pertinenti con le immagini proiettate sullo schermo. Ross invece ci ricorda che già nel 1915 a LosAngeles il film muto americano Nascita di una nuova nazione (smaccatamente pro-confederati) veniva accompagnato da vere e proprie orchestre sinfoniche, di 40-50 elementi! E va da sé che molte colonne sonore, a partire da quella, saccheggiarono anche la musica sinfonica per supportare le più svariate situazioni. E ovviamente Wagner era una fonte inesauribile di materia prima da utilizzare all’uopo: nel citato film, Rienzi e la Cavalcata delle Valchirie la facevano da padroni, ma Ross ci notifica che da allora almeno mille pellicole si sono servite di Wagner! E se ne sono servite in varie forme, anche contraddittorie, un po’ come era accaduto per la letteratura o la pittura: adozione entusiastica delle innovazioni wagneriane o parodia-condanna delle stesse. Allo stesso modo con cui aveva esaminato nei precedenti capitoli l’influenza di Wagner sulle arti prima dell’avvento del cinematografo, ora Ross si dilunga in dotte e documentatissime (a volte perfino eccessivamente dettagliate) osservazioni sull’influenza del Maestro sul mondo del cinema, vista in ottica artistica e in ottica geografica. Quindi si parla di USA, di Francia, di GranBretagna, Germania, Russia (Eisenstein) e anche Italia (massimamente e ovviamente Visconti, ma anche Fellini e Lina Wertmüller). Dopo aver analizzato l’impiego (sui due fronti contrapposti) di Wagner durante la WWII, Ross chiude in bellezza – per così dire – con Apocalypse now dove la Walkürenritt accompagna (appropriatamente?) le allegre scampagnate degli elicotteri yankee, così diligentemente impegnati a inondare i Vietcong di… democrazia al napalm.

15. La ferita. Il wagnerismo dopo il 1945.

Il capitolo finale del lavoro di Ross ci porta nel gran mare della contemporaneità, un autentico vortice di immagini, apparizioni, sorprese, illusioni e delusioni che personalmente fatico a sintetizzare in poche righe. Mi limito a citarne la conclusione, che Ross affida alle Figlie del Reno: Traulich und treu ist’s nur in der Tiefe… 

Postludio

Ross chiude con una ricostruzione del percorso – dalle stalle alle stelle – da lui compiuto nel suo approccio a Wagner. Con una conclusione (personalmente la condivido al 100%) che perfettamente si attaglia a quella – indecifrabile - del Ring

La visione svanisce, il sipario cala, e ci trasciniamo di nuovo in silenzio nel mondo così com’è. 

11 luglio, 2023

Venezi = Gergiev?

Premetto: non ho (ancora) avuto il piacere di ascoltare dal vivo musica diretta da Beatrice Venezi.

A mio modestissimo avviso il problema non è la richiesta (che non avrà fortunatamente seguito) di bandire alla Venezi l’accesso al podio dell’Opera di Nizza…

…ma la decisione irrevocabile e messa immediatamente in atto a suo tempo di bandire a Gergiev l’accesso al podio della Scala.

14 marzo, 2022

La realtà supera la fantasia

In un mio recente post avevo fatto un commento alla vicenda Scala-Gergiev e all’ostracismo del Teatro per il Direttore russo osservando come - per coerenza - si sarebbe allora dovuto anche bandire da teatri e sale da concerto un tale Ciajkovski, essendo costui un russo fedelissimo dello Zar e reo di occupare spesso territorio ukraino, avendo colà composto una sinfonia ispirata a quel Paese (la sua Seconda) titolata Piccola Russia.

Beh, è accaduto! Precisamente nel democratico Galles, dove l’Orchestra di Cardiff ha deciso il bando al compositore russo, cancellando da un concerto la belligerante Ouverture 1812 e sostenendo che... the orchestra was made aware that the title, “Little Russian” of Symphony No 2, could be deemed offensive to Ukrainians.

Confermate invece inspiegabilmente le esecuzioni di musiche di Prokofiev: uno che aveva abbracciato l’Unione Sovietica, ed era ukraino filorusso del Donbass!


