allibratori all'opera

bonifacio o donaldo?
Visualizzazione post con etichetta chéreau. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta chéreau. Mostra tutti i post

08 novembre, 2018

Elektra è tornata in Scala


Ieri sera la Scala ha offerto la seconda delle sette recite della straussiana Elektra, una ripresa della produzione del 2014, l’ultima impresa registica del compianto Patrice Chéreau. Di quella produzione, a parte l’allestimento, è sopravvissuta la voce della venerabile Waltraud Meier, che già 4 anni orsono mostrava ampiamente la corda, quindi si può immaginare come sia oggidì (della serie: com’è difficile appendere la voce al chiodo...) 


Restando alle voci, una delle mie osservazioni critiche di allora (qui richiamate) riguardava i tagli apportati alla partitura (nulla di nuovo peraltro) che riguardano principalmente il soprano protagonista: la Herlitzius del 2014 (secondo me, date le sue strabordanti doti) avrebbe meritato che fossero riaperti. Ecco, la Ricarda Merbeth di oggi avrebbe invece bisogno di tagli almeno doppi, per non finire... arrosto! Il mio personale rapporto diretto con lei (oh, mantenuto ad almeno 20-30 metri di distanza, eh!) va da una promettente Leonore del 2011 ad una sufficiente Isolde del 2017, ad una nuova Leonore, ma in regresso, nel 2018, per arrivare a questa francamente anonima Elektra: ieri poi ha sfoggiato (in negativo, s‘intende) un vibrato davvero sgradevole.

Regine Hangler è invece una convincente Chrysothemis, ruolo non proibitivo ma non per questo da prender sottogamba: e lei ci si è evidentemente applicata con grande solerzia, mostrando bella impostazione e corposità di suono.

L’Orest di Michael Volle forse non raggiunge le vette del grande Sachs nei Cantori della scorsa stagione: certo il personaggio è per qualità e quantità assai più abbordabile e meno centrale di quello wagneriano...

Il figlio di migranti siculi Roberto Saccà (non ditelo a Salvini) fa la sua bella figura nei panni, peraltro succinti, causa subitaneo accoltellamento... di Egisth.

Tutti gli altri (e altre) su livelli dignitosi.

Christoph von Dohnányi è stato oggetto dell’ormai proverbiale annuncio di Pereira subito prima della recita: il quasi novantenne vegliardo non ha retto l’urto della prima di domenica e lo hanno dovuto trasferire in ospedale a Monaco di Baviera (ovvio, essendoci di mezzo Strauss...) per accertamenti. Così ier sera è salito sul podio uno che sta già qui a Milano per preparare la prima assoluta di Fin de partie di Kurtág, che va in scena dal prossimo 15 novembre: trattasi di Markus Stenz, che per la verità se l’è cavata da navigato routinier, fidandosi della preparazione dell’Orchestra, che mi pare abbia ben meritato. 

In sostanza, un evento per nulla memorabile, ma ascoltare questa musica ti fa sempre venire i brividi e sconvolge le budella, e così deve averla pensata anche il pubblico dei rari nantes approdati al Piermarini.

11 giugno, 2014

La… Herlitzius di Strauss alla Scala

 

Ieri la Scala – in un teatro non propriamente esaurito - ha ospitato l’ultima recita di Elektra, accolta in precedenza da consensi praticamente unanimi, sia per la prestazione musicale di Salonen&C che per la messinscena del compianto Patrice Chéreau.


Devo dire del tutto serenamente che – a giudicare da quest’ultima recita – lo spettacolo è stato salvato quasi esclusivamente dalla Evelyn Herlitzius e – solo in parte – da Salonen. Per il resto siamo in una risicata sufficienza (la Pieczonka, discreta nell’ottava alta ma deficitaria sotto) o addirittura in una desolante nullità (spiace che tocchi alla grande Waltraud Meier, ma quando dal loggione non si riesce a sentire distintamente una sola sillaba di ciò che canta… è detto tutto). Si aggiunga a tutto ciò che il povero Pape è stato in pratica costretto a cantare con mezza voce (e se ne è scusato con eloquenti gesti alla chiamata singola) e il quadro è completo. Tutti gli altri interpreti su un piano di dignitosa routine.

Salonen da parte sua ha fatto suonare assai bene l’orchestra scaligera, però come se in programma ci fosse la… Alpensinfonie! E così le voci (Herlitzius esclusa) già poco o tanto deficitarie di loro, sono state spesso e volentieri coperte dai suoni provenienti dalla buca.

Invece è proprio la straordinaria prestazione della Herlitzius che mi dà lo spunto per sollevare il problema (annoso nella fattispecie) dei tagli che vengono tradizionalmente apportati a questa partitura e che - almeno una volta tanto, quando si dispone come qui del miglior interprete sul mercato - avrebbero potuto essere riaperti, consegnando al pubblico l’opera nella sua splendida interezza. Peccato che così non sia stato: una bella occasione perduta.

In questa produzione ne sono stati praticati cinque (diciamo: statisticamente nella media dei vari allestimenti e incisioni). In termini di durata siamo attorno ai 6-7 minuti, poca roba, che di per sé non giustificherebbe di certo l’operazione. Essendo quasi tutti però sulla parte della protagonista, è comune supposizione che siano fatti per… risparmiarle la voce: spiegazione abbastanza di comodo, direi; e che - fossi nella strepitosa Evelyn - tenderei a respingere decisamente.

Certo, per chi conosce poco il testo e meno ancora sa cavarsela con il tedesco, possono sembrare tagli innocui (se non addirittura… benefici!) ma in realtà innocui non sono proprio per nulla. E che lo stesso Strauss ai suoi tempi li avesse magari tollerati non è un buon motivo per continuare a perpetrarli, specie in produzioni che si vogliono e si definiscono epocali. Purtroppo si tratta di mutilazioni che, piccolo o grande, qualche danno lo fanno: alla musica, privandoci del ritorno di molti dei temi dell’opera, ed anche alla drammaturgia, nascondendoci alcuni interessanti squarci sulla personalità di Elektra. Vediamoli in dettaglio (testi in italiano, traduzione di Franco Serpa per la Scala, con le parti tagliate evidenziate in giallo). Ho indicato i tempi con riferimento ad una delle (due sole?) incisioni complete disponibili sul mercato (Solti/Nilsson).

