Dopo aver preso in considerazione il testo del dramma di Maeterlinck così come adattato da Debussy per la sua opera, proviamo a farci un’idea di quest’ultima, che il Maggio fiorentino ospiterà a partire da domani.
Debussy,
primi anni ’90 del secolo XIX, aveva alcuni possibili modelli cui ispirarsi per
un’opera teatrale: Wagner in-primis,
di cui lui (prima di distaccarsene al seguito di Nietzsche) era stato ammiratore tanto incondizionato da fare
innumerevoli pellegrinaggi a Bayreuth, per il Ring, Tristan e Parsifal; all’opposto (quanto a
notorietà acquisita, oltre che ad approccio al dramma musicale) Musorgski, di cui aveva ammirato le
spericolate innovazioni del Boris; o
magari, perché no, Mascagni, che in
quegli anni era venuto alla ribalta con Cavalleria,
un soggetto che, al di là delle incrostazioni simboliste, lì del tutto assenti,
era però nella sostanza un parente del Pelléas,
basta sostituire questi con Turiddu, Golaud con Alfio, Mélisande con Lola e
Geneviéve con Lucia (smile!)
Certo un tipo
con la puzza al naso come Debussy mica poteva abbassarsi al livello di un
Mascagni qualunque… mentre non potè evitare di tener buona almeno in parte la
lezione di Wagner e di far proprie alcune soluzioni dell’ubriacone russo. E
così, anche se si offendeva a morte a sentirli definire come Leitmotive, pure lui si servì, e come,
di motivi conduttori (Maurice Emmanuel
ne ha catalogati non meno di 13) anche se li impiegò in modo e in quantità non
paragonabili a quelli di Wagner.
Poi: si era a
fine ‘800, e sempre più si metteva in discussione la tonalità: e anche chi ci si dichiarava fedele (un Mahler, tanto per dire…) faceva poi di
tutto per insidiarne il predominio, scarnificandola di continuo e aprendo la
strada a chi (meno riverente della tradizione) ne predicava e praticava il
seppellimento (Schönberg in primis).
Debussy, che da
colto sciovinista non si voleva mescolare ai rozzi crucchi, si differenziò da costoro rimanendo formalmente ancorato
alla tonalità (tutte le sue partiture recano i classici accidenti in chiave) ma surrogandola con il frequente ricorso a
scale esotiche: tanto per dire, nelle prime sole sei (!) battute del brevissimo
Preludio del Pelléas ne vengono impiegate due, che poi giocheranno un ruolo di
primo piano, anche se non esclusivo, in tutta l’opera: la scala pentatonica (DO-RE-MI-SOL-LA) e la scala
a toni interi
(DO-RE-MI-FA#-SOL#-SIb). Entrambe le scale mancano della sensibile (il SI nella tonalità di DO) e non comprendono semitoni (quindi impediscono ogni
disegno cromatico). Ora, bisogna sapere
che l’orientamento alla sensibile è
stato il motore di tutta la musica occidentale da prima di Bach fino ad…
Allevi! E quindi, levare di mezzo quella nota, alle nostre orecchie fa lo
stesso effetto che farebbe alle nostre papille gustative il bandire il sale dai nostri manicaretti. Insomma, la
musica senza sensibile, per noi (e sottolineo: noi) diventa inSIpida (smile!) Per questo, almeno di primo acchito, il Pelléas non coinvolge
ed entusiasma come una Cavalleria! Peccato
perché invece è opera che ha tutto il diritto di essere apprezzata, proprio
come va apprezzato qualcosa di unico nel suo genere (nemmeno il suo autore
riuscì più a ripetere nulla di simile).
Le prime 4
battute presentano un primo tema costruito ed armonizzato con la scala pentatonica, caratteristica di
certa musica orientaleggiante, arcaicizzante e naif, che rappresenta tradizionalmente l’innocenza, il mondo celeste,
la pace della natura (qui abbiamo il bosco, ma l’atmosfera ricorda anche quella
immobile del preludio del Rheingold)
mentre il secondo (nel seguito associato alla personalità di Golaud) è
costruito ed armonizzato con la scala a
toni interi, che ha un che di istintivamente repellente, innaturale (vi mancano
la quinta e la quarta giuste) e diabolico
(come attesta il tritono RE-LAb nei
bassi).
Ecco, nel
Pelléas ritroveremo spesso motivi e atmosfere creati con queste due scale, a
rappresentare rispettivamente momenti (o personalità, o stati d’animo, o
ambienti naturali) caratterizzati da serenità, poesia, cielo, sole, luce e
soprattutto amore; oppure da violenza, oscurità, barbarie, cattivi sentimenti.
E anche l’impiego degli strumenti dell’orchestra e dei relativi colori sarà
conseguente: chiarezza e trasparenza nel primo caso (archi, strumentini, arpe);
colori cupi e opachi nel secondo. A queste due scale particolari Debussy
affianca poi modi gregoriani e scale più tradizionali, come la maggiore, la
minore e il cromatismo, laddove lo richiedono le atmosfere da ricreare.
