XIV

da prevosto a leone
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30 marzo, 2025

Una divertente opera seria alla Scala

Splendido debutto scaligero (a distanza di soli… 256 anni dalla nascita!) per L’opera seria di Gassmann-Calzabigi, questo melodramma settecentesco che fa un poco da cerniera fra Gluck e Mozart.

Merito di chi decise di proporcelo (tale Meyer…) e di chi ce lo ha servito in tavola scena come meglio non si potrebbe: la premiata coppia Christophe Rousset / Laurent Pelly.

Dico subito che gli inevitabili tagli alla musica riguardano quasi esclusivamente recitativi secchi, mentre gli accompagnati e le arie/concertati (della serie: prima la musica…) sono sostanzialmente rispettati. Rousset (che ha anche accompagnato al cembalo) coadiuvato dall’Orchestra mista Scala – Les Talents Lyriques (24 + 11 elementi) ha apportato pochi ritocchi alla partitura, come l’anticipo dell’aria di Passagallo (I miei balli son tanti miracoli) all’inizio del terz’atto, trasformando quindi la scena marziale del ritorno di Nasercano in un gustoso balletto da avanspettacolo; ha poi sfrondato il finale delle esternazioni singole dei vari protagonisti, chiudendo con il coro Noi giuriamo.

Pelly, da parte sua, ha proposto scene (di Massimo Troncanetti) piuttosto scarne: il primo atto con un semplice fondale a parete con porte dalle quali entrano ed escono i protagonisti che si aggirano in uno spazio vuoto; nel secondo compaiono anche pareti laterali (sempre con porte) a chiudere la scena della prova dell’opera seria; nell’atto conclusivo la prima parte ad Agra ha un’ambientazione esotica orientaleggiante, con palme, tende e la sagoma di un elefante sul quale entra Rossanara, più pochi orpelli che al momento opportuno crolleranno miseramente, provocando l’interruzione dello spettacolo (il cui fiasco è quindi attribuito a regista e scenografo, più che ad autori e cantanti…)

A sipario chiuso si svolge il cambio scena (accompagnato da suoni di arpa che ricordano quelli degli intervalli RAI anni ‘70, con pecorelle e affini) che ci porta nel retro del teatro, dove ritroviamo solo la parete di fondo con le tre porte dei camerini delle primedonne, dalle quali sortiranno anche le rispettive madri per la caotica scena finale.  

Lionel Hoche anima le coreografie, con partecipazione di ballerini (scena ad Agra) e mimi vestiti come diavolacci neri a rappresentare metaforicamente sciagure, imprevisti e contrattempi che affliggono l’ambiente del teatro, oltre che i militari che arrivano alla fine del second’atto a sedare il tumulto creatosi durante la prova.

I costumi, dello stesso Pelly, sono a loro volta una parodia del ‘700, con abiti tutti di color chiaro e forme esageratamente bizzarre, con pochi elementi atti a distinguere fra loro i vari personaggi. Unica eccezione il povero Fallito, abbigliato come un teatrante di oggi (ma con calzoni alla zuava….) Efficaci le luci di Marco Giusti ad illuminare (o oscurare) le varie scene. 

Quanto alla compagnia di canto, mi sento di accomunare tutti indistintamente in un unico giudizio di piena approvazione. Cosa che ha fatto anche il pubblico (folto all’inizio e poi abbastanza smagritosi – affar loro – nei due intervalli) che, rimasto freddino nel primo atto, ha cominciato ad applaudire le arie nel secondo e più ancora nel terzo. Per poi gratificare tutti di almeno 10 minuti di applausi ed ovazioni alla fine dello spettacolo.

Insomma, una proposta di ottimo livello che dà lustro a questa stagione scaligera di transizione.

 

16 ottobre, 2022

Fedora alla Scala: discreta la prima

Eccomi quindi a riferire della prima della Fedora di Umberto Giordano, affidata alla premiata coppia Armiliato-Martone. Piermarini discretamente affollato e pubblico assai caloroso, che ha decretato un chiaro successo per tutti gli artefici dello spettacolo.

Sonya Yoncheva è stata – meritatamente – la trionfatrice della serata. Alla potenza del suo strumento ha saputo abbinare anche una presenza scenica apprezzabile, e in questo direi che sia assai migliorata negli ultimi anni.   