1. Scontro Elektra-Klytämnestra: dal #240 a #255 della partitura, per un totale di 94 battute (circa 2’10”). È sicuramente il più pernicioso, in quanto devasta letteralmente uno dei momenti topici del dramma, quello in cui Elektra, che ha convinto la madre della necessità di un sacrificio umano (una donna) per esorcizzare i suoi incubi notturni, le annuncia che la vittima sarà proprio lei stessa.

Elettra (balza dal buio verso Clitennestra, sempre più le si accosta facendosi sempre più terrificante)
Quale sangue? Il sangue del tuo collo,
quando t’abbia agguantato il cacciatore!
Sento che corre per le stanze, sento
che alza la tenda del letto: chi scanna
la vittima nel sonno? Egli ti stana,
scappi gridando, e sempre ti è alle spalle:
ti incalza per la casa! Fuggi a destra,
c’è il letto! A sinistra, il bagno fuma
sangue! Dal buio e dalle torce cade
su te rete mortale nero-rossa –
(Clitennestra, sconvolta da muto orrore, vuole rientrare. Afferrandola per la veste, Elettra la trascina in avanti. Clitennestra arretra verso il muro. Ha gli occhi sbarrati, dalle mani tremanti le cade il bastone.)
Giù per le scale lungo i corridoi,
va di portico in portico la caccia –
ed io! io! io che l’ho lanciata,
io sono come un cane sui tuoi passi,
cerchi una tana, addosso mi ti avvento
da un lato, così ancora ti incalziamo –
fino a un muro e lì tutto si chiude,
pur nel profondo buio io lo vedo,
un’ombra, poi le membra e del suo occhio
il bianco vedo, là ci attende il padre:
nulla osserva, ma tutto deve compiersi:
presso i suoi piedi noi ti costringiamo –
Vorresti urlare, ma l’aria ti strozza
l’urlo incompiuto e l’abbandona a terra
giù senza suono. Come ossessa il collo
offri nudato, senti nella sede
della vita vibrare il taglio, invece
egli il colpo trattiene: non è il rito
perfetto. Nel silenzio ascolti il cuore
in petto martellarti: quel momento
– ti si stende davanti come un fosco
golfo di anni. – Il momento ti è dato
per provare quel che il naufrago sente,
quando si perde l’urlo tra le nubi
di caligine e morte, quel momento
ti è dato perché tu possa invidiare
ogni inchiodato al muro della cella,
chi dal fondo di un pozzo invoca morte
come salvezza – perché tu a te stessa,
tu sei tanto inchiodata, come fossi
nel ventre arroventato di una bestia
di bronzo – e come ora non hai grido!
Qui sto io davanti a te, con l’occhio fisso leggi
la tremenda parola che sul volto m’è impressa:
pende dal cappio che tu stessa hai teso,
l’anima, scende l’ascia sibilando,
ed io ci sono e finalmente vedo
la tua morte! Finiscono i tuoi sogni,
né io sognerò più, e chi ancora è vivo
trionfa e della vita può bearsi!

Come si può constatare, il taglio ci priva del racconto dei macabri particolari dell’autentica caccia-alla-donna di cui la regina sarà vittima (secondo le allucinate visioni della figlia) e delle terrificanti pressioni psicologiche prima ancora che delle ferite materiali cui verrà sottoposta.

Soprattutto non ci chiarisce fino in fondo chi dovrebbero essere i giustizieri della regina: il testo mutilato infatti lascia in campo soltanto Elektra e il cacciatore (Orest, come si deduce dal contesto e dai suoi temi musicali) ma non permette di riconoscervi (anche a mezzo della musica!) lo spettro di Agamemnon.

E appunto la musica che si perde è tutt’altro che puro riempitivo: è un drammatico declamato della protagonista, accompagnato da almeno una dozzina di Leit-motive dell’Opera, che come sempre ci chiariscono ciò che nemmeno le parole possono spiegare.  

2. Confronto Elektra-Chrysothemis: sono precisamente tre tagli, a breve distanza uno dall’altro, alla scena in cui – dato per morto Orest - Elektra cerca in tutti i modi di convincere la sorella ad essere sua complice nella vendetta.   

a) da #59a a #68a della partitura, per un totale di 72 battute (circa 1’).

Elettra
Tu! Tu!
Sei forte!
(attaccata a lei)
Sei così forte! T’hanno
fatto robusta le virginee notti.
In ogni membro hai forza!
I tuoi tendini sono di un puledro,
agili sono i piedi.
Come agili e flessuosi –
senza sforzo li abbraccio –
sono i tuoi fianchi!
Nei pertugi ti insinui, tu sai sollevarti
per le finestre! Ch’io ti senta le braccia:
come sono fresche e forti! Se mi respingi,
sento che braccia sono queste. Ciò che stringi
a te, tu potresti schiacciarlo. Tu potresti
soffocare me o un uomo tra le tue braccia.
C’è forza in ogni membro!
Erompe come un freddo
sotterraneo torrente dalla roccia. Scorre
nell’onda dei capelli sulle salde spalle.
Sento dalla freschezza della pelle
il calore del sangue, con la guancia
sfioro il tenue velluto delle braccia!
Sei solo forza e sei bella,
sei un frutto nei giorni del raccolto.
Crisotemide
Lasciami!

b) da #89a a #102a della partitura, per un totale di 120 battute (circa 1’45”).

Crisotemide (chiude gli occhi)
No, sorella.
Non dire queste cose in casa nostra.
Elettra
Oh sì! Più che sorella io ti sono
da questo giorno in poi: io t’ubbidisco
come una schiava. Quando avrai le doglie,
presso al tuo letto resto giorno e notte,
scaccio le mosche, attingo l’acqua fresca,
e quando a un tratto una creatura viva
sul nudo grembo sta, nostro sgomento,
in alto la sollevo, così in alto
che il suo sorriso giù fino al profondo
segreto abisso del tuo cuore scenda
e lì per questa luce il freddo orrore,
l’ultimo, si discioglie e in chiare stille
puoi sfogare il tuo pianto.
Crisotemide
Andiamo via!
In questa casa muoio!
Elettra (ai suoi ginocchi)
Bello hai il labbro,
quando si schiude all’ira! Dalla bocca
pura, forte, tremendo un grido certo
risplende, tremendo come il grido
della dea della morte, se ai tuoi piedi
si giace come io ora.
Crisotemide
Di che parli?
Elettra (si alza)
Prima che me tu lasci
e questa casa, devi farlo!
Crisotemide (vuole parlare)
Elettra (le chiude la bocca)
Altra
strada non c’è che questa. Non ti lascio,
se prima bocca a bocca non mi giuri
che lo farai.

c) da #104a a #108a della partitura, per un totale di 36 battute (circa 30”).

