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17 agosto, 2016

ROF-37 Ciro da Babilonia torna a Pesaro

 

Ieri sera ecco il redivivo Ciro in Babilonia, tornato presto sulle scene del ROF dopo il tardivo esordio del 2012, ovviamente con lo stesso allestimento di allora, firmato da Davide Livermore. Per le note introduttive sull’opera e i commenti alla regìa rimando a quanto scrissi appunto in occasione della produzione originale, della quale questa ripresa non ha proprio mutato alcunchè, salvo l’aggiornamento di poche immagini filmate in cui appaiono gli interpreti principali.

E fra gli interpreti ha trionfato l’inossidabile Ewa Podleś, la cui voce sembra non risentire del trascorrere degli anni. Certo, la fatica si fa sentire e alla fine si è avvertito lo sforzo sovrumano che la cantante polacca ha dovuto sostenere nella scena XII, per lei davvero massacrante, e poi nel finale concertato. Ma le ovazioni che il pubblico che gremiva il Rossini le ha riservato devono averla ripagata con gli interessi. Il suo non è un Ciro superlativo soltanto nel canto, ma anche e forse soprattutto nell’espressione, nell’immedesimazione dell’interprete con le mille sfaccettature del personaggio, di cui restituisce tutta l’umanità, il pathos e insieme la severa, persino proterva inflessibilità nel punire il truce Baldassare.

Pretty Yende conferma la buona prova dell’esordio: efficace nelle agilità e nei virtuosismi, esibiti con sicurezza quasi sfrontata, ma anche nella cantabilità dei passi più lirici, dove esibisce buon portamento e pregevoli legati. Antonino Siragusa è un Baldassare dignitoso, la voce c’è, chiara e squillante, gli acuti sono raggiunti con evidente sforzo (sappiamo bene come Rossini definisse le emissioni di petto, alla Duprez...) e il risultato nel complesso è più che accettabile.  

Degli altri comprimari dirò bene di Alessandro Luciano, che si conferma, come tenore rossiniano, assai più che una promessa; e meno bene di Oleg Tsybulko, uno Zambri dalla voce piuttosto ingolata e cavernosa. Meglio di lui Dimitri Pkhaladze che non ha sfigurato nella parte del profeta Daniello, impersonata con sufficiente efficacia e voce bene impostata. Il SIb di Isabella Gaudí è uscito sufficientemente pulito e in più, rispetto alla storica interprete del ruolo di Amira (Anna Savinelli, una gran racchia, almeno stando a Rossini) la cantante spagnola vanta una presenza fisica di tutto rispetto!

Il coro di Andrea Faidutti, che Livermore veste in parte con costumi babilonesi e in parte con abiti primo-‘900 (gli spettatori del cinema dove si proietta il Ciro) ha dato come sempre buona prova di sè, nel canto ed anche nella recitazione.

Da ultimo, Jader Bignamini, al suo debutto al ROF e in pratica al suo esordio col Rossini operistico (che io sappia, in precedenza aveva diretto un paio di volte l’Ouverture del Tell e poi, di recente, con laVERDI, un’antologia di brani rossiniani). L’ormai lunga consuetudine sinfonica con l’Orchestra milanese di cui è oggi Direttore Associato (alla Xian) gli permette evidentemente di trattare anche partiture di livello relativamente modesto con la cura e l’attenzione ai minimi dettagli che si riservano normalmente a un Beethoven o a un Mahler. È proprio ciò che emerge da questa sua direzione, dove nulla sembra essere lasciato al caso o “tiratoviaallabellemeglio”. E l’Orchestra del Comunale bolognese (che di per sè, con Mariotti, ha fatto grandi passi avanti) ha risposto da par suo, come complesso e come singoli (corno, violino e viola in primis, ovviamente).

Ora rimane, del cartellone principale del ROF XXXVII, la quarta e ultima serie di recite, col Ciro a chiudere, sabato 20. Venerdi l’omaggio a Florez per i suoi 20 anni di ROF.

11 agosto, 2016

ROF-37 alla radio – 3


Terza ed ultima opera del cartellone principale del ROF-XXXVII è Ciro in Babilonia, una ripresa della produzione del 2012 di Davide Livermore.

