XIV

da prevosto a leone
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03 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 14

Tutto romantico il contenuto del 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto (graditissimo ritorno, questo) da Oleg Caetani.

Si comincia con Chopin e il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra (in realtà il secondo in ordine cronologico di composizione) suonato – al posto del titolare Alexander Godjiev - da un altro dei giovanissimi (22 anni) fenomeni del concertismo di oggi, Elia Cecino (ecco come il ragazzino lo interpretava un anno fa al Teatro Malibran di Venezia con l’Orchestra della Fenice diretta da Frizza).

Il Concerto è francamente piuttosto... pretenzioso, ecco: basti pensare che il solista deve starsene lì a girarsi i pollici per ben più di 4 minuti (tanto dura l’introduzione orchestrale, che in realtà presenta nella loro completezza i temi che verranno poi suonati dal pianoforte!) prima di… entrare in partita. E poi quell’iniziale Allegro maestoso è davvero un movimento prolisso e ipertrofico (circa 20 minuti!)   

Certo, poi Chopin sapeva proporre temi e melodie accattivanti… che percorrono il Concerto da cima a fondo... E il fantastico Elia ce le ha proposte in maniera davvero trascendentale: non parlo solo e tanto della tecnica sopraffina (che già non è poco…) ma della sensibilità interpretativa, che testimonia grande attenzione e scavo della partitura, nella scelta delle dinamiche e dei proverbiali rubati.

Per lui un gran trionfo, ricambiato non con uno, ma con due encore: lo Chopin della Mazurka Op.24 (la stessa del bis del citato concerto alla Fenice) e questo Shostakovich.
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Ecco poi la poco eseguita Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia für Frauenchor und Orchester di Franz Liszt.

Nel foyer dell’Auditorium è esposta parte della collezione privata di edizioni storiche della Commedia, di proprietà del Presidente Emerito Gianni Cervetti. Vi sono esposti 7 esemplari, che spaziano su più di 4 secoli, dal 1491 al 1921. Ad ammirarli c’era anche il venerabile Quirino Principe, presente al concerto.

Caetani, che fatica sempre di più a camminare ma sul podio è ancora un leone, ha introdotto l’opera ricordando una sua indiretta relazione con l’Autore: il suo trisnonno Michelangelo Caetani conobbe a Roma Liszt (che era là durante gli Anni di pellegrinaggio) ed ebbe, con il figlio Onorato, una lunga relazione di amicizia con il compositore!  

Liszt era praticamente allergico alla musica-pura, per lui i suoni dovevano essere necessariamente associati alle reazioni emotive dell’animo umano di fronte a qualsivoglia oggetto o fenomeno o concetto. Così gran parte della sua produzione (pianistica e orchestrale) è ispirata a oggetti, luoghi da lui visitati, opere letterarie, personaggi storici o mitologici e via discorrendo. Fanno forse eccezione i due Concerti per pianoforte, che non hanno né sottotitoli, né programmi esterni appiccicati.

Liszt era stato attratto da Dante fin dal 1848 e aveva composto, prima della Sinfonia, una Dante-sonata poi ripresa in altre opere con diversi titoli (es.: Anni di pellegrinaggio). Come la Sinfonia-Faust, anche la Dante altro non è se non un poema sinfonica con struttura che rimanda alla sinfonia. La Dante fu composta negli anni 1855-56 e l’Autore la dedicò a colui che pochi anni dopo diventerà suo genero, per tramite di Cosima. Con Wagner Liszt aveva già un sodalizio artistico, culminato nella coraggiosa decisione (1850) dell’allora Kapellmeister di Weimar di mettere in scena l’ultima opera dell’esule, colà rifugiatosi provvisoriamente – sulla strada per Zurigo - perchè inseguito da un mandato di cattura da Dresda come complice nella rivoluzione del 48-49: il Lohengrin.

Erano tempi in cui Wagner, lasciato Siegfried a riposarsi dalle fatiche della vittoria sul drago Fafner, si stava dedicando anima (e corpo !?) alla conquista della bella Mathilde, che gli dava ispirazione e carica adrenalinica per costruire quel po’-po’ di monumento chiamato Tristan. E proprio Wagner si permise di cercar di dissuadere Liszt dal musicare Dante (il Paradiso, soprattutto) impresa da lui giudicata tanto velleitaria quanto disperata.

Ma Liszt. che quanto ad autostima e velleitarismo non era secondo a nessuno, non si fermò di fronte a nulla e portò a termine l’ardua impresa, limitandosi modestamente e per rispetto divino a non musicare come Paradiso un ultimo movimento della sua Sinfonia a programma, ma appendendo al Purgatorio un Magnificat con coro femminile. Poi, non contento, preparò anche 22 battute di un secondo finale (Halleluja) da eseguirsi - ma non lo fa nessuno - ad-libitum 

Il movimento iniziale (Inferno) ha una struttura lontanamente parente della forma-sonata; ma presenta tratti che lo apparentano alla fantasia. La tonalità prevalente è RE minore, ma con innumerevoli divagazioni e modulazioni.

Si apre in tempo Lento con un tema introduttivo, reiterato tre volte, sulle cui ricorrenze Liszt ha scritto in calce i tre versi danteschi: Per me si va nella città dolente; per me si va nell’eterno dolore e per me si va tra la perduta gente! Poi compare uno stentoreo motivo che farà da motto ricorrente sulle cui note leggiamo invece: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!

[Lodevole al proposito l’idea di proiettare sui due schermi ai lati del palco quei versi, proprio in corrispondenza dell’esecuzione delle note sotto le quali Liszt li vergò sul suo manoscritto. Un modo intelligente per spiegare la relazione fra suoni e parole anche a chi non ha sottomano la partitura.]

Adesso stiamo scendendo giù nei gironi infernali, da dove arrivano sordi rumori e lamenti: sono i movimenti convulsi dei condannati, che prima arrivano da lontano e poi sono sempre più pesanti e vicini. Il vento infernale, con successive folate sempre più forti ci accompagna nella discesa finchè il motto, sempre più protervo, fra turbini di vento, ci ricorda che lì non c’è proprio scampo alcuno.