Crisotemide (si divincola)
Lasciami stare!
Elettra (la riafferra)
Giura,
verrai stanotte ai piedi della scala,
quando è silenzio tutto!
Crisotemide
Lascia!
Elettra (la tiene per l’abito)
Donna,
non rifiutarti! Il corpo tuo di sangue
non macchierai: dall’abito imbrattato
nelle vesti nuziali intatta entri.
Crisotemide
Lasciami!
Elettra (sempre più incalzante)
Non esser vile! Se ora
il tuo brivido vinci, avrai compenso
di brividi d’amore notti e notti –
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Sì, verrai!
Crisotemide
Non posso!
Elettra
Guarda,
giaccio davanti a te, ti bacio i piedi!
Crisotemide
Non posso!
(Scappa dentro la porta della casa.)
Elettra (le urla dietro)
Maledetta!

Questi tre tagli sul piano strettamente musicale ci privano di alcuni splendidi passaggi, e al contempo mutilano non poco l’evocazione della morbosa, quanto interessata, attitudine di Elektra verso la sorella minore: ci troviamo ammirazione quasi erotica, perfida adulazione e promesse di felicità e di aiuto, in cambio della complicità nell’uccisione di madre e concubino. Insomma, tutte caratteristiche salienti della complessa personalità della protagonista che questa amputazione fa abbastanza sfumare, se non proprio scomparire. Fra l’altro, sul piano drammatico, la stessa imprecazione finale di Elektra finisce per diventare affrettata e meno giustificata, in assenza di tutto quel crescendo di pressione cui invano la sorella era stata sottoposta.

3. Incontro Elektra-Orest: da 7 battute dopo #166a a #171a, per un totale di 33 battute (circa 1’5”).

Elettra (con un grido)
Oreste!
(pianissimo, tremante)
Oreste! Oreste! Oreste!
Non si muove nessuno! Gli occhi tuoi
lascia ch’io guardi, sogno, visione
a me donata, più bella dei sogni!
. . .
Vedi, fratello? Tutto ciò che ero,
io l’ho sacrificato. Il mio pudore
l’ho offerto, il pudore che è più dolce
di tutto, che come un velo lunare
di argenteo chiarore cinge ogni donna
e lei difende e l’anima sua
da ogni vergogna. Vedi, fratello?
Donare al padre ho dovuto la dolce
trepidazione. Non credi che quando
gioivo del mio corpo, non salivano
i suoi sospiri, non saliva il gemito
fino al mio letto?
(con mestizia)
Sì, sono gelosi
i morti: ed egli mi ha mandato l’odio,
l’odio dagli occhi vuoti, come sposo.
Così mi sono fatta profetessa
e da me, dal mio corpo nulla ho tratto,
nulla se non imprecazioni e angoscia!
Perché mi fissi spaventato? Parla!
Parlami dunque! Tremi in tutto il corpo?

Qui perdiamo invece un particolare importante del morboso e ambiguo rapporto di Elektra col padre, che spiega i disturbi psicotici della donna (che erano studiati dalla psicanalisi proprio negli anni della composizione dell’opera) e soprattutto l’immanente presenza (sia pure soltanto in… musica!) di Agamemnon in ogni angolo dell’opera. E lo stesso regista - alla fine delle sue note apparse sul programma di sala - cita il passaggio tagliato (e con apparente rammarico!) proprio per sottolinearne la valenza psicologica.
___
Ciò mi dà lo spunto per qualche considerazione sulla regìa. Della professionalità e delle indiscusse capacità di Chéreau di creare emozioni non è certo il caso di discutere. È invece lecito avanzare qualche dubbio su certe sue, diciamo, trovate, che paiono della serie famola strana.

Allora: il sangue. Chéreau, già prima che incominci la musica, ne fa sparire anche le ultime labili tracce, sparse in giro su scale e cortile, mostrandoci le serve che le cospargono di sabbia. Nessuno pretende di vedere (come è capitato altre volte) scene raccapriccianti con docce di sangue sul palcoscenico, e del resto basta leggere il libretto per constatare come di sangue soltanto si parli, ma non lo si veda giammai. Ecco che invece il regista decide di mostrarci i due omicidi (di cui nel libretto abbiamo soltanto notizia da urla strazianti di Klytämnestra ed Aegisth provenienti dall’interno del palazzo) in primo piano: col cadavere della regina trascinato all’aperto da Orest e poi con il truce, disgustoso e verista accoltellamento dell’usurpatore da parte del precettore (?) del medesimo Orest. Davvero non è un bel servizio fatto alla coppia Hofmannsthal-Strauss!

Che dire della scure (quella con cui fu assassinato Agamemnon) che Elektra ha gelosamente conservato - come ha rivelato alla sorella - seppellendola vicino ad una delle porte della reggia? Il relativo Leit-motiv si ode nientemeno che all’undicesima battuta della partitura, però come per il sangue, anche della scure sentiamo soltanto parlare a più riprese da Elektra ma mai la vediamo. Nemmeno allorquando lei cerca di disseppellirla (allo scopo di usarla personalmente contro madre e concubino) dopo il rifiuto della sorella a farsi complice della vendetta e si mette furiosamente a scavare proprio mentre arriva Orest. Distratta dall’intrusione del (non ancora agnito) fratello, lei dimentica l’ascia e se ne ricorda quando è troppo tardi (Ich habe ihm das Beil nicht geben können!Invece Chéreau, in un impeto didascalico, ci mostra Elektra che recupera la scure, la libera dalle bende in cui era avvolta in modo che tutti la possano chiaramente vedere, e però subito la rinasconde (mah…)

Un’altra gratuita libertà che Chéreau si prende riguarda l’arrivo di Orest presso Elektra: nell’originale ciò avviene solo al termine del confronto fra le due sorelle, chiuso dal disperato Sei verflucht! Nun denn, allein! della protagonista. Invece il regista ci mostra Orest, seduto nella penombra, assistere a pochi metri di distanza a tutto il dialogo fra le sorelle, dal quale dovrebbe a questo punto ed in modo inequivocabile scoprire l’identità di Elektra, il cui nome viene ripetutamente fatto da Chrysothemis. Ma ciò contrasta in pieno con quello che accade subito dopo, quando Orest – come da libretto - mostra di non riconoscere per nulla Elektra!  

