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consulta e zecche rosse

22 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (3)

 

Ieri all’OF seconda recita del Pelléas dei due Danieli. Nota davvero stonata i larghissimi vuoti in sala, testimonianza fin troppo lampante, oltre che desolante, del degrado della cultura musicale del pubblico italiano, a dispetto delle risorse pubbliche impiegate per costruire strutture che diventano le classiche cattedrali nel deserto, il deserto delle sale…  

Spettacolo complessivamente di buon livello, soprattutto sul fronte dei suoni (che poi è ciò che conta di più).

Daniele Gatti è alla sua prima esperienza con Pelléas (non certo con Debussy): per essere un esordio, diciamo che è stato… promettente, ecco. Ha tenuto mediamente tempi abbastanza serrati (tipo Abbado o Karajan) che privilegiano il lato più onirico che non quello drammatico (paura e crudeltà, come ebbe a sentenziare Boulez) dell’opera. Ma il Pelléas ha tali e tante sfaccettature che un Direttore vi potrà sempre trovare qualcosa di nuovo da mettere in luce: se ci tornerà sopra, non ho dubbi che anche Gatti (come accadde proprio a Boulez, per dire) ripenserà in qualche modo l’interpretazione, quanto meno in molti dettagli. L’orchestra del Maggio mi è parsa a sua volta all’altezza del compito, avendo prodotto sempre un suono pulito e trasparente, cosa certo da accreditare anche alla consuetudine di Gatti con le opere strumentali di Debussy (il quale sprezzava il magma sonoro wagneriano, dove secondo lui un violino non si distingue più da un corno). E che fra Gatti e l’Orchestra si sia instaurato un feeling particolare lo dimostra il calore dell’accoglienza che i Professori hanno riservato al Maestro all’uscita finale, in un tripudio di archetti agitati in aria al suo indirizzo!    

Gatti ha scelto un cast tutto italiano: scelta legittima, anche se forse un po’… provocatoria, o bizzarra, come la si voglia giudicare. Ma prima di parlare delle voci, bisognerebbe ricordare come le tessiture dei protagonisti siano influenzate non solo dalle rispettive caratteristiche antropologiche (giovane, vecchio, mite, ombroso) ma anche e soprattutto dall’idiosincrasia di Debussy (in questo davvero seguace di Wagner) per gli stereotipi dell’opera tradizionale, con conseguente abbandono non solo di ogni forma chiusa, ma anche di ogni forma di affettazione, così tipica del melodramma classico, dove i personaggi mai e poi mai (né nei recitativi né tanto meno nei numeri) cantano come si parla normalmente. Per Debussy valeva la massima prima le parole, poi la musica, e la musica doveva servire il testo del dramma, non viceversa: insomma, l’antico recitar cantando di bardiana memoria. Una delle tante conseguenze di questo approccio è la relativa intercambiabilità (tenore-baritono e soprano-mezzosoprano) delle voci dei due protagonisti del titolo. 

Il personaggio di Pelléas – notato da Debussy in chiave di SOL, cioè di tenore - ha una tessitura che va dal DO sotto il rigo al LA sopra, nemmeno due ottave: certo una tessitura ardua, sugli acuti, per un baritono, ma che ha frequenti (e difficoltose, per un tenore leggero) escursioni in zona grave (penso ad esempio alla scena della grotta dell’atto II, dove si tocca eccezionalmente un SOLb sopra il rigo, ma dove per il resto la declamazione si muove tutta sull’ottava bassa). Non a caso alla prima del 1902 fu interpretato da Jean Périer, che era un bari-tenore (o baryton-Martin come usano definirlo i francesi) e Debussy stesso scrisse appositamente degli ossia sullo spartito in occasione di recite affidate a tenori, ma discusse addirittura la proposta di affidare la parte ad un mezzosoprano (alla prima del dramma di Maeterlinck Pelléas era impersonato da un’attrice, Marie Aubry). Ebbene, Paolo Fanale, tenore dalla voce brunita e robusta, si è dimostrato una scelta assai azzeccata per il ruolo, che ha diverse sfaccettature, dall’efebico all’eroico. Purtroppo proprio alla fine (la scena d’amore del quart’atto) mi è parso che la sua voce abbia perso un po’ di smalto e incisività, con la conseguenza che le bordate sonore scagliate da Gatti dalla buca lo abbiano travolto e coperto.

Quanto a Mélisande, la tessitura è ancora più corta di quella di Pelléas, andando dal DO sotto il rigo al LAb sopra (tanto per esemplificare, all’acuto è solo un tono pieno sopra quella di Geneviève): e infatti anche qui la parte può essere sostenuta da soprani (quale fu la prima interprete, Mary Garden) ma altrettanto bene da un mezzosoprano, come qui Firenze dove troviamo Monica Bacelli. Che mi è parsa ben calata nel ruolo, proponendoci una Mélisande dalla cangiante personalità, celestiale ma allo stesso tempo anche ombrosa e scabrosa. La sua voce non è delle più… pure e qualche acuto è stato un po’ maltrattato, ma in complesso si merita un’ampia sufficienza.