03 maggio, 2021

Musica del 1° Maggio

È uscito oggi su Il Fatto Quotidiano un fulminante commento di Selvaggia Lucarelli sulla vicenda Fedez-RAI a proposito del concerto dello scorso 1° Maggio.

Come premio di consolazione... un ritorno alle origini.


22 aprile, 2021

Brahms da Torino e Milano

In attesa di capire che succederà dal 26 in fatto di musica in presenza, continuiamo ad accontentarci di quella in... assenza.

Poco fa da Torino abbiamo potuto ascoltare e vedere l’OSN RAI che ci ha proposto due esecuzioni a mio giudizio (sempre con i limiti legati all’ascolto tecnologico) di grande livello: la Terza (soprattutto, per me) e la Prima di Brahms dirette da Daniele Gatti, che ritornerà il 29 per completare il ciclo con Seconda e Quarta.

Domani laVerdi prosegue a sua volta il suo ciclo sinfonico di Brahms propio con la Terza diretta da Flor, ciclo che si chiuderà a maggio con la Quarta.


16 aprile, 2021

Si parla solo di riaperture

Mentre continuiamo a dover accontentarci dei pur meritori streaming (poco fa laVerdi ha ripreso dopo la sosta pasquale con una pregevole Seconda di Bramhs diretta da Flor) si comincia a parlare di riaperture serie e... irreversibili (questa me la segno subito).

Al primo posto c’è sempre qualunque cosa non abbia rigorosamente a che fare con la cultura: quindi avanti col cibo, con il fitness, con la cura della persona (dai capelli ai... piedi) e naturalmente con lo sport più popolare, il calcio, che ormai si appresta ad ammettere sugli spalti migliaia di tifosi che non vedono l’ora di sfogare il loro... tifo appunto e di assembrarsi gioiosamente ad ogni gol o numero degli eroi della pedata.

A chi osserva che in cinema e teatri non si va normalmente a fare il tifo, ma ad assistere - in religiosa compostezza e opportunamente distanziati - a spettacoli prodotti con i massimi livelli di sicurezza, si fa osservare come si tratti pur sempre di luoghi chiusi, dove il virus rischia comunque di circolare e poi c’è il solito problema di tutto ciò che accade fuori (prima e dopo lo spettacolo): insomma... meglio soprassedere ancora per un po’, ecco.  

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Chi può offrire spettacoli all’aperto gode ovviamente di qualche vantaggio: ad esempio Macerata e Martinafranca hanno già annunciato i rispettivi Festival che potrebbero risentire poco dei problemi da Covid.

Invece nel panorama comunque un po’ depresso delle iniziative culturali spicca un caso di apparente irresponsabilità, quello del ROF-XLII, il cui programma presenta la stessa identica struttura che ha caratterizzato almeno le ultime 20 edizioni (2020 esclusa): tre opere principali in cartellone, per 4 repliche ciascuna, una serata concertistica (lo Stabat) la serata conclusiva con un Gala al rinnovato Palafestival, più i due Reims accademici e concerti di canto quanto basta. E il tutto esclusivamente in luoghi chiusi! Non solo, ma le piante dei luoghi del festival ripropongono pari-pari la struttura di posti standard: ad esempio quella del Teatro Rossini sembra prevedere l’intera platea disponibile per il pubblico... (e gli orchestrali tornano in buca con tanti saluti a distanziamenti e sicurezza?) Stessa cosa per la Vitrifrigo Arena, che presenta come disponibili tutti i suoi 1200 e più posti!

Insomma, pare che a Pesaro abbiano intenzione di esorcizzare tutti i virus e varianti messi insieme... a noi non resta che fargli (e farci) i migliori auguri!


04 aprile, 2021

In Lombardia la diligenza corre più dell’elettronica

Naturalmente Attila Fontana parlerà di piccole e inevitabili sbavature che possono affliggere anche la Regione che resta la meglio organizzata in Europa... ecco qua: 

Lo scorso mercoledi 31/3 il mio medico di famiglia mi prenota un tampone molecolare presso la struttura fissa a ciò adibita, in quel di Sesto San Giovanni: i sintomi che presento (qualche linea di febbre) potrebbero nascondere la presenza dello sbifido virus. A mezzogiorno ho fatto il prelievo nasale e mi viene rilasciato un foglio per il ritiro del referto, normalmente entro 48 ore. Mi si conferma che il medesimo referto sarà anche disponibile online, sul mio FSE nell’apposita area-Covid.