Del cast di allora è rimasta la protagonista, una Ewa Podleś per la quale gli anni sembrano non passare mai: aveva già toccato i 60 allora, ma oggi (a giudicare dall’ascolto radiofonico, ma anche dalle ovazioni del pubblico) si direbbe addirittura ringiovanita! Accanto a lei una brava Pretty Yende, che non ha fatto per nulla rimpiangere (pur nella diversità di timbro e tecnica) l’Amira di Jessica Pratt. Antonino Siragusa è un Baldassare un poco in affanno (impietoso è il confronto con lo Spyres del 2012) e tuttavia arriva in fondo senza... rotture. Oleg Tsybulko e Alessandro Luciano si sono onorevolmente difesi (Zambri e Arbace); efficace la prova di Dimitri Pkhaladze nella parte circoscritta ma difficile di Daniello. Isabella Gaudí ha emulato la storica Anna Savinelli nei ripetuti SIb della sua unica aria. Bene il coro di Faidutti, chiamato qui ad una fatica non trascendentale.

Jader Bignamini ha fatto il suo esordio al ROF con una direzione curata e... compassata. Nell’intervista rilasciata a Bossini ha più volte sottolineato il rischio che questa partitura presenta: annoiare il pubblico con tutti quegli interminabili recitativi secchi (parte fondamentale dell’opera settecentesca, ma che oggi a noi fanno venire l’orticaria, diciamolo pure); così per renderceli più digeribili ha dedicato molto tempo con i cantanti nelle prove, oltre a... cassarne una certa parte (mai a sufficienza, peraltro).

Ora le tre opere vengono replicate per tre ulteriori cicli, quindi fino al 20 agosto. Prima la gran festa del 19 con JDF all’Adriatic Arena. A proposito, pare che – forse, chissà – nel 2018 si potrà tornare al glorioso Palafestival: così ha lasciato sperare Mariotti-sr nell’intervista di Pedone, nella quale ha anche gongolato per il successo di pubblico, come sempre costituito per 2/3 da stranieri che accorrono qui dai più remoti angoli del pianeta. Uno dei restanti che si apprestano solo ora a raggiungere la riviera adriatica è... il sottoscritto.

14 agosto, 2012

ROF-33 – Ciro in Babilonia


Ieri sera seconda recita, al Teatro Rossini, del Ciro, sbarcato a Pesaro dopo l’esperienza sulla east-coast americana. La ripresa televisiva della prima (RAI5) ci aveva già dato una consistente idea dell’allestimento e una più o meno vaga sensazione sull’interpretazione musicale: originale (o bizzarra?) la regìa; di buon livello il lato sono-canoro.

Rossini, nelle lettere alla mammina, parlava di quest’opera (la sua seconda seria, dopo il giovanilissimo Demetrio) chiamandola oratorio, forse perché doveva rappresentarsi (1812, a Ferrara) durante la Quaresima (quindi in forma magari semi-scenica?) In realtà, a parte un labile riferimento biblico, poco o nulla ha delle caratteristiche strutturali degli oratori.

Secondo il costume del tempo, oltre ad auto-imprestarsi musica da un’opera all’altra (la Sinfonia, per dire, è quella della farsa (!) L’inganno felice, composta poche settimane prima del Ciro) Rossini era solito adattare le sue opere alle possibilità tecniche dei cantanti chiamati ad interpretarle (quando addirittura non le avevano direttamente ispirate). Così, saputo che il personaggio di Argene sarebbe stato affidato a tale Anna Savinelli, che secondo lui cantava ancor peggio di quanto fosse brutta (smile!) e aveva di passabile solo il SIb centrale, il ventenne Rossini (che doveva avere già il pelo sullo stomaco e la simpatica perfidia di un uomo navigato) per sfruttare al meglio quella peculiare qualità ed evitarle figuracce le affidò per tutta l’opera soltanto dei recitativi secchi e poi le scrisse un’aria (Chi disprezza gl’infelici, prima del finale dell’opera) poggiante esclusivamente su quella nota: 


(Va da sé che il pregio dell’aria sta tutto nell’accompagnamento orchestrale, smile!

Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti  e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!  

Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano. 

A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).

