Marius
Stravinskij torna inaspettatamente sul podio dell’Auditorium per rimpiazzare il venerabile
Aldo Ceccato in un concerto (quasi) interamente dedicato a Scriabin. Il quale sembrerebbe un nome che tira poco, a giudicare dagli ampi spazi
vuoti dell’Auditorium.
Ad aprire il programma è però la Russia
di Campogrande (omaggio EXPO). Ciò
che si riconosce dell’inno è una specie di parodia, forse di quelle che Putin
impiegava come colonna sonora per le burlesque
che organizzava nella sua dacia per Berlusconi (stra-smile!)
Si comincia a far sul serio con un altro
aficionado de laVERDI, Benedetto Lupo, che si presenta a
proporci il Concerto op.20. Che a prima vista parrebbe Rachmaninov
innestato su Chopin, ma in realtà mostra la spiccata personalità di Scriabin,
specie nel centrale Andante. Spesso è
l’orchestra a dettare i temi, con il pianoforte che ci arabesca sopra in piena
libertà. Lupo dà però il meglio nel conclusivo Allegro moderato, dove c’è più dialogo con l’orchestra: in
particolare nella sezione cantabile, interpretata con grande sensibilità. Due bis dello stesso autore suggellano la
sua pregevole prestazione.
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La seconda parte del concerto è la Terza
sinfonia, sottotitolata Poema
divino. In realtà di Sinfonia propriamente detta ha poco o nulla, la
struttura essendo assai libera, una cosa fra il poema sinfonico e la fantasia,
composta da un’Introduzione e tre
episodi indicati come Luttes, Voluptés e Jeu divin.
Il programma filosofico dell’opera,
steso dalla compagna del compositore (a posteriori, si noti bene) ci dice
trattarsi del faticoso emanciparsi dell’uomo: dall’animalesco essere
cavernicolo credulone in dèi antropomorfi, fino al superuomo di stampo
nietzschiano, dio di sé medesimo. Evabbè.
A testimoniare della pretenziosità della
Sinfonia basterà citare alcune indicazioni di agogica e di espressione
disseminate sulle pagine della partitura: divino,
grandioso, mistico, con sconcerto e terrore, misterioso, tragico, più audace,
trionfante, con tragico terrore, slancio gioioso, con impeto ed ebbrezza,
venato, oppresso, con stanchezza e languore, romantico e leggendario, fiero e
sempre più trionfante, mostruoso e terrificante, fosco, trafelato, voluttuoso,
con ebbrezza strabocchevole, limpido, in deliquio, slancio divino,
affannosamente alato, gioia sublime estatica…
Domanda: sono gli stati d’animo che
l’esecutore deve assumere mentre suona, o le caratteristiche del suono che deve
produrre lo strumento? Beh, sulla seconda ipotesi ci sarebbe da discutere assai
(smile!)
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L’Introduzione si apre con il motto
che caratterizzerà la Sinfonia, esposto da tutti gli strumenti gravi:
Tema che si muove fra gli estremi
(REb-LA) di un tritono, tanto per
iniziare il discorso dal… diavolo, in attesa di mettersi in marcia verso il
soprannaturale. Subito dopo lo suggella la tromba.
L’Introduzione è assai breve e
sfuma verso l’Allegro di Luttes, un simulacro di forma-sonata, aperto da un tema agitato dei
violini in DO minore, chiaramente derivato dal motto:
Tema che si sviluppa fino a
lasciar posto ad una sezione più elegiaca, che sfocia in un altro motivo, di
piglio eroico, in Mib maggiore, che tornerà spesso a farsi sentire:
Dopo aver raggiunto il climax,
con un passaggio in cui qualcuno vede il Dresden
Amen, ecco un nuovo motivo di stampo virile:
che viene successivamente ripreso
in forma più mossa e che porta alla riproposizione, due volte, del motto. Qui si
chiude quella che possiamo definire l’esposizione.
Inizia ora uno sviluppo del primo tema dell’Allegro, innalzato di una quinta, a SOL
minore. Conseguentemente innalzato a SIb maggiore anche il secondo tema eroico.
Si arriva poi ad una sezione drammatica, dove il primo tema riappare assai
dilatato, negli ottoni, sezione che porta ad un tremendo schianto dell’orchestra.
Ora il primo violino espone una melodia implorante, in LAb:
Motivo che viene sviluppato
portando infine ad una nuova grandiosa perorazione del motto. Inizia adesso una
lenta transizione che porta a chiudere lo sviluppo e alla ripresa del primo tema nel DO minore canonico. Dopo che esso è
stato adeguatamente sviluppato, tornano anche il secondo e il terzo motivo, fino
alla ricomparsa truculenta del motto.
Qui però non si chiude ancora, ma pare di avere un nuovo sviluppo, con il primo
tema che torna in SOL minore; arriviamo invece ad un’oasi bucolica, con il
violino solo che canta una nuova melodia mentre gli strumentini imitano il
cinguettare di uccelli…
Un improvviso irrompere di una
nuova cellula, che sembra venire direttamente dalla quarta di Ciajkovski, ci porta finalmente alla conclusione dell’episodio,
con la proterva reiterazione del motto e un successivo rarefarsi dell’atmosfera.
Attacca quindi il secondo
episodio, Voluptés, in MI maggiore,
con l’esposizione da parte dei flauti del suo primo e principale tema, che è chiaramente mutuato da quello del
violino della precedente sezione:
Il quale viene sviluppato in modo
assai ampio, in tutte le sezioni dell’orchestra. Si arriva quindi ad un nuovo
squarcio bucolico, con trilli e svolazzi degli strumentini, dove è il violino
solista a riesporre languidamente il tema, in SI maggiore. Un crescendo
orchestrale ispessisce il colore della scena, ma senza turbarla. Ancora il
violino riprende la sua melopea, poi si continua quasi all’infinito con
abbandoni degli archi e pesanti interventi degli ottoni, finchè irrompe la
trombetta ad attaccare il Jeu divin:
Per tutta la prima parte, in DO,
abbiamo un continuo abbandonarsi a languidi motivi, quasi una melodia infinita
senza precise connotazioni tematiche, con gli ottoni e la tromba ad intervenire
con i loro richiami (la tromba insiste sull’inciso con cui aveva risposto al
motto, nell’Introduzione).
Ecco però una sorpresa: riappare in
MI minore il tema della Lutte, subito
zittito da poderosi interventi dei fiati, che portano ad un nuovo ritorno:
quello – enorme, soprattutto nelle trombe – del tema delle Voluptés.
Come tutti ormai si aspettano, è
la ricomparsa del motto a condurre
alla retorica, enfatica e pretenziosa conclusione.
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Devo dire che l’attacco iniziale
(tromboni e tuba in particolare) non mi ha soddisfatto: tutto in legato, quando invece sono chiare le
forchettine indicanti il marcato. Però
in seguito le cose sono assai migliorate e complessivamente la prestazione di
tutti è stata di buon livello: acclamato giustamente Alessandro Caruana che,
soprattutto nell’ultima sezione deve davvero spomparsi fino all’esaurimento.
Stravinskij, probabilmente arrivato con
poco preavviso, ma sempre con l’aplombe
da funzionario di banca, ha fatto del suo meglio per renderci il meno indigesto
possibile questo velleitario intruglio: e il pubblico ha speso i suoi applausi
di stima per lui e per i ragazzi, non credo per il compositore…
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