Così a partire da venerdi pomeriggio (2/4) mi metto in trepida attesa (capirete: non si tratta di unghia incarnita, ma di questione di... vita o di morte!) Passano le ore e nulla accade. Poi, verso mezzanotte, arriva il sospirato SMS della Regione: il referto è disponibile sul mio FSE! Mi ci precipito sopra e - sorpresa - il referto è uccel di bosco!

Ci dormo (male) sopra e il mattino successivo ricomincio le mie esplorazioni: nulla di nulla. Allora, spazientito, arraffo la ricevuta e mi reco -  a piedi e con poche speranze - alla portineria del presidio sanitario di Sesto, adibita alla consegna del referto cartaceo. Miracolo a Milano! Il referto è disponibile! (per ovvie ragioni di privacy non ne rivelerò il contenuto, hahaha...) Evidentemente è arrivato lì trasportato da un furgone o da un pony che lo ha prelevato dal laboratorio di CàGranda, responsabile dell’analisi e del referto.

Torno a casa e - per pura curiosità - provo ancora ad esplorare il mio FSE: niente. Sapete quando il referto elettronico è comparso online? Dopo altre 6 ore!

Insomma, fate conto che un Frecciarossa e un Accelerato partano insieme da Milano Centrale alla volta di Roma Termini e che laggiù il Frecciarossa arrivi con qualche mezz’ora di ritardo rispetto alla lumaca. Tutto ciò non è meraviglioso?

E allora festeggiamo questo gran turbinio di accelerazioni, cambi di passo e colpi di reni come facevano i nostri bisnonni di fine ‘800!

01 aprile, 2021

A Pasqua vacciniamoci musicalmente in Russia

Se fosse una persona seria, quel tale che si fa chiamare capitano e vanta importanti amicizie a Mosca avrebbe già dovuto farsi regalare qualche milione di dosi di Sputnik così da accelerare l’arrivo delle condizioni che lui stesso dice di accettare per riaprire tutto dopo Pasqua e goderci finalmente la vita.

Ma ha già dimenticato ciò che è successo dopo la scorsa estate e poi a metà gennaio e ancora di recente (Sardegna docet): finchè non siamo tutti vaccinati, se si riapre è matematico che dopo un mese la curva torna ad impennarsi, e siamo daccapo. Anche perchè c’è un quarto degli italiani che, sposando la filosofia di vita virus del loro capitano, trasformano anche la più piccola delle aperture in un tana, liberi tutti. Per non parlare poi dei tanti specialisti spalmatori di morti e tinteggiatori abusivi di zone-Covid, capaci come per magia di coprire un rosso scarlatto con un giallo brillante...

E allora, finchè ogni giorno i morti, spalmati o meno, sono centinaia, teniamo bene i piedi per terra, le mascherine sul viso, tutte le restrizioni, diamo tempo al pennuto quanto pluri-mostrinato Gen.Figliuolo di bucarci tutti quanti e nel frattempo celebriamo (religiosamente) la Passione con Bach e (laicamente) la Pasqua con Rimski-Korsakov.

20 marzo, 2021

Ci siamo giocati anche la Sardegna

Senza aspettare il 27/3 ecco che anche la mosca bianca Sardegna ha deciso (per spirito patriottico, immagino!) di deludere... Franceschini. Così anche il simpatico Solinas ha solo perso tempo a inventare passaporti sanitari e credenziali tamponiche, chè lo sbifido virus gli ha risolto in un sol colpo tutti i problemi burocratici.

L’ultima newsletter della Scala, recapitata in questi giorni per posta prioritaria agli abbonati, ci informa tempestivamente, per la penna di Dominique Meyer, che c’è tuttora in giro una specie di virus che impedisce al Teatro di operare come da statuto della Fondazione. Ne prendiamo atto con vivo stupore, ma rassicurati che per la stagione 21-22 avremo sempre diritto alla prelazione senza oneri di qualunque tipo.