E scampo non ci fu e non ci sarà per qualcuno che ora incontriamo, in un’atmosfera fattasi improvvisamente più rarefatta (arpa e pianoforte). Il clarinetto prima e poi il corno inglese ci svelano l’identità dei personaggi che ci stanno di fronte: la partitura reca i versi Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Sì, sono precisamente Paolo e Francesca.

Ecco quindi che un accorato tema in Andante amoroso si dispiega nobilmente, con successive volute e passando alle diverse sezioni dell’orchestra, fino a spegnersi su una lunga coda chiusa, indovinate? dal motto che nega ogni speranza! E infatti, dopo una marziale, sommessa introduzione di timpani, fagotti e corno, in partitura leggiamo un’indicazione perentoria di Liszt: ciò che segue deve suonare come un blasfemo e irridente sghignazzo! Ed è infatti un crescendo tumultuoso quello che ora ascoltiamo, riportandoci… all’inferno di quel luogo.

Ci avviamo ora all’uscita, accolti sulla soglia - c’era da aspettarselo - dal protervo sigillo del motto!  

Usciti dagli inferi, eccoci ai piedi del monte Purgatorio. Liszt interpreta il secondo cantico dantesco come un lento ma sicuro viaggio verso la totale redenzione dai peccati dell’Uomo, un lungo e faticoso, ma nobile, preludio all’accesso al trascendente.

Si suddivide in tre parti: 1. l’uscita dall’Inferno e il ritrovarsi nella Natura; 2. Il percorso lungo le diverse cornici del Purgatorio; 3. La visione del Paradiso (Magnificat). Le due sezioni esterne presentano musica serena ed estatica, mentre quella centrale è caratterizzata dall’evocazione delle difficoltà e dei sacrifici che i confinati in Purgatorio devono affrontare per meritarsi il Paradiso.

La prima sezione del movimento evoca il respirare nuovamente a pieni polmoni, ammirando l’eterno spettacolo della Natura. È un motivo che si innalza sereno e sognante, esposto dagli strumentini due volte, dapprima in RE e poi in MIb maggiore.      

Ma ora ci si deve incamminare lungo l’ardua scalata del Purgatorio, se vogliamo arrivare al… Paradiso. Ecco quindi che tutta la lunga sezione centrale del movimento è caratterizzata da motivi che evocano: fatica, dolore, privazioni, al fine di espiare i peccati e guadagnare il premio più alto. Non a caso ritroviamo, camuffati ma riconoscibili, anche motivi che vengono dall’Inferno, poiché rappresentano peccati che – se pur non irrimediabili – devono essere dolorosamente riconosciuti per poter ambire al perdono divino. Sono atmosfere che ritroveremo più avanti anche nel Parsifal, che per certi aspetti è debitore di questa musica.

Un solenne passaggio dal chiaro sapore Berlioz-iano ci preannuncia l’arrivo sulla sommità del monte, nel Paradiso terrestre, dove il maestoso e beatificante Magnificat (in SI maggiore) ci fa intravedere… l’Indescrivibile.

E, per il Magnificat, Caetani ha deciso di impiegare (appropriatamente, direi) in aggiunta al Coro femminile (I Giovani di Milano), anche il Coro di voci bianche, diretti entrambi da Maria Teresa Tramontin. [Anziché starsene fuori scena, come prescritto da Liszt, il Coro ha cantato dalla balconata dell’Auditorium, ottenendo un mirabile effetto di suoni che arrivano dal… Paradiso.]

Un’esecuzione davvero con i fiocchi, accolta trionfalmente, che certo ha contribuito a far conoscere al pubblico quest’opera un po’ reietta, ma che merita – pur non potendosi definire un capolavoro – di trovare il suo posto nei repertori delle grandi orchestre.

05 febbraio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 15

Interessante accostamento nel programma del 15° concerto della stagione: é Oleg Caetani a proporci questa settimana due autori assai distanti nel tempo, ma accomunati da una visione, si potrebbe dire, religiosa della musica: Ildebrando Pizzetti e Anton Bruckner. Certo la religiosità di Pizzetti nulla ha a che fare con cattedrali barocche e dediche al buon Dio (copyright Bruckner Nona) trattandosi di interiore e pura spiritualità, ma ciò che arriva al nostro orecchio in entrambi i casi è manifestazione di rigore e integrità morale, tradotti in estetica dei suoni.

I Canti della stagione alta (titolo un poco criptico che l’autore si astenne sempre pudicamente dallo spiegare) è un Concerto per pianoforte e orchestra (composto da Pizzetti nel 1930) che solo epidermicamente si rifà ai modelli classici (tre movimenti chiusi da un Rondo): in realtà il pianoforte non è il solista in opposizione (o comunque in dialogo più o meno serrato) con l’orchestra, ma suona in comunione con essa, guidandone quasi costantemente il flusso sonoro.

La forma poi è assai più vicina al Durchkomponieren (melodia infinita...) che non a quelle classiche: il lungo primo movimento - Mosso e fervente, ma largamente spaziato (notare il fervente...) - si muove attorno alla tonalità di RE minore all’inizio per chiudere sul RE maggiore dopo diverse sognanti e languide peregrinazioni. Il secondo - Adagio - richiama in realtà un’atmosfera vicina a quella del primo, di gradevole cantabilità, muovendo dal SI minore, relativa del RE; svariando quindi nella sezione centrale lungo il circolo delle quinte a SOL e DO maggiore, dove udiamo un’improvvisata fanfara di corni, prima del ritorno a SI minore. Il Rondo conclusivo, formalmente assai eterodosso, ci porta finalmente in una serena e allegra atmosfera bucolica, che si muove ancora dal RE maggiore. Una sezione più dimessa prepara il ritorno dell’allegra scampagnata, che si amplia poi in improvvisate divagazioni. Dopo un ritorno del tema godereccio si arriva alla chiusura in un’inopinata, francamente enfatica oltre che maestosa esaltazione (à-la-Sibelius, per dire).