Su Golaud non ci son dubbi che debba essere un baritono, ma un baritono di voce abbastanza chiara, poiché il personaggio sarà pure sbifido, ma non è certo uno Scarpia. Ecco, Roberto Frontali se l’è cavata assai bene, proponendoci un personaggio divorato dai dubbi, ma mai sopra le righe: convincenti soprattutto le due scene-madre con Mélisande (quarto e quinto atto).

Roberto Scandiuzzi ha ben meritato, nel difficile ruolo di Arkël: sempre autorevole e mai macchiettistico come a volte viene presentato questo personaggio.

Geneviève è l’inossidabile Sonia Ganassi: una parte limitata (al solo primo atto) quasi esclusivamente declamata recto-tono, che lei ha però sostenuto con  appropriata sensibilità.

Il personaggio del piccolo Yniold è affidato ad un soprano (devo dire che personalmente gradirei di più, anche dal punto di vista attoriale, una voce bianca, pur riconoscendo che per un fanciullo la parte è davvero ostica…): qui ad impersonarlo è Silvia Frigato, che ha effettivamente un fisico da fanciullo. Il canto però mi è parso eccessivamente forzato, proprio a simulare una voce bianca, con risultati francamente non eccelsi. 

Andrea Mastroni si è ben disimpegnato, sdoppiandosi nei ruoli del pastore e del medico.

Il coro (A-T-B) ha qui una parte limitatissima verso la fine del prim’atto (mutuata dal Tristan e poi… miscroscopizzata) che la compagine di Lorenzo Fratini ha svolto con diligenza.

In complesso questo cast autarchico (e… sciovinista alla rovescia) non ha affatto demeritato e anche la pronuncia (bisognerebbe però verificare con un francofono autentico) mi è parsa sufficientemente credibile.
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La messinscena do Daniele Abbado mi è parsa invece eccessivamente fredda: della Natura, che pure è presente, e come, nel testo di Maeterlinck, qui proprio non v’è traccia. Per carità, nessuno pretende i boschi finti e lo stormire di foglie di cartavelina, ma nemmeno convince l’argomento secondo cui basta la musica di Debussy ad evocare la Natura: perché se la musica evoca fiori e prati ma ciò che si vede è un’impalcatura di tubi-Innocenti, il rischio che si corre è che pure la musica ne venga penalizzata. La scenografia di Giovanni Carluccio prevede, alla base, due grandi semi-ellissi (a volte raddoppiate) che possono apparire in combinazioni diverse: una sola, concava verso l’alto, che fa da unico ambiente in alcune scene; oppure due contrapposte e separate (contenenti all’interno strutture orizzontali in cui si muovono i personaggi); oppure ancora congiunte, a formare una specie di occhio o il bordo di un pozzo (la fontana dei ciechi). Oltre a queste abbiamo una passerella (scena 3 dell’atto I e scena 1 dell’atto IV) e poi dei ponteggi con scale, impiegati in particolare nelle prime tre scene dell’atto III. La scena finale è invece totalmente spoglia e bianca, il letto di Mélisande è un tavolaccio posto quasi in verticale (il che di sicuro aiuta l’interprete a cantare in posizione quasi eretta).

Abbado ha poi inventato (anzi… copiato da altri) qualche gratuito particolare, come ad esempio il fendente che Golaud si auto-infligge con la spada dopo aver infilzato il fratellastro: ciò si desume solo dalla parte del testo di Maeterlinck che Debussy ha soppresso (!) e la cosa avviene oltretutto in tempi successivi alla chiusura dell’atto IV, dove Golaud si dovrebbe limitare a seguire Mélisande che scappa via inorridita. Pure gratuita, anche se consente all’interprete di rifarsi viva dopo la fine del primo atto, è la presenza di Geneviève nella scena finale, a recare la neonata al capezzale della mamma. Il testo ci parla per l’ultima volta, e indirettamente, di Geneviève nell’atto IV, quando Pelléas riferisce a Mélisande della gioia della madre per la guarigione del padre. Ma cosa sia stato di lei dopo il fattaccio intercorso fra i suoi due figli non ci è dato sapere: potrebbe pure esser morta di crepacuore!

Quanto ai movimenti dei personaggi e alla recitazione, si sa che la staticità del testo offre al regista pochissimi spunti per sbizzarrire la propria fantasia: Abbado non è andato al di là di un onesto lavoro di scavo psicologico. Da questo punto di vista mi son sembrati ben centrati i personaggi di Golaud e dei due vecchi (Arkël e Geneviève). Pelléas è personaggio indecifrabile di per sé, e Abbado come tale ce lo mostra, senza prendere decisamente posizione (a mio avviso) né per un giovane debole e complessato, né per un amante fiero e deciso a tutto.

Quanto a Mélisande, mi pare che il regista ne abbia voluto enfatizzare il lato schizofrenico: alludo in particolare alla scena dove lei mente spudoratamente a Golaud (a proposito dell’anello) dove ci viene mostrata una donna in atteggiamento propriamente carognesco.

Insomma, un allestimento dignitoso, ecco. Il pubblico selezionato ha comunque mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata indistintamente a tutti i protagonisti.

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Allego per l’occasione un’interessante monografia su Debussy, a cura di François Lesure, con particolari riferimenti al Pelléas, apparsa su Musica&Dossier nel maggio 1989. 

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