Ad allietare le nostre giornate, rafforzandoci nelle nostre inossidabili sicurezze sul processo di integrazione europea (che proprio nei momenti più difficili dovrebbe mostrare tutti i suoi vantaggi) sono arrivate ieri le assicurazioni del nuovo PM, benemerito salvatore dell’Europa dalle crisi finanziarie dell’ultimo decennio, che ci garantisce che noi (seguendo Merkel, Macron e i camerati della banda di Visegrád) ce ne andremo per i cazzi nostri a procurarci vaccini dove capita, se l’amata Europa non soddisferà più le nostre giuste pretese.

Ecco, più sovranisti di così non si può (Salvini&Meloni sentitamente ringraziano). E allora, ascoltiamo un sovranismo di quelli seri, nato non già a Visegrád, ma (sia pur non troppo lontano) a Vyšehrad.

12 marzo, 2021

C.P.I.

Come Potevasi Immaginare

Non c’è niente da fare: siamo intrappolati in una sbifida sinusoide.

I contagi aumentano? Si chiude (e la curva va giù...)

La curva va giù? Si apre (e la curva va su...)

La curva va su? Si richiude (e la curva torna giù)

La curva torna giù? Si riapre (e la curva... indovina indovinello?)  

La sinusoide si appiattirà soltanto con la vaccinazione universale (non solo italiana) e quindi prepariamoci a vivere enne ultime ondate.

Intanto il 27/3 si avvicina e l’impegno solenne di Franceschini si realizzerà (salvo... imprevisti) solo in Sardegna: beati loro che potranno far traslocare nell’isola (previo passaporto sanitario) teatri, compagnie, produzioni e cartelloni da tutta Italia e così fare indigestione di cultura. Loro, perchè noi di Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Palermo, Bari e così via restiamo bloccati in casa e dobbiamo accontentarci di qualche asettico streaming.

Come quello, invero pregevole, che laVerdi ci ha appena offerto, con la premiata coppia Dego-Bignamini in Shostakovich (una rimpatriata dopo l’analoga prestazione - in presenza però - del maggio 2019... pare passata un’eternità).

A proposito di sinusoidi, anche la vita artistico-privata di Shostakovich fu tutto un su-e-giù: su nel ’34, giù nel ’36, risu nel ’41, rigiù nel ’48, ririsù nel ’54... ecc. ecc. 

06 marzo, 2021

Si continua a navigare a vista...

In attesa che arrivi qualcuno più capace di Draghi (!? eh sì, perchè lui starà mettendo in piedi un fantastico Recovery-Plan, ma la curva dei contagi non riesce a pianificarla nemmeno lui, poveretto...) si deve continuare a navigare a vista.

Francamente non vorrei essere nei panni di chi, a fronte della pianificata, sospiratissima riapertura di cinema e teatri (27 marzo p.v.) ha cominciato, solerte e lungimirante, a fare investimenti per farsi trovar pronto al giorno-x. Sì perchè, stante l’incapacità draghiana (non parliamo poi di quella franceschiniana) di pianificare rigorosamente la corsa del virus e la conseguente colorazione di regioni, provincie, città e villaggi, ciò che si profila all’orizzonte è il rischio che accada qualcosa di simile alla batosta che dovettero subire gli imprenditori (e relativi impiegati) dello sci poche settimane orsono. 

É ancora calda la figuraccia fatta dal trio-pisquano (Fontana-Moratti-Bertolaso) ridottosi ad emanare l’ordinanza 714 (passaggio della Regione Lombardia ad arancione-scuro) la sera del giovedi per la mattina del venerdi!

Insomma, visto l’andazzo, c'è il caso che il giorno-x si debba scoprire che tre quarti del Paese è di colore arancione o magari rosso, quindi impedito a riaprire le sale al pubblico.

Per intanto continuiamo quindi ad accontentarci dello streaming che ci permette almeno di non restare vittime di sindromi da astinenza e istinti suicidi. Segnalo quindi il programma di Marzo de laVerdi, che ci offre proposte interessanti (come quella di ieri con il solido Kochanovski) tutte ri-godibili per ben un anno on-demand:


22 febbraio, 2021

Franceschini a U ?