Anche il finale lascia perplessi: Orest nell’originale non si vede proprio, ma in compenso Chrysothemis ce ne parla come di un eroe portato in trionfo e letteralmente issato sulle spalle dai suoi fedeli. Chéreau invece lo fa entrare in scena e poi uscire da solo, con atteggiamento disgustato, ignorato da tutti. (?)

Quanto ai singoli personaggi, al di là della maestrìa con cui il regista li fa muovere, mi sentirei di criticare la sua Klytämnestra. Ecco come Hofmannsthal ce la presenta:  La regina è sovraccarica di gemme e talismani. Le braccia sono piene di monili. Le dita sono rigide di anelli. E Strauss letteralmente si supera nell’evocare tutto ciò in musica: il Leit-motif dei talismani magici erompe al #177 della partitura, subito prima dell’esternazione della regina (Ich habe keine guten Nächte). È il flauto, accompagnato dai tintinnii del glockenspiel e dagli accordi arpeggianti delle… arpe (qui si anticipa il Rosenkavalier!) a presentarci l’assurda quanto appariscente bardatura di Klytämnestra. Che però Chéreau minimizza, limitandosi ad una collana da bigiotteria elegante e a diversi anelli, su un abito altrettanto sobrio indossato da una donna dai tratti nobili ed apparentemente equilibrata; ed eliminando il bastone su cui si dovrebbe sorreggere la barcollante e nevrotica regina nell’originale.

Se devo citare invece il  momento più riuscito di tutta la rappresentazione, questo è la scena dell’incontro fra madre e figlia che per un momento – splendidamente sottolineato dalla musica di Strauss – esternano i reciproci sentimenti, e dove Elektra ha l’unico sussulto di amor filiale: perché, come acutamente scrisse uno dei massimi esegeti straussiani, Richard Specht, nel suo saggio sull’opera (1921) l’odio di Elektra (verso la madre) è amore pervertito.
___
Peduzzi mi sembra uno che porta sempre lo stesso abbigliamento a Capodanno, Pasqua, Ferragosto e SanMartino: ha al massimo il 50% di probabilità di azzeccarci con la stagione. Così le sue scene vanno bene per questa Elektra, come andarono benissimo per la Casa di morti; ridicole invece furono per Tristan, Carmen e Tosca, per citare solo opere viste qui al Piermarini.

___

Allego infine un saggio del sommo Quirino Principe su Strauss (una specie di bigino del ponderoso volume dello stesso Autore) apparso su Musica&Dossier del marzo 1988.


10 marzo, 2010

Da una casa di morti alla Scala


Z mrtvého domu di Leoš Janáček è forse il fiore all'occhiello del cartellone scaligero 2009-2010: prima rappresentazione italiana in lingua originale, direttore-super (Esa-Pekka Salonen) e regista-super (Patrice Chéreau). Il fatto di arrivare buona ultima – tre anni dopo la prima di Vienna, e poi Aix e il Met - a mettere in scena questa co-produzione dovrebbe dare alla Scala qualche vantaggio legato all'esperienza, sul fronte registico, ma anche musicale. Prima di questa produzione - creata originariamente e già in DVD da Boulez, cui è subentrato, dal Met, Salonen – avevamo la fondamentale interpretazione dei Wiener con Charles Mackerras, autore della moderna edizione critica di quest'opera che Janáček non aveva fatto in tempo ad ultimare in tutti i dettagli, e che i suoi contemporanei – magari in buona fede - avevano inizialmente adulterato alla grande, particolarmente nel finale, dove l'originale era stato totalmente travisato. Agli interessati segnalo che sabato 20 marzo, ore 18, la Bayerischer Rundfunk trasmette una registrazione dell'opera dal Met, con Salonen.
Lo scorso 24 febbraio, presso il Ridotto Toscanini, il consueto incontro di Prima delle prime - meritoria iniziativa de Gli amici della Scala - aveva ospitato un'interessante presentazione di Angelo Foletto (che di questi incontri fu l'ideatore più di 10 anni fa) e del Prof. Fausto Malcovati, che si erano soffermati sul retroterra letterario (dostojevskiano, da esperienza diretta) dell'opera e sulla maestrìa con cui Janáček ha saputo tradurre in suoni – ma prima ancora in una solida struttura drammatica - questo allucinato e allucinante squarcio di vita vissuta dentro un campo di lavoro russo della prima metà del 1800.
Janáček resta ancorato saldamente alla tonalità (e alla modalità) anche se nelle ultime opere decide – ma sembrerebbe più che altro per vezzo? – di abolire le armature di chiave dai suoi pentagrammi (con ciò infarcendoli poi di bemolli, diesis e bequadri, a la dodecafonica…) Altra curiosità: il personaggio di Aljeja fu assegnato dal compositore ad una soprano, decisione rispettata da Mackerras a suo tempo (l'estensione va dal MIb grave al SIb acuto) ma in questo, come in altri allestimenti, è interpretato da un tenore, il che riduce ad una sola (e marginale) la voce femminile all'interno dell'opera.
Opera davvero quasi unica nel suo genere, sia dal punto di vista della trama, di fatto inesistente e ridotta ad una sequenza di flash di vita nel bagno penale (Janáček eveva personalmente fatto un cut&paste di spezzoni del testo russo) e conseguentemente dal punto di vista musicale: una sequenza di motivi, frasi e incisi che apparentemente sembra caotica e priva di qualunque narrativa. E forse non solo apparentemente, se dobbiamo credere a ciò che lo stesso compositore confidò del suo modo di procedere nella stesura della parte musicale. La stessa ouverture, scritta prima del resto, ha solo vaghissimi legami con il corpo dell'opera. Anche senza studiare la partitura, basterà leggere la minuziosa analisi di Harry Halbreich per rendersi conto di come siamo di fronte ad una musica che – con uso stupefacente del colore e del timbro – ci fa vedere con l'orecchio la condizione di vita di quello spicchio di società e lo stato esistenziale di ciascuno dei suoi componenti, ognuno dei quali ha una diversa personalità, una diversa storia e un diverso approccio al proprio futuro.
Finisce con l'invocazione alla libertà (questo il finale adulterato della prima edizione, che chiudeva con un maestoso SI maggiore):