Altro aspetto
peculiare della scrittura di Debussy (e lo si osserva in queste primissime
battute) è la giustapposizione di temi costruiti con scale diverse, e quindi lontani
e addirittura in conflitto fra loro: e ciò è propriamente la traduzione in
musica della tecnica di Maeterlinck consistente nell’affiancare o sovrapporre nella
sua prosa elementi (materiali e soprattutto psicologici) fra loro contrastanti,
facce opposte e confliggenti di una realtà inafferrabile. (Su scala più
macroscopica, è ciò che Wagner fece con Parsifal, dove si fronteggiano il diatonismo
del Gral e il cromatismo di Klingsor.)
Anche il
tema di Mélisande, che pure compare già dal Preludio, è costruito con questa
tecnica di giustapposizione di elementi contrastanti, essendo formato da due
sezioni, di cui
la prima (prevalente nel prosieguo dell’opera, peraltro) più serena ed elegiaca
e la seconda più aspra ed agitata, a rappresentare la duplice personalità della
donna:
Quanto a
Pelléas, il suo tema viene esposto nella seconda scena, al momento per lui di
presentarsi con la lettera di Marcellus:
Anche il piccolo Yniold ha un suo tema,
esposto per primo dall’oboe (su una scala di DO# minore) al termine
dell’Interludio fra la terza e la quarta scena dell’atto III:
È un tema meno scolpito rispetto a
quelli di Golaud e Mélisande, quasi a tratteggiare una personalità evanescente
e incerta (si notino le sincopi nelle viole).
Va osservato che i temi associati ai
personaggi sono quasi esclusivamente relegati in orchestra: servono quindi ad
evocarne la presenza o il ricordo, più che ad incarnarne le esternazioni.
Oltre a quelli elencati troviamo
ovviamente i motivi che evocano luoghi od oggetti, o sensazioni; in ordine di
apparizione: l’acqua, l’anello, la malattia, i rumori della grotta, la povertà,
i capelli, la caduta da cavallo, la minaccia i Golaud, il sospetto, le lacrime,
il gregge, la trappola, l’ombra, la dichiarazione d’amore, il risveglio, la
neonata, il calar del sole.
Come detto, non tutta
l’opera è ostinatamente ancorata alle scale prive di sensibile e semitoni, come
dimostra ad esempio questo motivo che ascoltiamo dalla bocca di Re Arkël nella sua prima esternazione, costruito sulla scala
pentatonica, ma incorporante un FA che la impreziosisce; ecco come lo raddoppia
il clarinetto:
Non per nulla
c’è chi l’ha vista come un omaggio al vecchio buon Gounod… e a proposito di Arkël, il Re viene gratificato (atto I, scena II e atto IV, scena II) di
due autentiche arie, da far invidia
all’opera italiana.
Poi tutto l’armamentario
del cromatismo viene impiegato nelle scene-madri dell’opera, come nella
violenta tirata che Golaud fa alla moglie, nella seconda scena del quart’atto, o
nell’ultima scena dello stesso atto (incontro amoroso di Pelléas e Mélisande)
dove troviamo una pagina come questa, degna di… Massenet o Puccini:
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A proposito
invece di… reminiscenze, soprattutto wagneriane, l’Interludio fra le due prime
scene inizia con una specie di Waldweben,
ma contemporaneamente presenta anche una rassomiglianza impressionante con
l’accompagnamento al racconto di Pimen,
nel primo atto del Boris; (poi Mahler se ne ricorderà nel secondo canto del Lied von der Erde…)
L’Interludio culmina
poi in una citazione tanto chiara quanto appropriata alla circostanza (il faticoso
cammino di Golaud e Mélisande per uscire dalla foresta) del cambiamento di
scena del prim’atto di Parsifal:
Un altro Interludio,
quello che porta alla terza scena del second’atto (quella della grotta dove si
reca Mélisande con Pelléas) è aperto da una figurazione degli archi che ricorda
chiaramente l’incipit del terzo Preludio del Tristan, con la snervante dissonanza (SI-LA in Debussy e SOL-FA in
Wagner) che li caratterizza:
Nella seconda
scena dell’atto IV (incontro fra il Re e Mélisande) nel mezzo di quella che è
un’autentica e strepitosa aria di Arkël
(tipo Re-Marke, per intenderci) subito prima di Viens ici; pourquoi restes-tu là sans répondre et sans
lever les yeux?, la viola suona, un tono sotto, il leggendario tema
che apre il Tristan!
Invece richiama
ancora Parsifal la chiusa dell’atto
IV, con la caduta di seconda maggiore (SOL-FA) che ricorda quella (DO#-SI) che
conclude l’atto di Klingsor.
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Per chi volesse
approfondire nei dettagli l’esplorazione di quest’opera tanto interessante
quanto ostica, è disponibile in rete la storica analisi (1907) fattane da Lawrence Gilman.
Magari da accompagnare con il video di una altrettanto (ormai) storica
produzione del 1992 di Peter Stein,
diretta da uno dei maestri che più ha studiato e sviscerato (fin dal 1969) il
Pelléas: il venerabile Pierre Boulez, qui con
la WNO.
Vedremo come se
la caveranno i due Danieli a Firenze,
dove purtroppo la proposta pare venga (finora almeno) apprezzata da pochi
intimi, a giudicare dal mucchio di biglietti ancora disponibili in internet per
tutte e 4 le rappresentazioni.
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