Sarà forse uno dei primi effetti dell’arrivo del Draghi taumaturgo, oppure un non voler sfigurare rispetto al Salvini rinsavito... ma è davvero straordinario che il Ministro Franceschini si accorga solo oggi di qualcosa che era noto a tutti (e pure a lui stesso, visto come giudica l’esperienza della breve ripartenza dopo l‘estate).

Sia chiaro: siamo tutti felici di questa resipiscenza ma, dato che oggi non siamo messi meglio di ieri, i casi sono due: o Franceschini sbaglia oggi, o ha sbagliato ieri. E anche la motivazione da lui addotta per prospettare questa decisione è tutto fuorchè razionale: non già perchè il Covid sia sotto controllo e le vaccinazioni procedaono spedite, ma... per essere i primi in Europa a riaprire teatri e cinema. Con molte regioni in arancione e minacce di nuovi lockdown?  

E qualcuno annovera il personaggio fra i candidati al Quirinale?

13 febbraio, 2021

Ricordo di una voce scomoda

So di infrangere le leggi del business nel proporre la pagina del Fatto Quotidiano, dedicata alla scomparsa di Paolo Isotta. Quello di Nanni Delbecchi mi sembra un modo serio e onesto di ricordare una voce scomoda ma acutissima. 

12 febbraio, 2021

Perchè un violino non diventi muto

Riporto una mail che la Scuola di Fiesole ha inviato a tutti gli appassionati di musica:

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Cari Amici,

vi scriviamo per rendervi partecipi di una drammatica richiesta di aiuto che giunge dal mondo della musica: ci stiamo stringendo intorno a Corinne Chapelle, fantastica violinista franco-americana che, dopo severi studi e la vittoria di importanti concorsi internazionali, ha intrapreso una brillante attività concertistica come solista presso le orchestre più prestigiose e accanto a celebri colleghi.

A Corinne Chapelle, che vive in Inghilterra - ha oggi 46 anni ed una figlia di 6 - è stata recentemente diagnosticata una grave forma di cancro che non è possibile sottoporre ad intervento chirurgico, ma può essere trattata con ottime speranze di successo in Germania e in Svizzera.

Le terapie necessarie sono purtroppo particolarmente onerose sul piano economico, e così si è lanciato un crowdfunding link per raggiungere la somma necessaria ad intraprendere il percorso di cura, il cui costo è di 300.000 sterline.

Ciascuno di noi può dare il suo contributo, e non solo in denaro: sarebbe davvero importante riuscire a far giungere questo appello ad enti, fondazioni, associazioni o istituzioni la cui partecipazione potrebbe risultare decisiva per il raggiungimento dell’obiettivo e salvare la vita di Corinne.

Certi della Vostra attenzione, e grati per quanto potrete fare, Vi salutiamo caramente

Alexander Lonquich

Lorenzo Cinatti

Fiesole, 12 febbraio 2021

17 novembre, 2020

La musica fa bene alla salute

L’impiego della musica a scopi terapeutici non è una novità, ma fanno sempre notizia vicende come questa recente di Ancona.

In questo caso di interessante c’è il particolare relativo alla frequenza del diapason del pianoforte: 432 Hz, che è la frequenza di risonanza di buona parte degli organi del corpo umano, che quindi in presenza di suoni con quella frequenza si predisporrebbe positivamente ad affrontare prove difficili come una delicata operazione chirurgica.

Tutta la materia relativa alla frequenza del diapason è da sempre oggetto di controversie e anche di leggende metropolitane. Ad esempio c’è chi sostiene che l’attuale standard internazionale (440 Hz, spesso ulteriormente aumentato a 442) sia stato propugnato a suo tempo dal nazismo perchè ecciterebbe il cervello umano, spingendolo verso atteggiamenti aggressivi. Per ragioni simili le bande militari avrebbero già da tempo impiegato queste frequenze.

Giuseppe Verdi fu ai suoi tempi un deciso propugnatore dell’assunzione a standard del diapason a 435 (da lui definito normale) già impiegato in Francia, reputandolo il più adatto ad offrire il suono più nobile, pieno e maestoso, a differenza degli strilli ottenuti da un diapason più acuto.