.
.
poi frustrata – nell'originale oggi per fortuna ripristinato - dal perentorio DO con cui la guardia urla il suo terzo Marrrš! Però un fondo di speranza rimane, se è vero che la marcia finale (a sipario velocemente calante) è un allegro che sfocia nel REb maggiore.
Ora, suonare e cantare un'opera siffatta credo sia un'impresa di per sé (questo ne spiega forse lo scarso numero di rappresentazioni) e quindi va dato merito a Salonen e ai cantanti di aver offerto una prova maiuscola, che gli ha meritato un grande tributo da parte del pubblico di una Scala che mostrava pochissimi vuoti, nonostante il nevischio imperversante là fuori.
Qualche considerazione sull'allestimento, che per un'opera siffatta è a dir poco cruciale.
Mentre le scene di Peduzzi (quanto poi imposte dal regista è da vedere) sono di una piattezza fino eccessiva (almeno all'inizio del secondo atto – siamo all'aperto ed è una giornata di sole, per quanto siberiano - un pochino di luce e di colore in più non dovrebbero mancare) devo dire che la regìa di Chéreau mi è sembrata di una fedeltà quasi assoluta al testo e alla musica di Janáček. Persino minuziose didascalie del libretto sono rispettate quasi alla lettera. Giustamente il regista aggiunge idee sue proprie, e geniali (come il particolare degli occhiali persi da Gorjancikov e recuperati da Aljeja, oltre che le movenze curatissime di ciascun personaggio). Ma chiunque abbia letto il libretto (non necessariamente anche Dostojevski) si immagina precisamente di vedere in scena ciò che Chéreau ci propina. Praticamente perfetto, e complimenti!
Ma allora viene spontanea la domanda (maliziosa) al grande regista: perché non ha seguito la stessa strada quando (35 anni fa ormai) inscenò il Ring del centenario a Bayreuth, o anche quando (2 anni fa o poco più) ci presentò il Tristan, qui alla Scala?
Non solo, ma lo Chéreau di questa Casa sembra anche avere sconfessato quello che, proprio a proposito del Ring, negava ogni cittadinanza alla Zeitlösigkeit dell'Opera, calando proditoriamente il mito wagneriano nell'attualità di oggi. Invece oggi abbiamo uno Chéreau che ci mostra – e lo dichiara apertamente nelle sue esternazioni – una vicenda che è fuori dal tempo, uguale a se stessa in tutte le epoche e sotto tutti gli orizzonti. Mah…
Chiudo prendendomi la soddisfazione – io dilettante-nessuno - di irridere al sommo Paolo Isotta, che sul Corriere ha scritto una recensione zeppa di sciocchezze e meritevole di querela da parte degli eredi del compositore. A cominciare dall'affermazione secondo cui il libro di Dostojevski sia ormai introvabile (giudicate voi). Poi, per lui nell'opera manca ogni barlume di quella commozione mistica onde Dostoevskij è pieno. Ma che opera ha visto? O che tasso alcolico aveva nel sangue? E ancora: Non narreremo delle vicende testuali dell'ultimo lavoro del compositore ceco, tanto complicate esse sono. Ma che libretto ha letto? Forse quello in ceco, dove anche lui – come la maggior parte di noi - non ci capisce nulla?
Ma la migliore è questa frase: E non ripeteremo nemmeno una sua colossale ingenuità, che porta gli occhi suoi propri a disprezzare il suo genio, essere la lingua ceca già musica, anzi la sola musica possibile, e i tentativi, paradossalmente a tratti riusciti, di scrivere musica ricalcante la lingua del suo Paese. Sì, era proprio ubriaco (Isotta, mica Janáček) adesso è sicuro!
Dopo aver dato del giovane a Salonen (essendo tutto relativo, il finlandese sarà magari giovane rispetto a Isotta, ma ha pur sempre 52 anni, o Isotta ha scoperto la sua esistenza solo oggi?) la chiusa dell'articolo è precisamente da gulag: Scrive Janáček in esergo alla partitura: «In ognuno di questi criminali c'è una scintilla divina». La sua Opera dimostra radicalmente il contrario. Intanto, se vogliamo stare all'ufficialità – il frontespizio della partitura, per l'appunto – Janáček vi scrive "In ogni creatura (tvor) una scintilla divina"; e poi, basta ascoltare la musica per convincersi che è proprio così. Ma Isotta lo pagano anche?

03 gennaio, 2008

Il Tristan di Chéreau-Peduzzi-Bickel: spettacolo sì... ma era Wagner?

Questa messa in scena del Tristan della Scala è stata da molti osannata e da alcuni vituperata. Fin qui, tutto normale, come si addice a qualunque circostanza del genere. Ma, come spesso accade, peana e stroncature sono motivati più da considerazioni estranee allo spirito e alla lettera della Handlung wagneriana, che non da precise valutazioni di merito.

Ormai si tende purtroppo a considerare - e quindi a giudicare - la messa-in-scena come un corpo separato dal resto dell’Opera, uno spettacolo fine a se stesso, senza tener conto che - massimamente in Wagner - essa è invece parte integrante del Gesamtkunstwerk e che le precise indicazioni didascaliche poste in partitura dovrebbero avere la stessa rilevanza - e meritare lo stesso rispetto - che si deve alle notazioni musicali e alle parole cantate dagli interpreti.