Con lei Roberto Alagna, che quasi 16 anni dopo quella fuga dall’Egitto (!) è tornato ad essere beniamino del loggione scaligero, pur se la voce mostra qualche inevitabile segno di stanchezza, compensato da grande sapienza nel gestirla oculatamente.

Serena Gamberoni si è confermata interprete ideale di queste parti leggere e un po’ svampite, quale è la Olga di Giordano.

George Petean è stato un dignitoso De Siriex, che ha portato onorevolmente a termine il suo compito, per la verità non proibitivo, incentrato sull’elogio della donna russa.

Degli altri, tutti meritevoli di encomio; citerò il cocchiere (no, qui autista) Cirillo, cui ha dato voce Andrea Pellegrini.

Sui suoi standard il Coro di Francesco Malazzi, che qui ha un impegno tutt’altro che proibitivo.

Marco Armiliato mi è parso padroneggiare bene questa partitura che forse, ma solo in apparenza, può sembrare facile. L’Orchestra scaligera lo ha ben assecondato: tempi appropriati, dinamiche mai sbracate ed efficace supporto alle voci, mai coperte.

Quindi, la parte musicale è da promuovere a quasi-pieni voti.

Martone? Beh, ogni tanto tira fuori il genio che è in lui, lasciando perdere la sregolatezza! Quindi ambientazione ai giorni nostri (smartTV da 50 pollici che trasmette una partita a beneficio del piccolo Dimitri, per dire) ma vivaddio lontano da mafie, camorre e ndranghete! E persino i servizi segreti, che pure hanno parte importante nel libretto, non invadono più di tanto la scena.

Insomma, il Martone serio di Chénier, per dire, non quello strampalato delle Beffe o di Oberto e pure di Rigoletto! Il che forse gli varrà l’accusa (non certo da me) di gretto tradizionalismo. Dato che il plot dell’opera è piuttosto contorto, lui ha provato anche ad essere didascalico, ad esempio mostrandoci – durante la confessione di Loris a Fedora – anche gli altri tre  protagonisti (silenziosi) della tresca: Wanda, la governante, e soprattutto Vladimir, cui lascia il compito di gettare a Fedora le sue lettere d’amore indirizzate a Wanda… Mah, forse a qualcuno ciò può aver ulteriormente confuso le idee.

In ogni caso il pubblico ha apprezzato assai e per tutti ci sono stati solo applausi e ovazioni.

27 novembre, 2017

Un Ballo in gondola


La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova produzione del Ballo verdiano, di cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi) aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto dal vivo.

Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti multimediali dell’Archivio Storico del Teatro ha reso disponibile una fulminante conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare con attenzione.

E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione, avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto meno perniciosa di questa.


I riferimenti al problema nero sono enunciati in teoria dal regista, ma in pratica si riducono a qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale (!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che conducono alla fiaccola (evabbè).

Altre amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che la figura dello zombie che si para dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto, c’è in giro di molto peggio.

La festa finale all’ombra dei pezzi di Statua è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego delle luci di Barettin, forse discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta solo per via di un paio di... coperture di voci.

Meli su tutti: non solo per la voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato, ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza: acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche centro meno efficace.

Il Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età, mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben impostata, il suo eri tu porto con passione e varietà di accenti.

Le due donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar) ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.

I comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si possa accontentare.

06 marzo, 2017

La Wally tosco-emiliana


Ieri pomeriggio la Wally ha salutato Reggio Emilia, dopo aver visitato Piacenza e Modena (in febbraio) e in attesa di recarsi in futuro nella natia Lucca. Purtroppo il Valli presentava uno spettacolo piuttosto desolante: intere file di palchi deserti (ahi ahi...) In compenso l’annunciatore (che ricorda di spegnere i cellulari, etc...) ha invitato tutti ad essere felici! Evabbè, noi ci proviamo. 