Nel secondo movimento della sua Quarta Sinfonia, Gustav Mahler prescrive per il violino principale un’accordatura di un tono intero sopra a quella degli altri strumenti (più o meno 485 Hz rispetto allo standard attuale); poi, per non farlo stonare rispetto all’orchestra (che suona in DO minore, tre bemolli in chiave) gli abbassa la tonalità del brano a SIb minore (5 bemolli in chiave). Quindi l’altezza del SIb del violino è la stessa del DO dell’orchestra... ma il suo suono è più stridulo (a proposito degli strilli di Verdi!) ed è precisamente l’effetto (da violino di strada) che Mahler desiderava ottenere con questo accorgimento.   

Ma oltre al diapason, gli effetti della musica sulla psiche umana (e degli animali, in generale) possono anche dipendere dalle scale modali impiegate: ad esempio è noto come nell’antichità il modo frigio fosse considerato un eccitante della psiche e quindi impiegato nelle musiche che accompagnavano i militari in battaglia, per massimizzarne le prestazioni.

In attesa dei vaccini miracolosi, perchè qualcuno non si cimenta in ricerche sugli effetti della musica nella lotta al coronavirus?


26 ottobre, 2020

La cartina di tornasole

Le due facce del Governo: Spadafora e Franceschini.

Il primo fa - col sorriso sulle labbra - il mea-culpa. Poi nemmeno lo sfiora l’idea di chiudere gli stadi, non solo a chi sta in tribuna, ma anche a chi sta sul terreno di gioco e in panchina. Tanto le TV trasmettono in diretta partite giocate in vitro e le società salvano almeno una parte degli incassi.   

Il secondo ricorda a noi disattenti che il contagio sta galoppando. Così chiude i teatri, ma non solo al pubblico, anche a chi sta sul palcoscenico e in buca. Poi, per non penalizzare troppo questi ultimi, invoca l’acquisto di spettacoli e programmi di cultura (evidentemente registrati in passato) da parte delle televisioni. Non la trasmissione in diretta degli spettacoli dal vivo, pur a porte chiuse.

É come se Spadafora blindasse gli stadi e chiedesse alle TV di trasmettere - pagando salati diritti d’autore per sostenere le società calcistiche - celebri partite del passato.

Morale: ci sono sempre figli e figliastri (eh sì, caro Franceschini) ed è triste constatare che lo Stato premia i primi e vessa i secondi.


25 ottobre, 2020

Ore legali

Questo 25 ottobre non sarà certo ricordato per il ritorno dell’ora solare, ma per l’ennesimo DPCM anti-virus.

Entrano quindi in vigore, al posto di quella astronomica, altre ore legali legate alla lotta contro i mulini a vento la pandemia.

Per quanto mi riguarda, che i bar e i ristoranti chiudano alle 18 è perfettamente irrilevante (non ci metto piede da lustri...) mentre che luoghi pubblici che sono fra i più sicuri - rispetto alle possibilità di contagio - come teatri e cinema vengano lock-cati è palese dimostrazione di stupidità (Franceschini compreso, visto che comprende dolorosamente, bontà sua...)

Fossi un responsabile di teatro (o anche di cinema) sfiderei il DPCM confermando lo spettacolo (a porte chiuse, come si continua a fare per l’intoccabile calcio) e offrendo, a chi ha già acquistato o acquista un biglietto, la fruizione dello spettacolo in streaming (previa registrazione, per chi già non l’avesse, sul sito del teatro). Così si salverebbe almeno in parte l’incasso, si accontenterebbe in qualche modo il pubblico e si combatterebbe il virus, alla faccia dei dolori di Conte-Franceschini&C. 

   

29 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 2

Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.

La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.

Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.

Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.

Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.

Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.

Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.

Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.

Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.

Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).

Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?


Questo esempio è catalogabile sotto la casistica attualizzazione del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che 150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione delle opere che quello attuale.

Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!

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Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che l’opera fu espressamente composta per la Stagione di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla di tutto ciò, ed è precisamente la musica a stabilirlo.

Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...

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La donna del lago. Romanzo storico, Walter Scott, una donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un racconto di Harmony, ma è ciò che il testo racconta.

Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace, ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di Babilonia (su di lei e sui suoi liberi costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia) che avrebbe avuto di suo morte prematura.

Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

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Non c’è bisogno, credo, di precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.

Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.

Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...) 

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(2. fine)