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19 novembre, 2017

Sciarrino si traveste da Stradella per la Scala


In attesa della materializzazione dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel genio che risponde al nome di Salvatore Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)

Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita dalla musica - o magari anche da qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro Stradella, tale Agnese van Huffele, che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo hobby preferito – si era fatto ospitare dal musicista dilettante Giovambattista Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)

L’opera di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera nientedopodomanichè con la Regina Cristina di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona – che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal soprano protagonista della cantata.

Nel secondo atto dell’opera – dove (pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma, fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)

Evabbè... a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei a tutti questo thriller) – porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo (materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in particolare Musica) ed Eros. E Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed esploratore di... orifizi). 

Ma c’è di più: Orfeo vs Sirene! Il campione della musica umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)

Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla scena (concertino e poi legni) e da dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una tavolozza personalissima e davvero ricercata.

Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a quello di un Musorgski o di uno Janáček.

Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha commissionato per poi propinarcele in anni recenti.

Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico) al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...

Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra (Le Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli – pare assecondarlo al meglio (dico pare perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...) cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.   
  
Fra le voci, la protagonista assoluta è la Cantatrice di Laura Aikin, che ha oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua voce scarseggi di decibel il che, in aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo, anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).

Degli altri interpreti, quello che canta (in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro Maturana (accademico scaligero) che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.

31 gennaio, 2016

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.

04 novembre, 2015

Wozzeck in Scala per i soliti quattro gatti

 

Ieri Wozzeck è arrivato alla terza recita. Per fortuna non siamo più alle clamorose contestazioni del 1952, ma viene il sospetto che la ragione risieda nel fatto che i potenziali contestatori oggi si guardano bene dal venire a teatro. Dico, le vendite dei biglietti sono aperte dal 30 maggio (!) ed ancora è possibile acquistare – cosa inaudita - posti di loggione, che normalmente vanno esauriti in pochi minuti! Deprimente davvero lo spettacolo della sala semivuota…  

Purtroppo siamo sempre lì: ancora a distanza di quasi un secolo, certa musica – allora rivoluzionaria – non ha sfondato, quali ne siano le ragioni, e rimane appannaggio di una ristretta cerchia di melomani che almeno si sforzano un po’ di capirla, non dico di andarne entusiasti. Sono le poche decine di spettatori che ieri sera hanno prolungato di 5 minuti, non di più, la già breve presenza in teatro per applaudire l’intera compagnia. Per il resto del pubblico, quello dedito alla fruizione passiva, questa rimane una musica largamente incomprensibile e quindi di scarsissimo appeal… e poi c’era ancora tutto il secondo tempo della Juve da godersi!

Ingo Metzmacher torna dopo l’esperienza positiva (per lui e i soliti pochi intimi) di Soldaten dello scorso gennaio; direzione precisa la sua, salvo che gli si deve essere incantata la manopola del volume sul fondo-scala: forse sarà colpa delle voci a scartamento ridotto (Wozzeck e Marie esclusi) ma sta di fatto che i suoni dalla buca hanno spesso e volentieri coperto alla grande le emissioni dal palco.

Nel ruolo del protagonista Michael Volle, unico con la Merbeth a farsi udire, ma unico anche a convincere pienamente sul lato interpretativo, Sprechgesang in particolare.

Wolfgang Ablinger-Sperrhacke impersona - come nel 2008, unico superstite di quell’edizione scaligera - Hauptmann, un ruolo musicalmente modellato su quello del wagneriano Mime, di cui non a caso il tenore è interprete di spicco (lo fu anche nel Rheingold di Cassiers-Barenboim del 2010). Fatico a ricordare la sua prestazione del 2008, ma temo che i 7 anni trascorsi stiano pesando assai sulle sue spalle. Il Doktor è un onesto Alain Coulombe, che però fatica (causa Direttore?) a far passare tutta la sua prosopopea di aspirante al Nobel. Roberto Saccà si cala nell’uniforme del Tambourmajor, e tutto sommato ne esce con merito, a dispetto del suo non essere un Heldentenor. Michael Laurenz è un dignitoso Andres, che pare addirittura intonato nel cantare la sua canzoncina nella seconda scena!