Ma qui dobbiamo aprire una parentesi, diciamo, piccante, che riguarda non già Pizzetti, ma il sommo (mio conterraneo bresà, ci tengo a dirlo) Arturo Benedetti Michelangeli. Il quale, nel 1943, chiese a Pizzetti di scrivergli una cadenza per il Concerto (che in origine non ne prevedeva alcuna) che il pianista contava di includere nel suo repertorio. Pizzetti la compose al volo, inserendola canonicamente nel movimento iniziale prima della ripresa del primo tema, e la inviò a Michelangeli, che ne fu (a detta dell’Autore) entusiasta, ma che poi non ebbe mai occasione di suonarla, non avendo più suonato per la verità nemmeno il concerto. Orbene, forse non tutti sanno che l’Arturo con-baffetti-da-sparviero (copyright Gianfranco D’Angelo) ebbe una burrascosa relazione con Marisa Borini (oggi ultra-novantenne) pianista e attrice nonchè moglie di un magnate (poi andato fallito) dell’industria dei pneumatici e soprattutto madre (con padre... alieno) della futura première-dame Carla Bruni maritata Sarkozy.

Ebbene, nel 1981 la Borini incise il Concerto di Pizzetti includendovi la cadenza dedicata al baffutello amante (prima di lei eseguita solo da Tito Aprea in tempo di guerra) con l’Orchestra radiofonica bavarese: la si può ascoltare qui a partire da 12’57” fino a 17’08” del primo movimento.  Come si può udire, è una cadenza lunghissima, che viene regolarmente ignorata: solo Ciccolini la eseguì nel 1987 a Napoli (RAI) e poi in questa registrazione francese da 12’39” a 16’43”. Ignorata anche in questa esecuzione storica del brano, suonato da una delle sue prime interpreti, Lya De Barberis sotto la direzione dell’Autore nel 1955 con la RAI di Torino. E dallo stesso Caetani in questa registrazione con la consorte. Invece il felicemente ritornato in Auditorium Roberto Cominati si è pregiato di proporcela!

Come detto, il Concerto è saldamente ancorato alla tonalità e alla melodia pura: e Cominati (che già ha interpretato il brano la scorsa estate a Parma con la Toscanini e che per sicurezza si è tenuto lo spartito sotto gli... occhiali) ha mostrato di essere in perfetta sintonia con l’estetica del compositore. Caetani da parte sua ha tenuto l’orchestra proprio al servizio e al seguito del solista, senza mai (finale escluso, ovviamente) prevaricarne il ruolo.

Caloroso successo che Cominati ripaga con due bis: questo Rachmaninov (figlio e presunto padre...) e questo serioso Händel.
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Del complessato compositore austriaco viene eseguita la Seconda Sinfonia, che qualcuno battezzò come Pausen-Symphonie, per le tante fermate che la caratterizzano.

Come quasi tutte le sorelle, anche questa sinfonia fu ripetutamente sottoposta dall’Autore a revisioni e modifiche al punto che ancor oggi non c’è accordo fra musicologi ed editori-critici su una corretta catalogazione delle versioni, due delle quali (1872 e 1877) sono considerate come principali, ma ciascuna di esse presentando al suo interno ulteriori differenziazioni. La più macroscopica novità che presenta la versione 1877 rispetto alla prima del 1872 sta nella sequenza dei movimenti interni (cosa che capiterà poi alla Sesta di Mahler): in origine veniva prima lo Scherzo, che poi fu retrocesso dopo l’Andante.

Chi voglia inoltrarsi nel ginepraio delle versioni e sotto-versioni e varianti delle sotto-versioni può (ad esempio) affidarsi a William Carragan, che è l’ultimo - per ora - estensore di un’edizione critica dell’opera, arrivando dopo gli storici Robert Haas e Leopold Nowak. Oppure consultare questo minuzioso compendio.  

Bruckner è ancor oggi spesso considerato come palloso e velleitario (Brahms ebbe a liquidare la sua musica come ciarpame) e anche questa sinfonia al primo ascolto lo conferma: di lui in genere si apprezzano spezzoni della Quarta e della Settima, null’altro... Ma a pensarci bene, anche Die Kunst der Fuge di Bach può risultare ostica, cerebrale e in definitiva noiosa... Ovviamente nessuno è obbligato ad accettare, men che meno esaltare, ciò che non riesce a digerire.

In questa Sinfonia c’è proprio la plastica dimostrazione del processo costruttivo (delle sue cattedrali) di Bruckner: le innumerevoli pause che si incontrano sono come i momenti di riposo che un costruttore si prende tra uno stadio e il successivo dell’edificazione. Fino a quando può contemplare il prodotto finito e... rendere grazie a Dio per aver avuto la ventura di portarlo a termine.

Caetani (mi) ha sorpreso optando per la versione originale del 1872 (edizione Carragan, presumo) francamente più immatura (e pedantesca, basta pensare ai da-capo del Trio...) della successiva, dove un po’ tutti i movimenti furono ripuliti e migliorati assai.

In ogni caso tanto di cappello a tutti per aver offerto una prova maiuscola, accolta con grandissimo calore da un pubblico non oceanico ma entusiasta.

03 giugno, 2021

laVerdi romantica

Oleg Caetani fa il suo ritorno alla guida de laVerdi per il terzo appuntamento dei sette che danno corpo a questa stagione di riapertura al pubblico.

Come si sa, le perduranti regole anti-Covid - e in particolare quelle che impongono il distanziamento -  condizionano la programmazione, che deve limitarsi ad opere che possano essere efficacemente presentate anche con una formazione orchestrale necessariamente ridotta a non più di 35-40 strumentisti, date le dimensioni del palcoscenico dell’Auditorium. (Per le recenti trasmissioni in streaming l’orchestra a ranghi completi occupava anche quasi metà della platea!)

Ecco quindi un programma - musiche caratterizzate da serenità e ottimismo, certificati dal RE maggiore che le accomuna - che fa di necessità virtù, comprendendo due brani adeguatamente gestibili da un complesso poco più che cameristico.

E tale possiamo immaginare fosse l’orchestra degli allievi del Vienna Stadtkonvikt, dove (si ipotizza) il sedicenne violinista/corista Franz Schubert vide eseguita, a fine ottobre 1813, la sua Prima Sinfonia, poi rimasta inascoltata per decenni.