Intendiamoci: che Chéreau sia in grado di mettere in piedi una regia geniale, nessuno lo mette in dubbio (oltre ad averne le doti, è pagato - ed assai profumatamente - per questo); idem per le scene di Peduzzi o i costumi della Bickel. Ma geniale - e di sicurissimo effetto - sarebbe anche (per dirla con James Levine) lo scambio delle parti musicali fra la sezione degli archi e quella dei fiati (domanda: perchè ad un geniale musicista come Barenboim non è ancora venuta in mente, questa fantastica idea?)

Come è chiaro da questa premessa, non sarò affatto tenero con gli addetti ai lavori extramusicali di questo Tristan (musicisti, cantanti e direttore sono invece stati di livello assolutamente mitteleuropeo).

Qualche osservazione, dopo esperienza diretta dell’ultima rappresentazione, del 2 gennaio 2008.

La principale critica cui si espone questo allestimento sta nel fatto che esso, deviando ampiamente (quando non apertamente contraddicendole) dalle prescrizioni dell’Autore, finisce per trasmettere allo spettatore significanze e sensazioni diverse da quelle che l’Autore stesso aveva immaginato. O, nel migliore dei casi, introduce tali e tanti elementi di distrazione dell’attenzione dello spettatore da ciò che viene detto (cantato) sulla scena, da rendergli ardua la comprensione stessa del dramma, già di per se difficile per chi non conosce la lingua tedesca, o non si è più che assiduamente preparato facendo i compiti a casa, prima di andare a Teatro.

In particolare le scene (un poco anche i costumi) sono tali da appiattire i contrasti fra il mondo esteriore (ciò che appunto si vede) e gli stati d’animo dei protagonisti; e la regia, introducendo arbitrariamente elementi di eccessiva mobilità, contribuisce a distrarre lo spettatore, impedendogli di concentrarsi adeguatamente sui contenuti (di testo e musica).

Insomma: un allestimento che rende un cattivo servizio allo spettatore, prima e oltre che a Wagner; e che si fa apprezzare in misura inversa al grado di preparazione dello spettatore medesimo.


Atto I.
Nella prima scena Wagner prescrive un ambiente chiuso (da un tendaggio) e arredato con preziosi tappeti, mentre Isolde è abbandonata su un divano, con la testa fra i cuscini. Vuole evidentemente mostrarci lo stridente contrasto fra lo sfarzo materiale da cui Isolde è circondata (una Principessa che va sposa ad un Re, non so se mi spiego!) e la totale miseria spirituale che invece possiede il suo animo. L’attenzione deve essere tutta concentrata su questa dissociazione che caratterizza la psiche di Isolde, perdutamente innamorata di un uomo che non potrà avere (ma che dovrà vedersi accanto quotidianamente) e costretta a subire la vuota apparenza esteriore delle ricchezze che la circondano. Insomma: l’idea di una prigione dorata. Solo così si comprende appieno il drammatico sfogo di Isolde: “che questa nave se ne vada in malora, con tutto e tutti!”

Chissà perchè, invece, la scena di Peduzzi è uniforme, spoglia, tetra e grigia, e lo spazio è da subito aperto, lasciando più che intravedere le prosaiche attività della vita di bordo; su un vascello, per di più, che è l’esatto opposto di una ricca nave regale, ma assomiglia ad uno sgangherato e lurido mercantile. Se si voleva ambientare la scena nei nostri tempi, allora si doveva prendere una love-boat, non certo una carretta del mare, dove oggigiorno si stipano dei disgraziati clandestini! Quindi quel contrasto - fra lo sfarzo esteriore e la condizione psicologica di Isolde - si perde totalmente: anzi, lo spettatore riceve l’impressione - del tutto fallace - che lo stato d’animo di Isolde, e la sua successiva imprecazione, siano conseguenza della miseria di quell’ambiente inospitale, mentre le cose stanno in ben altro modo, come sappiamo!

Alla fine della prima scena Brangäne scosta la tenda, a seguito dello sfogo di Isolde (Luft!, Luft!): ora - ma solo ora, cari Chéreau-Peduzzi - nella seconda scena, si deve vedere tutta la nave, in particolare Tristan. C’è lui, indubitabilmente, dietro il “bisogno di aria“ di Isolde, che infatti immediatamente lo individua - così prescrive Wagner - e lo fissa intensamente, mentre lui guarda il mare, pensieroso. L’atteggiamento sbracato di Kurwenal ancora qui deve rappresentare un altro contrasto, quello che oppone l’oscuro sentimento che divora Tristan al goliardico cameratismo del suo entourage.

Ma, invece di marinai col morale alto, noi vediamo qui una ciurma di salariati, che sembra quasi sulla soglia dell’ammutinamento, il che stride maledettamente con ciò che si ascolta: l’intervento del coro dopo le parole di Kurwenal, caratterizzato da sana virilità e da allegro sarcasmo!

Altro particolare, non proprio secondario: qui è Brangäne che si deve muovere verso Tristan, attraversando la nave da prua a poppa; solo all’inizio della quinta scena sarà Tristan a muoversi verso Isolde, dimenticandosi il pretesto di dover reggere il timone, pretesto che invece viene impiegato qui per rifiutare l’invito di Brangäne. Queste due diverse direzioni di traffico non sono per nulla casuali, ma sono parte del sottile gioco psicologico, un vero e proprio braccio di ferro, che è in atto fra i due protagonisti.

Se invece i movimenti dei personaggi sono abbastanza caotici (Brangäne che va e e viene, e parla più rivolta a Isolde che a Tristan, Tristan che scende dalla cabina di pilotaggio del cargo e avanza verso il centro della scena) quella differenza sostanziale non si percepisce e con ciò si perde comprensione delle implicazioni psicologiche che essa contiene.

Kurwenal (seguito poi dal coro) deve cantare dietro a Brangäne che si allontana, come un cane che continua ad abbaiare ad un intruso che viene cacciato. E il canto è pieno di sarcasmo, è quasi uno sfottò. Invece ciò che si vede è in totale stridore con ciò che si ascolta: Kurwenal e la ciurma che si muovono quasi con cattiveria, addirittura arrivando a spintonare qua e là la povera ancella...