Luigi Illica trasse il libretto per Catalani dal romanzo di metà ‘800 Die Geierwally (La Wally dell’avvoltoio) di Wilhelmine von Hillern. Wally è il diminutivo di Walburga Stromminger, una ragazza selvaggia e coraggiosa, il cui appellativo (dell’avvoltoio) le viene da una spericolata impresa – negata persino ai suoi coetanei maschi -  da lei compiuta in giovane età: quando si fece calare, appesa ad una fune, lungo una ripida parete rocciosa per raggiungere il nido di un avvoltoio che infestava la zona e metteva in pericolo le greggi. Nonostante le ferite infertele dagli artigli del volatile, l’intraprendente Wally riuscì a rimuovere il nido e addirittura si portò a casa il pulcino dell’avvoltoio, allevandolo come animale domestico! Ecco perchè nelle raffigurazioni dell’epoca lei compare con l’avvoltoio sulla spalla:


Questi particolari non trovano alcun riscontro nel libretto, che invece riporta abbastanza fedelmente l’impresa di Hagenbach, che da solo ha abbattuto un grosso orso, e che si presenta come l’eroe accanto all’eroina Wally.

Il libretto, come quasi sempre accade, diverge dal romanzo, in particolare nella conclusione: nell’originale Wally e Hagenbach vivono felici e contenti... anche se per poco (moriranno insieme, non viene detto come) mentre l’opera termina con la morte violenta dei due. Anche il personaggio di Afra cambia parecchio: nel romanzo alla fine si scopre che lei è sorellastra di Hagenbach, e che quindi i sospetti di Wally sui tradimenti dell’amato erano infondati. Inoltre, il personaggio di Walter è un’invenzione del librettista. Ecco, bisogna riconoscere ad Illica di aver migliorato assai il soggetto originale!

La struttura drammaturgica dell’opera richiama vagamente quella di Carmen: due atti relativamente leggeri, se non proprio da operetta, con tanto di feste paesane, canti e balli, nei quali però si creano le premesse per il successivo precipitare degli eventi, fino alla tragedia conclusiva. Altra lontana rassomiglianza è quella fra la protagonista Wally e la futura Minnie di Puccini: si tratta di due ragazze piuttosto autoritarie e guarda caso l’ingresso in scena di entrambe avviene giusto in tempo per sedare una rissa fra maschi! Anche qui abbiamo un personaggio en-travesti: Walter, una specie di Cherubino cresciutello.

Musicalmente parlando, l’opera (siamo nel 1892) risente abbastanza dell’esperienza wagneriana: i cosiddetti numeri chiusi vi sono banditi in favore di un continuo svilupparsi delle melodie. Non mancano (ma nemmeno in Wagner!) brani che surrogano arie o ariosi o romanze: la ballata di Walter, il racconto di Hagenbach, la famosissima Ebben? Ne andrò lontana, ancora Schiavo dei tuoi begli occhi di Gellner, i monologhi di Wally del terzo e quart’atto, l’estremo omaggio di Hagenbach, sono pagine che emergono come... picchi alpestri dalla pianura sottostante.  

Nessun impiego strutturato di Leit-motive o surrogati; solo in un paio di circostanze udiamo ricomparire motivi già ascoltati: la cadenza dell’Ebben? Ne andrò lontana, che si riode alla fine del terz’atto, al momento della riconsegna di Hagenbach ad Afra da parte di Wally; e un motivo del walzerino del second’atto che riaffiora nel preludio dell’atto finale.

I personaggi sono assortiti secondo i classici canoni del melodramma ottocentesco: soprano drammatico e tenore eroico nei due ruoli principali; baritono e mezzosoprano come terzi incomodi e/o guastafeste fra i due; bassi nei panni di un genitore burbero e di un vecchio impenitente; un sopranino a incarnare il ruolo del menestrello amoroso.

Certo l‘ispirazione e la vena melodica non sono quelle dei Mascagni o dei Puccini, e forse questo spiega perchè, dopo il successo iniziale, l’opera negli ultimi decenni sia stata assai più rappresentata all’estero e in particolare nei paesi di lingua tedesca che non qui da noi. 