Mozart, Beethoven ma soprattutto Haydn sono i chiari modelli ispiratori di questo lavoro, come testimonia subito l’Adagio iniziale, 20 battute che introducono, proprio à-la-Franz-Joseph, l’Allegro vivace in RE maggiore (4/4 alla breve) che dà corpo al primo movimento. Movimento in canonica forma-sonata, con esposizione di un primo tema spigliato e abbastanza conciso, seguito da un secondo sulla dominante LA, questo più cantabile e soprattutto assai più corposo, con motivi complementari in imitazione. É lo stesso secondo tema il protagonista dello sviluppo, chiuso sorprendentemente dal ritorno - ampliato - del tema dell’Introduzione, che prepara la ripresa: al primo tema segue il secondo, ora adeguatosi alla tonalità principale, che sfocia in una lunga e melodrammatica cadenza conclusiva a piena orchestra.

L’Andante che segue (scolasticamente in SOL maggiore, 6/8) è sostanzialmente bitematico, ma la struttura è più complessa della classica A-B-A: il tema A ha un sapore liederistico, cantabile, e viene subito ripetuto. Gli subentra, con un drammatico accordo di MI minore, il tema B, più cupo e introverso, a dispetto di qualche breve virata in maggiore. Torna il tema A, ma si direbbe inquinato dal MI (minore e maggiore) del B, fino ad una fermata in corona puntata sulla dominante RE. Poi ci sono altre 8 battute di transizione prima di tornare al tema A, che viene ripetuto e seguito dalla cadenza che porta sommessamente alla conclusione.

Come di prammatica, ecco poi il Menuetto (Allegro, 3/4) di struttura classica e semplice, ma significativamente energico, fin quasi ad anticipare certo Bruckner! Presenta una prima sezione di 18 battute (che chiude sulla dominante LA) e poi una seconda di 22 (con modulazione a SI minore) più la ripresa della prima sezione allungata (22 battute, chiusa sul RE) entrambe da ripetersi. Poi, più tranquillo e rilassato, il Trio, sempre in RE maggiore, pure in due sezioni, di 9 battute (chiusa sul LA) e 26 battute (incipit dalla dominante e chiusa sulla tonica) da ripetersi. Infine si torna al Menuetto, senza ripetizioni.

Chiude il Rondo (4/4 Allegro vivace, RE maggiore) di struttura assai articolata, che comporta l’impiego di quattro motivi fra loro mirabilmente intrecciati.

Viene esposto subito il primo gruppo tematico A, costituito da due frasi in RE maggiore, la prima (a1, 16 battute) piuttosto delicata, danzante; la seconda (a2, 19 battute) più marziale, che chiude con un un’impertinente cellula (a3, che occuperà poi un ruolo importante) ripetuta 4 volte ad altezze diverse, finendo sulla dominante. Il gruppo tematico viene subito riproposto, ma dopo la frase a1 identica, la seconda ora viene sviluppata assai (34 battute) insistendo sulla cellula a3, e porta verso LA maggiore, tonalità del tema B. Un tema di 8 battute, esposto da fagotto e violini, subito ripetuto dagli strumentini a canone, e poi seguito dalla cellula a3, che con una lunga transizione conduce inaspettatamente al ritorno della frase a2, sempre in LA maggiore.  

Qui Schubert ne inventa una davvero nuova: il tema B si smagrisce e si oscura, in flauto e fagotto, poi diventa balbettante nei violini e infine torna (fagotto e violini) incredibilmente in tonalità di FA maggiore! Dopo essere stato ripetuto dagli strumentini a canone, lascia spazio ancora alla cellula a3, sempre in FA maggiore ma abbrunata da lamenti (quinta - sesta abbassata - quinta) di oboi e clarinetti. Sempre a3 a tener banco in una lunga transizione che lentamente degrada nei legni verso l’accordo di settima di dominante di RE. E qui torna il gruppo A, riesposto come all’inizio, salvo una battuta extra (cellula a3) alla fine. 

Ora Schubert si diverte a portare a1 in minore, poi usa la cellula a3 per virare alla relativa FA maggiore e, da qui prende la rincorsa per riproporre a2 in SIb maggiore! É sempre a3 a riportarci a RE maggiore, tonalità di impianto cui ora si adegua canonicamente anche il tema B, esposto da clarinetto e violini e ripetuto da strumentini a canone. Immancabilmente torna a3 e si ripropone una transizione che porta alla lunga, pomposa coda, basata sulla frase a2, arricchita dalla presenza di una versione di a3 ancor più marcata ed enfatica.

Insomma, il ragazzino aveva proprio imparato bene le lezioni dei grandi della prima scuola!  

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E per un piccolo ensemble di 9 strumenti (quartetto d’archi più flauto, 2 clarinetti, fagotto e corno) era stata concepita nel 1857 (e per la prima volta eseguita due anni dopo) la Prima serenata del 24enne Johannes Brahms. Che successivamente ci fece un paio di upgrade per orchestra sinfonica quasi... (mancando tromboni, arpa e percussioni) romantica.

Insieme al concerto pianistico (Op.15) si ritiene che questa sia una delle due principali opere propedeutiche al tardivo ingresso di Brahms nell’arena sinfonica, che Beethoven aveva sostanzialmente prosciugato e che era stata poi rispettosamente frequentata solo dalla coppia Mendelssohn-Schumann.

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Caetani, che in Schubert non aveva fatto sconti ai da-capo presenti nella partitura, qui ne ha evitati un paio, ma direi senza far danni, anzi. Se nella Sinfonia aveva tenuto un approccio classico, con una gestione misurata di tempi e dinamiche, in Brahms (diretto a memoria) ha invece sciorinato qualche personale idea interpretativa, come la foga con cui ha attaccato l’iniziale Allegro molto, o l’aplombe (forse eccessivo, per me almeno) tenuto per il Menuetto

Ma il successo non è comunque mancato, per il Direttore e per l’Orchestra, specie per la sezione dei fiati che si è ben distinta (perdoneremo una svirgolata di corno) soprattutto in Brahms.

22 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°17


Atteso ritorno in Auditorium di Oleg Caetani, che ci presenta Mozart e Scriabin, in un concerto dall’impaginazione classica: Ouverture, concerto solistico e sinfonia.