Tornando da Isolde, Brangäne deve richiudere ermeticamente (sic! Wagner) la tenda poichè, nella terza scena, avrà luogo il colloquio riservato di Isolde con l’ancella, tutto incentrato sul racconto dei precedenti intercorsi fra Isolde e Tantris-Tristan, sulla disperante prospettiva che Isolde confessa a Brangäne e sulla sua conseguente decisione di servirsi del filtro di morte per metter fine alle sue pene. Invece qui resta tutto aperto e la cosa si aggiunge alla miseria dell’arredamento (e in particolare delle suppellettili: una lurida cassona rimpiazza il prezioso scrigno che conserva i filtri) nel distrarre la concentrazione dello spettatore.

All’inizio della quarta scena, Kurwenal deve irrompere spostando le tende, per annunciare che Tristan aspetta Isolde per accompagnarla dal Re. Tanto che Isolde sobbalza letteralmente! Qui invece lo si vede arrivare... da lontano. Poi Isolde, uscito Kurwenal, ordina all’ancella di preparare il filtro. E qui c’è un apparentemente piccolo particolare: la coppa destinata a ricevere il filtro deve essere d’oro (sic! infatti Isolde lo canta, proprio esplicitamente: “In die goldne Schale...“). Non è certo questo uno sfizio decadente di Wagner, ma la volontà di rappresentarci - ancora una volta - lo stridente contrasto fra la preziosità del contenitore materiale - che dovrà essere usato nientemeno che in occasione di un ufficiale brindisi diplomatico, a suggello di un trattato di pace! - e la miseria del suo contenuto spirituale. Questo contrasto si perde totalmente se - grazie a Chéreau e Peduzzi - si impiega una volgare, bianca scodella da latte, presa dalla misera dotazione di bordo, che non fa che appiattire tutto, e per di più contraddice in modo quasi ridicolo le precise parole pronunciate da Isolde. Ecco qui un piccolissimo, ma significativo, esempio delle gratuite stupidità del Regietheater.

La quinta scena si apre con l’ingresso di Tristan nel locale che ospita Isolde. Tutta la scena che porta al brindisi dovrebbe svolgersi a porte chiuse; soltanto quando si odono le voci dei marinai, che vengono dall’esterno, Tristan e Isolde si svincolano dall’abbraccio, prima che le tende vengano scostate. E dopo che le tende sono state aperte, e la ciurma ha potuto avere accesso alla vista di Tristan e Isolde, questi restano in reciproca contemplazione, fino a che Brangäne pone il manto regale sulle spalle di Isolde e Kurwenal pronuncia l’epicinio di Tristan. A questo punto Isolde deve cadere svenuta (sic!) nelle braccia di Tristan, e Brangäne la fa soccorrere dalle donne, mentre Tristan canta “O voluttà piena di frode! O felicità consacrata dall'inganno!”, prima della cadenza finale del coro, sul sipario che cala. E ancora una volta Wagner ci vuol mostrare un lancinante contrasto: fra la tempesta che si agita nei cuori dei due amanti - che deve ovviamente essere in primo piano - e la gran festa esteriore, che le fa da sfondo (Wagner lo scrive chiaramente: dall’esterno).


Invece i nostri fanno irrompere in primissimo piano e anzitempo masse di gente, a mescolarsi con i due protagonisti, col mantello che, invece che da Brangäne, viene portato a Isolde da diverse comparse e con Tristan addirittura sequestrato in un angolo da altre; e finalmente fanno apparire a bordo Re Marke. Di lui sappiamo, da Kurwenal, che è su una scialuppa che si avvicina alla nave, osannato dalla folla e dai marinai, che sventolano i berretti. L’ultima didascalìa del primo atto, subito prima che il sipario cali, quindi dopo che Isolde è svenuta fra le braccia di Tristan, ci informa che della gente è salita a bordo, scavalcando il parapetto della nave, su cui altri hanno appoggiato una passerella, e che tutti sono in attesa dell’arrivo degli attesi. Insomma: nessun indizio preciso ci porta a pensare che Re Marke sia già salito sulla nave, anzi la cosa sembrerebbe proprio da escludersi. La scena della consegna della promessa sposa a Re Marke ci verrà descritta con maggiori dettagli nel secondo atto, da Brangäne, che racconterà di Isolde, appena in grado di reggersi, portata verso il Re dalla mano tremante di Tristan, e di Melot che scruta insistentemente l’atteggiamento dell’eroe.

Invece Chéreau-Peduzzi ci mostrano Marke che raccoglie Isolde dal pavimento, mentre Tristan è sempre trattenuto in disparte da un gruppo di comparse. Così vediamo un sacco di gente, e Re Marke in persona, testimoni di una situazione - del tutto gratuita qui - di “tresca in flagrante“, che invece dovrà caratterizzare la fine del secondo atto (è lì che Re Marke deve fare la sua apparizione fisica, che sarà tanto più efficace proprio perchè prima, di lui abbiamo solo sentito parlare).


Insomma, tutto lo spirito della conclusione dell’atto viene stravolto, facendovi prevalere il gran bailamme esteriore, che invece dovrebbe restare sullo sfondo, a far da contrasto con il dramma dei due amanti.

Atto II.
È un atto così nudo e statico che soltanto una pervicace volontà distruttiva di regista e scenografo potrebbero fargli seri danni... e grazie al cielo Chéreau e Peduzzi si sono ben guardati dallo scatenare il loro genio in questa direzione. Ma una critica si può anche qui avanzare: perchè ostinatamente si devono bandire i segni esteriori?

Se Wagner scrive di un sedile fiorito, su cui si svolge quasi interamente la seconda scena, non lo fa di certo con intento banalizzante, ma per mostrare - qui, agli antipodi rispetto al primo atto - la totale assenza di contrasto fra lo spirito che ora alberga nei due cuori e la natura circostante, che adesso è benigna, amica, quanto era stata in precedenza ostile ed insopportabile. Peduzzi si attiene ad un certo minimalismo, che almeno è innocuo, ma che toglie non poco all’insieme. E poi - per dimostrare di esistere? - fa proprio una cosa da bastian-contrario. Nella scena del duetto d’amore, abbiamo un tetro e freddo ambiente, senza un filo d’erba e men che meno fiori. Poi, nella terza scena, dove avviene il fattaccio, si apre lo sfondo e ci fa vedere un pezzo di castello con verdi piante ornamentali!