Di azione quasi non esiste ombra, e anche l’unico (e classico) espediente dell’arrivo a Babilonia di Ciro sotto le mentite spoglie di un suo portavoce non crea alcuna suspence né ha sostanziali effetti, venendo presto smascherato e trasformandosi, come un boomerang, in un nuovo strumento di ricatto di Baldassare nei confronti di Amira. Ancora: la scena all’inizio del second’atto – che sembra mutuata da Fidelio, compresa la mirabile introduzione orchestrale – dell’incontro fra Amira e Ciro nella prigione in cui questi è segregato e dove arriva a sorprenderli Baldassare, si conclude senza colpi di teatro (nessuno squillo di trombetta che metta in allarme il despota babilonese…) e rimane un puro pretesto per farci ascoltare due grandi pagine di musica: il duetto Ciro-Amira (Nello stingerti al mio petto) e il successivo terzetto con Baldassare (Fiero nell’anima terror si desta).

In sostanza: l’intera vicenda si riduce al lungo braccio di ferro psicologico fra Baldassare e Amira, con Ciro a recitare la parte di un marito e padre tanto amorevole quanto impotente, cui non resta che affidarsi alla provvidenza. E tutta la musica (arie e cabalette) non fa che supportare questo scenario, con il contorno di qualche coro e di pochi numeri (tra cui la citata aria del SI bemolle…) riservati ai comprimari.   

Sul lato puramente strumentale, oltre ad alcune splendide introduzioni ad arie, sono da incorniciare alcuni brani di obbligato: primo fra tutti quello in LA maggiore del violino sull’aria di Amira (Deh! per me non v’affliggete) veramente degno di quello che Beethoven scriverà per accompagnare il Benedictus della sua Missa! Ma anche fagotto e corno hanno modo di mettersi in bella mostra in più di un’occasione.

Insomma, non sarà proprio un capolavoro, ma adesso che ne esiste una versione sufficientemente stabilizzata (grazie al lavoro sulle fonti compiuto dagli esperti della Fondazione Rossini, Ilaria Narici e Daniele Carnini) il Ciro è opera che merita senz’altro di entrare nel repertorio dei teatri (meglio se con parecchie sforbiciate ai recitativi secchi…)
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Vengo ora a questa nuova produzione del ROF. Intervistato da Radio3, il patron Gianfranco Mariotti ha ribadito che il ROF è un Festival e come tale è tenuto a fare allestimenti che portino novità e che facciano discutere; la routine viene lasciata ai teatri di repertorio. (Deduco che Mariotti non frequenta quei teatri da qualche decennio, smile!) Quanto a Davide Livermore, nelle sue apparizioni in radio e tv, durante le dirette, non ha mancato di ribadire il suo personale approccio alla regìa operistica: attualizzare i soggetti da mettere in scena, pur preservandone (bontà sua) la trama originale (!) E ha ovviamente citato a supporto di ciò la sua (censurabile, per me) interpretazione dei Vespri verdiani, da lui ambientati attorno alla strage di Capaci.

Ora bisognerebbe chiedergli dove stia, nel suo Ciro qui al ROF, l’attualizzazione… Perché cosa vediamo noi in scena? Ambientazioni e costumi pseudo-storici, tanto belli quanto inverosimili. La prima reazione che viene spontanea è: vuoi vedere che Livermore è stato colpito da improvvisa zeffirellite acuta? (smile!) E ha deciso di smentire clamorosamente il patron Mariotti, con un allestimento più tradizionalista di quelli dei teatri di repertorio (di 50 anni fa)? Ovviamente non può essere, e quindi ci dev’essere sotto qualcosa d’altro…

E questo qualcosa pian piano viene alla luce (lo si era del resto intuito da alcuni fuori-scena durante l’esecuzione della Sinfonia): acconciature, trucco e movenze degli interpreti sono tipiche da cinema muto (!) e noi del pubblico stiamo assistendo appunto alla proiezione di un film di un secolo fa, più o meno, come testimoniano tutte quelle classiche striature che scorrono verticalmente davanti ai nostri occhi, così tipiche delle pellicole di quei tempi (già, stiamo attualizzando, smile!)

Quindi ecco la trovata: dato che il-teatro-nel teatro, ed anche il-cinema-nel-cinema sono già stati da tempo inventati, usati ed abusati, il buon Livermore si spinge fino ad inventare il-cinema-nel-teatro.