La serata si apre con Così fan tutte, l’Ouvertura dell’ultima collaborazione Mozart-DaPonte, un brano di meno i 5 minuti che serve davvero a dare la carica a Orchestra e ascoltatori! Una cascata di crome svolazzanti, che impegnano gli archi ma soprattutto i legni e in particolare ancora le prime parti al flauto, oboe e fagotto (un po’ meno al clarinetto). L’Orchestra è guidata dal concertino Danilo Giust, promosso per Mozart a far da spalla; Caetani lascia briglia sciolta e ne esce uno spumeggiante antipasto che mette tutti (i pochi ma buoni in sala...) di buonumore.  
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Ancora Mozart e un concerto - il K242 - che pone serie difficoltà esecutive... ma non tanto a chi suona (fu composto per tre dilettanti, una signora e le due figlie...) bensì a chi deve preparare il palco: come sistemare tre pianoforti! Ecco una soluzione con i tre strumenti allineati e senza il podio direttoriale: è Solti che dirige la English Chamber e suona la parte facile (piano-3) con Schiff al piano-1 e Barenboim al 2. Qui da noi invece i tre catafalchi sono stati messi fianco-a-fianco (piano 1 e 3 con tastiera a sinistra per chi guarda) proprio come in questa esecuzione giapponese dove la grande Argerich fa la... piccola al piano-3, lasciando le due parti principali ai figli d’arte del grande Friedrich Gulda: unica differenza la posizione del podio, che in Auditorium è davanti ai tre pianoforti.

I tre pianisti sono Igor Andreev (32enne di Kaliningrad); Hans Hyung-Min Suh (30enne coreano trapiantato in USA, dove ahilui ha anche avuto qualche disavventura... extramusicale) e Lin Ye (28enne cinese ormai di casa in Europa e USA). Furono i tre primi classificati al Concorso pianistico Rina Sala Gallo (Monza, 2018, Vladimir Ashkenazy presidente di giuria) dove suonarono la prova finale proprio con laVerdi.

Pezzo abbastanza facile (credo) da suonare e gradevole da ascoltare, ed esecuzione accolta con calore e ripetute chiamate per i tre giovani pianisti.
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Dopo un intervallo più lungo del solito (per far scomparire nelle viscere dell’Auditorium i tre pianoforti...) si chiude con la Terza di Scriabin, che l‘immaginifico compositore russo sottotitolò, con impareggiabile modestia (credendosi Dante...) Poema divino! Una delle tappe (con gli altri due poemi-sinfonie, l’Estasi e il Fuoco) verso la fine dell’Umanità e il raggiungimento dell’estasi universale, un progetto da nulla, che per fortuna (o purtroppo, visto che la sua realizzazione avrebbe fermato la storia più di un secolo fa, risparmiando al mondo qualche piccola disgrazia...) rimase in gran parte sulla carta.

Avendo già scritto (denigrazioni incluse, haha...) del Divin poème a suo tempo, non sto qui a ripetermi. Caetani arriva con la bacchetta in una mano e un microfono nell’altra: ma non per spiegarci la sinfonia, bensì per raccontarci aneddoti biografici sull’Autore (evabbè...) L’Orchestra si è ingigantita e vonDellingshausen si è ripreso la sedia del Konzertmeister. Caetani dispone le due arpe alle estremità opposte del palco, per ragioni... stereofoniche; le viole sono al proscenio.

A dispetto dell’indicazione agogica Lento, il maestro parte in quarta, facendo eseguire ai bassi di fiati e archi il motto della Sinfonia a passo di carica! E poi per tutto il tempo non fa che mettere in risalto ogni possibile contrasto. Con ciò rendendo sicuramente più digeribile questa velleitaria mappazza del visionario moscovita.

Il che garantisce sempre un successo travolgente, il cui merito personalmente distribuisco per il 90% alla bravura degli esecutori e del Direttore, lasciando all’Autore le briciole!    

02 novembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°6


L’ormai immancabile appuntamento con il Requiem di Verdi è affidato quest’anno alle sapienti mani e alle amorevoli cure di Oleg Caetani.    

Insieme all’affiatatissimo coro di Erina Gambarini, compongono quest’anno il quartetto SATB Erica Wen Meng Gu (una pettoruta cinesona); Yulia Mennibaeva, che viene dalla Russia; Edoardo Milletti (compaesano di SanFrancesco) e il georgiano (lo dicono contestualmente nome e cognome) George Andguladze. Caetani li colloca al proscenio ai due lati del podio (da sinistra a destra per chi guarda) in ordine ASTB (ossia le voci gravi all’esterno) mentre l’orchestra (ieri guidata da Dellingshausen) si dispone teutonicamente con i violini secondi davanti a destra e i bassi dietro a sinistra; timpani e grancassa (protagonisti nel terrificante Dies Irae) stazionano in basso a destra, dietro i secondi violini; le trombe remote (per l’effetto stereo nel Tuba mirum) come sempre sono appollaiate alle due estremità avanzate della galleria.

Dico subito che la lettura di Caetani (che ha diretto con la partitura in... testa) mi ha pienamente convinto: prendo come esempio lo stacco del tempo dell’Offertorium, spedito proprio come da metronomo di Verdi, e non languido e strascicato come spesso capita di sentire. Impeccabile - come sempre, del resto - il coro, che 20 anni orsono nacque sotto la mano esperta (per anni e anni di Scala) di Romano Gandolfi.

A differenza di precedenti edizioni, mi pare che il quartetto dei solisti quest’anno sia di livello più che discreto. Su tutti l’imponente (anche nel fisico) Erica (faccio prima a dire solo il nome...) che ha mostrato un gran bel timbro di voce, con acuti senza una sbavatura e discreto volume anche nei centri e nei gravi; e poi Edoardo Milletti, che dopo un esordio periclitante (forse l’emozione) ha sfoggiato la sua voce squillante di tenorino lirico (canta spesso Almaviva). Gli ex-sovietici Mennibaeva e Andguladze hanno mostrato buona tecnica ed espressione, a dispetto di voci di potenza non eccezionale.

Auditorium tornato piacevolmente ad affollarsi e prodigo di applausi e acclamazioni per tutti. Fuori, persino il tempo si è rimesso al bello...