La protagonista è Ricarda Merbeth, con Volle l’unica a passare sopra i fracassi orchestrali: però il pathos che dovrebbe caratterizzare Marie mi è parso assai smunto. Margret è impersonata da Marie-Ange Todorovitch: direi senza infamia e senza lode, il suo Lied del terz’atto non è stato proprio entusiasmante.

Rudolf Johann Schasching è il pazzo, che Flimm tiene sempre in scena, affidandogli anche l’incarico di dare al bimbo la ferale notizia (Dein Mutter ist tot). Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius sono discreti interpreti dei due garzoni, insieme all’altro accademico Sascha Kramer (soldato). Il bimbo di Marie e Wozzeck è Tito Comoglio. Cori (grandi e piccoli) di Casoni su livelli di onestà professionale.
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Lo spettacolo di Jürgen Flimm (oggi ripreso da Giovanna Maresta) fa sempre la sua dignitosa figura a quasi 20 anni di distanza e la potrebbe fare ancora nel 2037, se la Scala nel frattempo non sarà stata venduta (more-Smeraldo) ad un Oscar di passaggio che ne faccia un luogo di happening, più accogliente e divertente di quanto non sia oggi, per i turisti orientali.

21 luglio, 2015

Ultime del Moro alla Scala

 

Ieri sera una Scala con parecchi vuoti ha offerto la penultima recita di Otello (quello di Rossini, reso obsoleto - secondo la vulgata – da Verdi) accolto alla prima da feroci contestazioni seguite poi da blande approvazioni.

Sul podio Muhai Tang, un cinese! A dirigere Rossini?! Evidentemente a qualcuno la cosa deve far venire l’orticaria… però, ricordato che quella cinese è una civiltà che poco ha da imparare dalla nostra, io mi limito, nel mio microscopico, a far funzionare la memoria, ricordando una sua eccellente interpretazione di Sheherazade nel non troppo lontano 2010, all’Auditorium con laVERDI, in un concerto tutto russo.

E poi, per quante remore si possano avanzare sulle registrazioni elettroniche, la sua direzione dell’Otello a Zurigo nel 2012 non mi parrebbe proprio da… Alcatraz, tutt’altro! In effetti anche ier sera il 65enne da Shanghai a me personalmente non è per nulla dispiaciuto, avendo fatto suonare l’orchestra in modo apprezzabile e diretto e accompagnato i cantanti con sicurezza: insomma, una più che dignitosa concertazione. Da elogiare in buca il primo corno nella mozartiana (K467) introduzione all’entrata di Desdemona e clarinetto e flauto nell’accompagnamento al salice, con l’arpa peripatetica sul palco.

I tre tenori. Gregory Kunde è un Otello magari un po’ troppo verdizzato, senza tentazioni pericolose (si guarda bene dall’inventare – come fa Osborn a Zurigo - il RE sovracuto nel sento infiammarsi il cor) e ciò non guasta affatto, mettendo meglio in risalto le differenze di carattere con il Rodrigo di Juan Diego Florez, sempre sicuro e convincente in tutta la gamma (RE compreso). Chi ha una bella voce, ma ahilui di portata limitata, è Edgardo Rocha, uno Jago che fatica a farsi udire specie nell’ottava bassa.

La Desdemona di Olga Peretyatko è condizionata dalla… voce del soprano russo, che scarseggia di profondità nei centri e ghermisce gli acuti con qualche approssimazione: ormai ad anni di distanza dai suoi esordi mi pare arduo immaginare che possa salire ulteriormente di livello, il quale rimane discreto e non di più.

Efficace invece suo padre, Roberto Tagliavini, bella voce corposa e penetrante, così come quella dell’Emilia di Annalisa Stroppa: due comprimari davvero all’altezza. Anche Nicola Pamio è un Doge più che dignitoso. Sehoon Moon (con tanto di pizzo lungo e intrecciato, alla mandarino) canta in scena e non dietro le quinte, il che fa perdere parecchio pathos alla sua dantesca esternazione.