Ma non è ancora tutto: ci accorgiamo che sulla scena, oltre ai protagonisti principali del dramma rossiniano, bardati nei loro costumi zeffirelliani, ci sono anche componenti del coro (e forse alcune comparse) che vestono invece abiti borghesi di un secolo fa, e assistono al film (muto, ma… cantato!) accomodati su scomode seggiole. Dopodichè questi particolari spettatori cominciano ad alzarsi, a muoversi e a… mescolarsi con i protagonisti del film, diventandone a loro volta interpreti (ma il pubblico che diventa protagonista dell’opera è un… copyright che da anni è stato registrato da tale Robert Carsen, o sbaglio?) In alcuni momenti sullo sfondo compare proprio l’immagine dei palchi di un teatro, ottenuta con semplici proiezioni, invece che facendo scendere giganteschi specchi che riflettano la sala vera, dove stiamo noi spettatori (ma al ROF non ne avevano uno di specchi, già impiegato anni fa per Zelmira? Forse era stato solo noleggiato… smile!) Insomma, oltre al cinema-nel-teatro abbiamo adesso anche il teatro-nel-cinema!

Mah: viene il sospetto che Livermore con questo allestimento si sia proposto (anche) di mettere alla berlina le regìe cosiddette tradizionali, e per far ciò abbia usato uno strumento ben preciso: la parodia. L’idea sarà anche brillante, ma il rischio che il regista corre è di parodiare, insieme al concetto di regìa tradizionale, anche l’oggetto medesimo della rappresentazione. In sostanza, quello cui assistiamo è un Ciro in Babilonia che assomiglierà pure a grandi e secolari pellicole, quali Cabiria o Intolerance, ma a volte finisce per scadere al livello di Ridolini o di Stanlio&Ollio! Beh, come risultato del principio di attualizzazione non mi sembra male davvero (!) In ogni caso e dati i precedenti, ci consoliamo pensando che ci poteva capitare di molto peggio: Ciro trasformato in Khomeini e Baldassare in Saddam, ai tempi della guerra Iran-Iraq (ma evidentemente questo soggetto è stato ritenuto di scarsa attualità, smile!)

Quello che ha lasciato pochi dubbi è invece il lato-suoni, di livello davvero ragguardevole (accade raramente che l’ascolto dal vivo appaia migliore di quello microfonato delle riprese audio-tv): a partire dall’inossidabile 60enne Ewa Podleś, un Ciro eccezionale che ha letteralmente stregato il pubblico. Voce da vero contralto, che si spinge giù fino al MIb centrale della chiave di… basso (!)

Per continuare con Michael Spyres, perfettamente a suo agio nei panni di Baldassare: gran voce da bari-tenore, canto aperto, con ampia estensione (qui, dal SIb sotto il rigo al DO sovracuto). Interminabile l’applauso che ha accolto la sua Abbian morte e Ciro e figlio.

Ma su tutti ha brillato, secondo me, Jessica Pratt (Amira): voce sempre calda e intonata, ottimo legato e mai una sbavatura o un urlo.

All’altezza gli altri interpreti: Mirco Palazzi, autorevole Zambria, Robert McPherson come Arbace e Raffaele Costantini, nella parte piccola ma importante di Daniello. Carmen Romeu (Argene) ha sciorinato assai bene il suo SI bemolle: si spera che non abbia solo quello (smile!) Compatto e preciso il coro bolognese di Lorenzo Fratini.

Will Crutchfield – oltre che accompagnare personalmente i recitativi al fortepiano - ha guidato con autorità l’Orchestra del Comunale di Bologna, sempre più di casa al ROF, con un’interpretazione rigorosa, forse a volte un filino troppo… compassata (ma siamo quasi a cercare il pelo nell’uovo).

Si potrebbero invece criticare i pochi (!) tagli ai recitativi secchi (tagli limitati più che altro al finale) il che ha comportato inevitabili rallentamenti del flusso musicale (oltre ad una durata della recita che ha sfiorato le tre ore nette!) senza peraltro aggiungere gran valore allo spettacolo. Ma in complesso si è trattato di un’esecuzione che ha reso giustizia a questo Rossini giovane ma ormai avviato sulla strada che lo porterà lontano.

Grandissimo – e assolutamente meritato - successo per tutti.