19 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°27

                                           
Riecco il prezioso Oleg Caetani sul podio dell’Auditorium per offrirci un programma ancora incentrato su Shostakovich, ma con reminiscenze della grande stagione del teatro musicale dell’800, e precisamente dei due compositori che ne rappresentano l’alfa e l’omega: Rossini e Wagner, la cui presenza aleggia proprio nell’ultima Sinfonia del russo.

Se qualcuno aveva dubbi sulla meticolosità del Direttore li avrà di sicuro sciolti vedendolo entrare sul palco in maniche di camicia e panciotto, poco prima dell’ingresso degli orchestrali, per segnare qualche indicazione sulle parti dei contrabbassi!

Si apre con Wagner e il Siegfrieds Rheinfahrt, il viaggio di Sigfrido sul Reno, l’intermezzo strumentale che nell’ultima giornata del Ring separa il Prologo (e in particolare il commiato di Siegfried da Brünnhilde) dall’arrivo del giovane eroe presso la corte dei Ghibicunghi, dove non più di un paio di giorni più tardi troverà morte ignominiosa. E l’incipit della marcia funebre che ne precede le esequie farà capolino nell’ultimo movimento della Sinfonia di Shostakovich.

Seguiamo il fantastico viaggio in questa esecuzione di Klaus Tennstedt.
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In realtà il brano che si ascolta (fu Engelbert Humperdinck ad assemblarlo così, per essere eseguito in forma di concerto) presenta come introduzione al viaggio le 52 battute che sottolineano l’alba e il risveglio di Siegfried e Brünnhilde (che hanno passato la notte nella grotta sulla di lei rupe circondata dalle fiamme).  

In tempo assai tranquillo si ode nel primo trombone il tema dell’Enigma del destino - è quello che ritroviamo appunto in Shostakovich - che sfocia nell’accordo tenuto dai tre tromboni (più la tuba, che Humperdinck prescrive al posto del trombone contrabbasso): una triade di FA# maggiore che convive per altre quattro battute con il MI del primo trombone. I violoncelli (21”) hanno contemporaneamente cominciato ad esporre un sommesso ed arcano recitativo che sale dal FA# grave al DO# sopra il rigo, per poi degradare a dente di sega e finalmente stabilizzarsi sul FA#.

E sul FA# (per loro enarmonicamente SOLb) i corni, in tre battute, espongono (55”) un motivo che fra pochissimo si farà perfettamente riconoscere come attinente a Siegfried. Ancora i violoncelli (1’12”) ripropongono il loro recitativo, stavolta partendo da una terza sopra (LA#) e poi lo sviluppano ampiamente, modulando a SOL minore, fino a disegnare (1’54”) un inciso che viene da lontano (Rheingold): dal tema della Fuga. Ecco: mentre l’alba è sempre più chiara e i bagliori del fuoco di Loge si fanno sempre più deboli, ci stiamo inoltrando all’interno della caverna nella roccia dove ancora dormono i due innamorati.

Ora i corni (2’15”) in SIb maggiore espongono compiutamente quel motivo soltanto abbozzato poco prima (in SOLb), il tema dell’Eroismo di Siegfried, che altro non è se non quello del Grido del fanciullo della foresta (che si ode per la prima volta nel Siegfried) riccamente armonizzato (esposto a due voci, per terze) e caratterizzato da un tempo assai più sostenuto.

Immediatamente lo segue (2’29”) nel primo clarinetto, contrappuntato dal clarinetto basso, il motivo di Brünnhilde non più Valchiria, o Brünnhilde donna. Insomma, a noi sembra quasi di vedere i due giovani aprire gli occhi, l’una dopo l’altro, e stiracchiarsi come ogni comune mortale al risveglio dopo una notte indimenticabile. Ed è incredibile come i due motivi, esposti qui in stretta sequenza, ci appaiano quasi come un’unità indivisibile, il secondo come una logica e consequenziale risposta al primo: ecco la mirabile sintesi musicale della perfetta unione di due cuori, di due anime innamorate!

È il nuovo tema di Brünnhilde a prendere ora decisamente il sopravvento (3’05”) in MIb, con il suo caratteristico piglio: sottodominante LAb, gruppetto rovesciato attorno alla stessa (SOL-LAb-SIb-LAb), salto in alto alla sopratonica FA poi giù alla sesta DO, ancora su alla tonica MIb e giù alla sopratonica FA (la parte iniziale del tema deriva chiaramente dal Rienzi). Il tema si ripete ancora, slanciandosi continuamente da punti più alti (sottodominante, poi sesta, poi tonica, infine ancora dalla sesta superiore) preparando l’arrivo di quello dell’Eroismo di Siegfried.

In realtà qui (4’20”) si salta a piè pari il lungo duetto fra i due innamorati per seguire Siegfried che, dopo aver salutato Brünnhilde, ha preso il cavallo Grane (dono della giovane ex-valchiria) per le briglie e si incammina giù per lo scosceso pendio che separa la roccia infuocata dal Reno, scomparendo alla vista, per andarsene finalmente a scoprire il mondo. È accompagnato appropriatamente da due temi: quello del suo Grido, urlato da oboi, clarinetti e corni, contrappuntato in tromba bassa e terzo trombone da quello della Cavalcata (delle Valchirie) chè lui ora possiede un mezzo di locomozione equino (sia pure non più in grado di... volare). Essi sfociano, sempre in fortissimo e con piena consequenzialità (4’30”) in quello della Libertà, con nuove sporadiche apparizioni (in tromba bassa e prima tromba) di quello della Cavalcata.

Brünnhilde ha seguito Siegfried fin sull’orlo del pendio ed ora la vediamo (anzi… ascoltiamo attraverso l’orchestra) osservare l’eroe che si allontana: allacciandosi al RE (sensibile del MIb che caratterizzava Siegfried) ecco che il suo tema adulto (4’48”) si slancia in alto di un tritono (!) arrivando al LA maggiore, dove passa da una sezione all’altra dell’orchestra, fino a quando Siegfried sembra scomparire anche alla vista della donna amata.