I seguaci di Otello e il Coro di Casoni hanno dato il loro valido contributo alla generale buona riuscita della recita sul fronte musicale. E il pubblico ha infatti tributato a tutti calorosi applausi con punte di trionfo per JDF. Allo spegnersi del MIb conclusivo un isolatissimo buh si è udito dalla seconda galleria, immagino indirizzato alla regìa, visto che durante tutta la recita non c’erano stati che applausi, anche ai due ritorni di Tang sul podio. E quindi facciamo un po’ di conti in tasca a Jürgen Flimm.

Dico subito che il regista - qui anche in veste di co-produttore, essendo lui sovrintendente dell’Unter-den-Linden, che affianca la Scala in questa proposta – non ha fatto troppi danni al soggetto originale, e questo è già un merito. Magari ha cercato di re-shakespeare-izzarlo, viste le distanze che il libretto di Berio (mutuato da Ducis) presenta rispetto la tragedia del genio di Stratford.    

O magari di Boito-izzarlo, se prendiamo ad esempio il personaggio di Jago: che in Shakespeare è un genio del male mosso da cieco vittimismo e in Boito il genio del male tout-court, mentre per Ducis-Berio è un poveraccio frustrato in cerca di rivincite. Ecco, Flimm ci presenta il suo Jago come dominus dell’intera vicenda, infatuato di una per lui irraggiungibile Desdemona (che surroga accompagnandosi spesso ad una controfigura della protagonista). La spiegazione esplicita del movente dello sbifido individuo ci viene mostrata all’inizio della scena V del prim’atto, dove lui entra subito dopo che Desdemona ed Emilia dovrebbero essere uscite: qui invece Jago grida la sua maledizione alla donna rovesciandola su un tavolo in un atto quasi di stupro… E Jago fa spesso capolino dalle quinte ad origliare conversazioni, poi quale arbitro dell’incontro di fioretto Otello-Rodrigo (che peraltro si svolge in un ring di boxe) fino a comparire – dopo morto! – alla fine, nel corridoio della platea (sempre accompagnato dalla sua finta-Desdemona) e cantando la parte di Lucio (così si risparmia un quarto tenore, smile!) quasi a pilotare anche la conclusione della vicenda.  

Siccome si rimprovera sempre al libretto la sostituzione – quale prova dell’infedeltà di Desdemona – del fazzoletto con un biglietto galante, ecco che Flimm fa comparire la donna, anziché alla scena IV, già in quella iniziale, dove lei lascia cadere, con malcelata indifferenza, un fazzoletto ai piedi di Otello (?!?)

A queste quasi innocue trovate va aggiunta – nell’atto finale - la comparsa in scena di una gondola (per la verità, la forma è più quella di una piroga indiana) che spiega a noi ignoranti il perché della canzone del gondoliere (cinese, poi! qui siamo davvero avanti con i tempi della globalizzazione…) la quale fungerà anche da letto di morte della protagonista.

Quanto all’ambientazione, si può solo dire che – salvo al finale piombare al suolo dei velari-scena, che mostrano i macchinari del teatro e coro e comparse in abiti moderni – sia collocata in un tempo imprecisato: c’è un po’ di Shakespeare (e dagli!) a giudicare dalle lattughe (o gorgere) che circondano i colli di senatori e nobili, tutti in rigoroso nero-da-cerimonia; ma i cappelli a cilindro ci portano come minimo nell’800, così come gli abiti delle signore. Magari le sedie in plastica da giardino sono ancora un filo più moderne, ma comunque non si sono notati i-pad, smart-phone, beretta-m92, mitragliette a canna corta né sigarette elettroniche, ecco.

Per tirare le somme: magari questa riproposta scaligera dell’Otello rossiniano dopo… secoli meritava qualcosa in più, ma diciamo che poteva andare assai peggio: almeno Rossini lo si è potuto gustare (parlo per me, ovviamente) con una certa soddisfazione. E ciò è un buon antipasto per il ROF-36, che arriva fra poche settimane.