Compagine musicale cosiddetta di provincia: ma mai come in questa circostanza l'attributo potrebbe essere un complimento. A partire dall'Orchestra (ORER) fatta di ottimi professori (per esempio: corni e legni) ma anche ben compatta ed agguerrita nell'insieme; un concertatore di tutto rispetto (Francesco Ivan Ciampa) che interpreta con gusto e senza sbracamenti una partitura solo apparentemente facile, ma piena di raffinatezze timbriche ed armoniche; e il coro del Municipale di Piacenza (Corrado Casati) che sfoggia bella compattezza musicale (oltre a quella fisica da scatola di sardine in cui lo costringe il regista!)

Cast bene assortito, fatto da interpreti già navigati e da altri scesi in acqua da meno tempo. La protagonista Wally (Saioa Hernandez) sfoggia un gran vocione drammatico, forse un po’ artificialmente gonfiato e quindi opaco nei centri ma con acuti staccati con sicurezza; buona anche la sua versatilità espressiva, necessaria per interpretare un personaggio dalla natura così poliedrica come quella della ragazzona esuberante ma anche capace di toccanti accenti lirici e di sentimenti profondi. Dovrà ancora studiare parecchio, ma si vede chiaramente per lei un futuro promettente.

Hagenbach è Zoran Todorovich, anche lui dotato naturalmente di voce di gran spessore e volume, proprio da Heldentenor: voce ancora da mettere sotto controllo e da impiegare con più espressività e varietà di accenti... insomma un futuro (se ben coltivato e programmato) da Siegfried!  

Il navigato Claudio Sgura impersona il complessato Gellner; di lui ripeto ciò che già ho scritto in passato: gran vocione gestito però approssimativamente e con tendenza continua all’eccesso di forzature con perdita di rotondità e morbidezza. Insomma, fin troppo truce e ruvido, il che mette un po’ in ombra il lato più lirico del personaggio.

Apprezzabile il Walter di Serena Gamberoni: voce appropriatamente leggera ma non pigolante, portamento sicuro e grande espressività, emerse già da subito nella romanza di esordio. Qualche vetrosità negli acuti non inficia la sua positiva prestazione.
 

Di buon livello i tre comprimari (che cantano part-time ma hanno parti non proprio secondarie). Stromminger è Giovanni Battista Parodi, voce ben impostata e passante; l’altro basso (Il Pedone di Schnals) è un efficace Mattia Denti, capace di esprimere gli accenti vuoi burloni vuoi severi del vecchio navigato; discreta anche la Afra di Carlotta Vichi, voce ben impostata e rotonda, che emerge anche dal trambusto della festa di Sölden.
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La regìa di Nicola Berloffa è tradizionale (il che per me è sempre un merito: di ambientazioni tipo scuole elementari o comunità di drogati ne abbiamo viste – per soggetti anche assai più importanti - a sufficienza) e quindi siamo in mezzo a gente di montagna (oddio, sui costumi forse i montagnoli avrebbero da ridire, nel senso che solitamente non si va in alta quota con il tacco-12... ma l’alta montagna è forse l’allegoria della solitudine della Wally e allora prendiamola per buona, ecco). Ma insomma sono cose perdonabili (caso mai si sorride un po’ sulla scena del rescue di Hagenbach, proprio da saggio scolastico) e la trama viene fuori abbastanza integra. Scene (di Fabio Cherstich) appropriate, compresa la scatola di sardine del second’atto, dove in 50 mq erano stipati tutti gli interpreti e il coro, una scena più adatta ad un barcone di quelli che purtroppo danno altro tipo di spettacolo nel Mediterraneo... Costumi (Valeria Donata Bettella) come detto, di epoca... boh, novecentesca e luci ben manovrate da Marco Giusti.    

Trovate più o meno gratuite: la Wally dovrebbe irrompere in scena (à la Minnie, come detto) scaraventando a terra Hagenbach per soccorrere il padre: invece qui la vediamo sostituita da Gellner (che forse si esercitava in vista del terz’atto...) mentre osserva da lontano. In compenso, nella scena del recupero di Hagenbach nel burrone, invece di scendere a mani nude nell’abisso, ecco che lei viene imbragata ridicolmente con una funicella e poi calata come un sacco di patate: forse il regista voleva raccontarci ciò che si legge nel romanzo e viene taciuto nel libretto, evabbè.   

A parte tutto, una proposta più che meritoria, purtroppo punita da un’affluenza di pubblico che lascia sempre più depressi.