Sì, perché ormai sta arrivando in basso, forse scorge in lontananza la sponda del Reno: con una brusca modulazione a FA maggiore, ecco risuonare nel corno (5’40”) il tema inconfondibile del suo Grido. Ancora un fugace inciso di Brünnhilde (5’55”) che ormai lo sta perdendo di vista e gli lancia un ultimo saluto, dopodichè il tema del Grido aizza in orchestra in tutta la sua pienezza (6’12”) il motivo della Decisione d’amare, che i due avevano intonato alla chiusa della seconda giornata (Siegfried). Un motivo che, al di là della chiara valenza spirituale, richiama irresistibilmente anche l’atto materiale di scendere a balzelloni, e con temporanee risalite, lungo un crinale scosceso.   

Ed ora ecco il vero e proprio viaggio sul Reno, che prepara l’approdo a quello che nell’opera si scoprirà essere un ambiente falsamente accogliente, in realtà un luogo di perdizione! È una vera e propria rapsodia renana, costruita fondendo in mirabile simbiosi e con orchestrazione lussureggiante i vari temi legati in qualche modo al grande fiume, comparsi fin dal Rheingold, con quelli di Siegfried.

La prima parte del viaggio vede Siegfried ancora in fase di discesa dalla rupe di Brünnhilde, come ci precisa la comparsa accanto al tema del Grido (6’43”) adesso divenuto più tranquillo e disteso (il tratto più scosceso del crinale è stato evidentemente superato) del motivo del Fuoco di Loge (7’01”) che tuttora avvolge i piedi della roccia di Brünnhilde: per Siegfried ormai dev’essere uno scherzo attraversarlo, almeno a giudicare dalla languida forma che il tema ha assunto.

Finalmente siamo sulla sponda del grande fiume. Che musica ci accoglie qui? Pare di essere tornati al Preludio del Rheingold: l’Elemento primordiale (7’50”) in tutti i fiati contrappuntato dall’Ondeggiamento negli archi; però la tonalità ha di nuovo virato al LA maggiore, che si trova ancora una volta a distanza di un malefico tritono dal MIb della Vigilia! Ed è quasi per ribellarsi a questa specie di eresia che Wagner introduce una disperata modulazione al MIb (8’17”) proprio mentre il tema dell’Elemento primordiale sfuma temporaneamente in quello speculare del Crepuscolo degi Dèi, prima di riprendere il suo corso in MIb.

Adesso all’Elemento primordiale segue (8’52”) il Canto delle Figlie del Reno, ma nella sua versione dolente, quella cantata dalle tre ninfe desolate alla fine del Rheingold; per di più contrappuntata nei fagotti e violoncelli da cupi incisi del Grido di Siegfried, poi da quelli dell’Oro (9’11”) nelle trombe. Altro chiaro indizio di malessere, di instabilità, altre nuvole che si addensano su uno scenario che pareva presentare tutte le caratteristiche del trionfo e della felicità. 

Ma non è finita: compare anche (9’44”) il tema dell’Anello, nella forma in cui originariamente si ascolta dalla voce di Wellgunde nel Rheingold; poi qui (come là) sfocia (10’09”) in quello della Rinunzia, due volte, seguito da due sinistre apparizioni del tema dell’Oro (10’31”) prima nel corno, poi nella tromba bassa.  

Ecco, il viaggio sarebbe concluso, mentre il povero Siegfried si sta pericolosamente inoltrando in un mondo assai poco raccomandabile... ma Humperdinck pensa bene di aggiungere di suo una decina di battute trionfalistiche in MIb maggiore, così il pubblico è accontentato. (Il buon Tennstedt però le taglia di netto.)
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Brano invero trascinante, che Caetani chiude con le battute di Humperdinck, così  l’applauso scroscia copioso. Devo dire onestamente che non si è proprio trattato di un’esecuzione... storica, ecco: il corno di Siegfried doveva essere ancora poco riscaldato e l’amalgama fra le sezioni dell’orchestra mi è parso migliorabile.
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Si prosegue con Rossini e la Sinfonia dal Guglielmo Tell, uno dei cavalli di battaglia del’Orchestra, che l’ha eseguita una dozzina di volte nel corso della sua storia. Sempre mirabile il recitativo del pacchetto dei cinque violoncelli (guidati nell’occasione da Tobia Scarpolini) che apre la sinfonia, poi è la volta del corno inglese di Paola Scotti ad accompagnarci nella selva opaca. Infine arriva il celeberrimo e travolgente motivo della cavalcata finale, che viene citato da Shostakovich nel primo movimento della sinfonia che chiude il concerto.

Qui davvero non si possono fare appunti di sorta ai ragazzi e al Maestro, che si meritano lunghi applausi dal un pubblico abbastanza folto.
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Ecco infine il clou del programma: la Sinfonia n°15 di Shostakovich, l’ultima sua (1971) che rappresenta una specie di sunto della sua esperienza musicale ed esistenziale. Qui si può ascoltare la registrazione della prima, diretta a Mosca dal figlio Maksim, sabato 8 gennaio, 1972. Caetani - non è la prima volta - arriva sul podio impugnando al posto della bacchetta un... microfono per raccontarci genesi e sostanza dell’opera che si appresta a portare alle nostre orecchie (e da qui a cervello e cuore).

In questa ultima fatica Il compositore - vicino ormai alla fine - sembra divertirsi a giocare con forme e contenuti, mescolando bizzarrie parodistiche e infantili con seriose meditazioni filosofiche. Il tutto con ampie spruzzate di citazioni (proprie ed altrui). Così ecco un primo movimento (Allegretto) che della forma-sonata mantiene a fatica un simulacro, sfociando in realtà in un libero quanto geniale affastellarsi di temi scanzonati, dove (all’interno del secondo gruppo tematico) fa capolino l’inconfondibile motivo della cavalcata che chiude la Sinfonia del rossiniano Tell. E poi una serie di interventi spiritati ed esilaranti di percussioni leggere, insieme a glockenspiel, celesta, xilofono e vibrafono (si noti come questi ultimi strumenti siano presenti nelle battute conclusive di tutti i 4 movimenti della sinfonia.) Compare di sfuggita, nella trombetta, anche un frammento che ricorda il Mahler della quinta. Riguardo all’impertinente e infantile primo tema (MIb-LAb-DO-SI-LA) esposto dal flauto, è stato osservato come la simbologia tedesca di quelle 5 note richiami appropriatamente il nome S-AS-C-H-A, il nipotino dell’Autore (Shostakovich aveva la mania dei temi richiamanti nomi di persona, ad iniziare dal suo proprio - DSCH - citato spesso e volentieri nelle sue musiche, oltre che scolpito sulla lapide della sua tomba).