Anche qui la regia - per mettersi in luce? - si prende delle libertà gratuite: in tutta la seconda scena Tristan e Isolde devono stare vicini, che più vicini non si può... invece qui li vediamo per lo più disgiunti, addirittura a metri e metri di distanza, come se ancora si fosse nel primo atto dove fra i due si svolgevano psicologiche schermaglie.

Atto III.

Didascalìa di pugno di Wagner: ambiente dimesso, castello semi-diroccato, erbacce ovunque, un gran tiglio, sotto il quale giace Tristan. Sarà anche una sua fissazione, ma per Wagner - come per altri tedeschi, musicisti e no - il tiglio deve pur significare qualcosa: lo troviamo nel Siegfried, a ristorare lo stanco eroe e ad ispirargli il pensiero della madre (pensiero che prende anche la mente di Tristan); e nei Meistersinger, dove profuma l’aria della splendida notte d’estate ed è testimone del commovente colloquio fra Eva Pogner e il padre Veit.

Per carità, Chéreau-Peduzzi abbassarsi a tanta sdolcinata oleografia? Che geni sarebbero? Mica sono ripetitivi loro, come quel routinario di un Barenboim che si ostina - più di 150 anni dopo! - a suonare ancora il Preludio Atto III proprio come Wagner lo ha scritto sul pentagramma, senza spostare una sola nota o un arco di legatura! No, per i nostri geni Kurwenal ha depositato Tristan ferito in un posto che assomiglia ad una delle stazioni della metropolitana di Roma, costruite nel '90 per i mondiali, e poi abbandonate: in un posto dove non c’è un filo d’erba, sullo sfondo il muro romano (vero!) e un pò di terrapieni e fondazioni incompiute, altro che tigli! Però, allorquando Tristan si desta e chiede a Kurwenal “dove mi trovo?”, lo scudiero candidamente risponde: “ma sei a Kareol, nel castello dei tuoi avi, non lo riconosci?”

Tristan dovrebbe rimanere sempre nel suo giaciglio, al massimo sollevandosi un poco, fino all’annuncio dell’arrivo di Isolde, e Kurwenal accanto a lui, a raccoglierne i deliranti ricordi. Nessun altro, salvo il pastore di cui si dovrebbe vedere solo il busto che emerge da un parapetto. Bene, qui abbiamo (almeno quelle che ho contato io) ben altre otto comparse affaccendate attorno a Tristan! E poi Tristan che si alza anzitempo dal giaciglio e percorre strisciando o carponi mezzo teatro, salendo gradini e raccontandoci in questo modo le sue deliranti esperienze esistenziali. Altra comica allorquando Kurwenal, pronunciando chiaramente le parole “tu Tristan rimani sul tuo letto” lo adagia su un lurido cassone di legno, di cm.50x50x70, isolato in mezzo alla scena!

In sostanza: invece di una scena che doveva essere tutta concentrata su un Tristan quasi immobile, che ci canta il suo strazio, abbiamo qui una messe di elementi dispersivi, che finiscono per distrarre anche lo spettatore più preparato (o forse sono appositamente realizzati per evitare che lo spettatore impreparato si esasperi e se ne vada anzitempo?)

Altra incongruenza gratuita: l’incontro fra Tristan e Isolde. Wagner ci dice che, mentre Isolde entra in scena, Tristan - che solo ora si deve alzare dal giaciglio - le si fa incontro barcollando e cade nelle sue braccia. Che vediamo invece qui? Isolde che arriva dal fondo della scena e Tristan che si trascina bocconi fino sul limitare del proscenio, quasi stesse cercando di sfuggirle! E Isolde dietro a rincorrerlo!

Poi c’è un’altra forzatura allorquando arrivano Melot e Marke: Wagner ci descrive con pochi tratti di didascalìa e con poche parole di Kurwenal, del timoniere e poi di Melot e Marke stessi una lotta fra assedianti e assediati. Poi ci si dovrebbe concentrare solo sui personaggi principali: Marke, Kurwenal, Isolde - china su Tristan morto - e Brangäne che la soccorre e sostiene. Qui invece abbiamo un bailamme indescrivibile in cui persino la morte di Kurwenal si perde, in mezzo a mosse di karatè e a calci e cazzotti menati in tutte le direzioni!

E veniamo - amarus in fundo - al Liebestod, il momento conclusivo. Secondo le precise indicazioni di Wagner, Isolde lo dovrebbe cantare fissando continuamente il cadavere di Tristan, sul quale deve alla fine scivolare - come trasfigurata - sostenuta, e quasi accompagnatavi, da Brangäne, che la tiene fra le braccia già da quando Marke canta l’ultima sua accorata esternazione. Anche qui, c’è un preciso significato di ciò che si dovrebbe vedere sulla scena. Il rapporto fra Tristan e Isolde, fin dall’inizio, è stato mediato dall’ancella: è lei che porta il primo messaggio a Tristan, è lei, soprattutto, che versa il filtro d’amore nella coppa, è lei che, nel secondo atto, cerca di dissuadere Isolde dal prendere un rischio eccessivo, mettendola in guardia da Melot, e poi veglia sulla notte d’amore dei due (incastonando mirabilmente il suo “Habet acht!” proprio sul motivo che farà da base al Liebestod); è lei, infine, che giunge premurosa a raccogliere Isolde dopo il suo ultimo canto. Insomma, Brangäne rappresenta quasi la coscienza dei due (incoscienti) amanti. Che i tre personaggi, Tristan, Isolde e Brangäne debbano restare vicini, quasi abbracciati, alla conclusione del dramma (come Wagner scrive, e prescrive in partitura!) ne è una necessaria implicazione.

E invece, cosa vediamo noi oggi, grazie al Regietheater di Chéreau? Brangäne seduta del tutto in disparte, mescolata ad altre comparse, e Isolde che - dopo poche battute del Liebestod - si alza e se ne va per i fatti suoi, con un rivolo di sangue che le scende dalla fronte (una trovata spettacolare questa, geniale quanto gratuita!) e infine stramazza al suolo (due volte, essendoci forse i saldi da ultima rappresentazione?) nell’atto di abbandonare la scena, sola soletta...
.
Morale? Avec Wagner tout se tient, avec Chéreau... (ahilui e ahinoi!)