Segue un Adagio che alterna severi corali di ottoni a lunghe e nobili melodie del violoncello e a meste melopee del trombone solo, intercalate da interventi delle piccole percussioni. Poi uno scherzo (Allegretto) che reintroduce atmosfere ora spiritate ora sognanti e infine un altro Adagio che chiude l’opera nel segno di Wagner. É infatti introdotto dal Leit-motiv dell’Enigma del destino, che sfocia in un Allegretto dal sapore agrodolce nel quale nasce una passacaglia dall’ostinato che ricorda la marcetta teutonica della settima. Questa chiude con un colossale frastuono (ritorno in Adagio) che poi si smorza per far posto ancora all’Allegretto che conduce alla conclusione, introdotta dal motivo del Tristan che torna ancora per accompagnarci, dopo un percorso di fatiche e sofferenze, verso una conclusione che, se non proprio divertita e scanzonata, appare quanto meno serena e rassegnata senza drammi, come testimoniano i sommessi cicalecci della batteria delle percussioni e degli strumenti dal suono argentino.

Shostakovich era arrivato a condannare la tecnica seriale-dodecafonica come il peggior male della musica del 20° secolo. Ma in questa sinfonia (ed in altre opere della maturità) sembra divertirsi ad inventare motivi di 12 note (che poi però manipola con criteri personali, irrispettosi del metodo di Schönberg). Qui alcuni esempi presi dai primi tre movimenti della Sinfonia:


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Caetani, grande specialista di Shostakovich - del quale ha inciso anni fa l’integrale sinfonico proprio con laVerdi - ottiene davvero il massimo da tutti e da ogni singolo strumentista (praticamente tutte le prime parti hanno in carico passaggi solistici di grande impegno). Dopo che archi, celesta, glockenspiel e... triangolo (!) hanno esalato, morendo, la triade perfetta di LA maggiore, il Maestro ottiene almeno 5 secondi di religioso silenzio, prima che il pubblico sia autorizzato a dar sfogo all’entusiasmo.     

14 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°4


Oleg Caetani è il protagonista dell’appuntamento di questa settimana, con un programma tutto russo, anzi... russo-sovietico! Già, perchè proprio in questi giorni corre il secolare anniversario della Rivoluzione più amata e più odiata nella storia dell’umanità, e allora viene proposto per la prima volta in Italia l’omaggio che a quell’avvenimento rese Sergei Prokofiev nel ventesimo anniversario.

Si tratta della Cantata op.74, che a dispetto delle (verosimili) migliori intenzioni dell’Autore conobbe un’esistenza assai stentata: composta giusto in tempo per l’anniversario ottobrino, venne invece stroncata dall’establishment staliniano (forse per lesa-maestà, dato che cita discorsi del dittatore, oltre che di Lenin e Marx) e così il povero Prokofiev mai la potè udire eseguita compiutamente. Fu Kirill Kondrashin a riesumarla e presentarla al pubblico, ma solo 13 anni dopo quel giorno del 1953 in cui Stalin e Prokofiev si presero amichevolmente per mano per procedere insieme al... trapasso. Però, accipicchia, nel ’66 erano ancora tempi di de-stalinizzazione, e la Cantata comprende ben due numeri (dei 10) che riportano testi del baffuto dittatore caduto in disgrazia. Ecco che allora i due movimenti vennero cassati (per il reato di apologia dello stalinismo!) e il finale rimaneggiato. Solo nel 1992 a Londra l’opera verrà udita nella sua originale interezza, diretta da Neeme Järvi e con Gennady Rozhdestvensky voce recitante. Noi abbiamo pazientemente aspettato altri 25 anni, senza peraltro farci sopra una malattia... Qui invece un’interpretazione di Gergiev al Barbican.

Nella consueta conferenza che precede il concerto, l’autorevole russologo Fausto Malcovati e il sovietologo (per antica, seppur miglioristica, militanza) Gianni Cervetti (oh, dico, Presidente de laVerdi) hanno riassunto le vicissitudini – nello scenario poco rassicurante del periodo delle purghe staliniane - della gestazione e dell’aborto dell’opera; poi è stato lo stesso Caetani, prima di imbracciare la bacchetta, a dire la sua riguardo quest’opera, che molti bollano come ipocrita, mentre lui (e io concordo in pieno) le riconosce totale buona fede e patriottismo encomiabile (pur se mal riposto... ecco).

Palcoscenico riempito all’inverosimile (come del resto la sala dell’Auditorium, letteralmente presa d’assalto) con l’orchestra disposta in modo assai inconsueto: le viole al posto dei violini secondi messi al proscenio, davanti ai celli e con i bassi alle spalle. Ma c’era da far posto anche a pianoforti e fisarmoniche! Oltre, naturalmente, al coro di Erina Gambarini. E così membri della Filarmonica Paganelli (qui in veste di banda militare aggiunta all’orchestra) guidati da Donatella Azzarelli hanno dovuto trovar posto nella parte anteriore destra della galleria, da dove hanno peraltro realizzato un’accattivante effetto stereofonico.

Musica certo ricca di retorica ed enfasi (ma perchè, il Nevsky non lo è?) come si addice all’occasione; però Prokofiev vi si riconosce da lontano e se ne può apprezzare tutta l’inventiva e la carica genuina.

Grandissimo successo e massimo merito a laVerdi e al maestro Caetani per essere stati i primi in Italia a proporre quest’opera praticamente sconosciuta, ma assolutamente meritevole di apprezzamento.  
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Il concerto si era aperto, come di prammatica, con una sconosciuta e desueta composizione di riempimento: la Patetica di Ciajkovski (!!!) 

Caetani ne ha dato una lettura essenziale, prosciugandola di ogni leziosità decadente (parlo dei movimenti esterni, condotti con piglio quasi espressionista) e non lesinando in fatto di energia (e di... decibel) nei due movimenti interni. Insomma, un Ciajkovski vicino al ‘900 e a Prokofiev, date le circostanze.