allibratori all'opera

bianca o nera?
Visualizzazione post con etichetta musorgski. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta musorgski. Mostra tutti i post

04 maggio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.21

Yoel Gamzou ha fatto il suo gradito ritorno sul podio dell’Auditorium – a quasi due anni dal suo esordio, ancora in era post-Covid - per dirigere il settimanale concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di MilanoSala non certo affollatissima, ma piacevolmente vivacizzata da scolaresche di ragazzini, cosa che di per sé risolleva il morale.

Il cosmopolita Direttore, oggi 36enne, ci ha offerto un programma bipartito di musiche (del ‘900 e ‘8-‘900) ispirate da pittori e pitture.

La prima opera era la Sinfonia Mathis der Maler di Paul Hindemith, che ha risuonato qui quasi undici anni dopo l’ultima esecuzione (che fu anche la prima per laVerdi) allora di Zhang Xian, in occasione della quale avevo scritto alcune note cui rimando gli eventuali interessati.    

Il Direttore israelo-americano ha messo in risalto tutte le qualità di questa difficile partitura, valorizzandone adeguatamente i tratti ora religiosi, ora lirici, ora (ultima parte, soprattutto) anche persino infernali. Un’opera forse guardata con sospetto (di ammiccamenti alla tradizione solo per non inimicarsi i censori nazionalsocialisti) che tuttavia meriterebbe più ospitalità nelle sale da concerto. E di conseguenza più dimestichezza da parte del pubblico, che anche ieri, attaccando uno sparuto applauso dopo la prima parte, ne ha rivelato la sua scarsa conoscenza.

L’Orchestra è stata impeccabile, presa davvero per mano da Gamzou, che alla fine ha fatto il periplo del palco per felicitarsi di persona con prime parti e non solo.
___
È poi seguita l’opera di Modest Musorgski - del 1874, per pianoforte, divenuta celeberrima ed eseguitissima grazie alla straordinaria orchestrazione di Maurice Ravel del 1922 – Quadri di un’esposizione. (Anche per questa rimando il lettore ad un mio precedente intervento, basato peraltro sull’originale per pianoforte).

A differenza della Mathis, questa partitura è universalmente nota ed eseguita, e quindi è diventata uno dei cavalli di battaglia dell’Orchestra, che l’ha già suonata almeno una dozzina di volte, la prima addirittura nella stagione dell’esordio, 30 anni orsono, sotto la bacchetta del venerabile fondatore Vladimir Delman.

E il risultato è stato un trionfo epocale. Gamzou alla fine, spalleggiato da un interminabile applauso ritmato, ha impiegato almeno cinque minuti a girare da un leggìo all’altro per complimentarsi e ringraziare quasi uno ad uno i ragazzi per questa strepitosa esecuzione, che tale è stata ovviamente anche per merito suo.

11 dicembre, 2022

Scala: il Boris live.

Scala non proprio esaurita per questa prima recita vera del Boris Godunov, il che pare confermare che il gigantesco sforzo mediatico-mondano del SantAmbrogio non basta da solo a fare moltitudini di proseliti per il teatro musicale.

Liquido brevemente la parte registica, chè lo spettacolo in teatro ormai si apprezza assai meno che dalle riprese televisive, assai più ricche di dettagli e particolari di quanto non colga l’occhio che osserva da lontano e da angolazione fissa (a qualcosa, ma poco, serve un binocolo, che consente allo spettatore almeno di farsi lui i primi-piani che crede). Spettacolo godibile e frutto di sincretismo stilistico per accontentare tutti (tradizionalisti e non) che lascia il dubbio sull’efficacia del rapporto costi-benefici: appunto, fatto per illustrare il SantAmbrogio, più che il titolo in cartellone.

Il fronte musicale mi sento invece di promuoverlo (magari senza lode e bacio-in-fronte) a partire dai cori (di Malazzi e Casoni) veri protagonisti (giustamente ovazionati) della serata. Ottima l’Orchestra, capace di supportare al meglio la scena (e in questo Musorgski la cosa non è per nulla scontata, data la siderale distanza rispetto alle opere più di repertorio). Orchestra che ovviamente ha goduto dell’amorevole cura messa – come sempre, del resto – dal Direttore nell’interpretare al meglio ogni dettaglio – le dinamiche, in particolare - della difficile partitura. Ribadisco la mia personalissima perplessità soltanto riguardo l’agogica, che avrei preferito meno sostenuta: Chailly chiude a 145’ contro, ad esempio, i 130’ di Gergiev-1997 e i 126’ di Nagano-2019…  

Ildar Abdrazakov merita l’eccellenza per presenza scenica, recitazione e capacità di esternare tutta la varietà di sentimenti e angosce che contraddistinguono il personaggio: qualcuno gli imputa la voce più baritonale che da basso profondo, ma non è detto che il Boris più moderno sia ancora quello di Scialiapin! I due monologhi, in particolare, sono proprio da manuale dell’interpretazione, oltre che di espressività del canto. Strameritato quindi il suo trionfo.

Ain Anger è un Pimen che dal vivo ha quasi del tutto riscattato le perplessità che mi aveva lasciato l’ascolto tv: forse la voce sarà un filino usurata, ma in teatro fa ancora una gran figura.

Sicuro e tronfio il Varlaam di Stanislav Trofimov, autorevole interprete della sua truce ballata al confine lituano, inneggiante Ivan il Terribile.

Bella figura ha fatto anche Dmitry Golovnin, calatosi apprezzabilmente nella parte del… suo falso: certo per lui sarebbe ben altro impegno cantare il Boris-2!

Efficace anche l’altro tenore, Yaroslav Abaimov, nella parte dello Yurodivi, piccola ma estremamente significativa nell’economia del dramma.   

Alexei Markov è stato un passabile Scelkalov, mentre devo ritirare in parte il giudizio positivo su Norbert Ernst (Šujskij) che dal vivo ha mostrato evidenti limiti vocali.

Delle tre parti femminili quella più rilevante è la Xenia di Anna Denisova, che ha sfoggiato voce ben impostata e passante, e un portamento consono a quello della giovine in pena per il lutto che l’ha colpita. Han fatto il loro dovere l’ostessa Maria Barakova e la nutrice Agnieszka Rehlis (anche per loro vale il discorso fatto per Grigori-Dimitri).

Il piccolo Feodor è stato ben impersonato – en-travesti - da Lilly Jørstad.

Oneste le prestazioni degli altri quattro comprimari.

Alla fine, successo pieno e indiscusso per tutti.

07 dicembre, 2022

SantAmbrogio: il Boris in TV.

Beh, è già qualcosa aver constatato – in corpore vili – che ciò che viene presentato è effettivamente il Boris-1 del 1869 (ovviamente nell’ipotesi di dar credito a due studiosi seri come Lamm e Lloyd-Jones) e non un libero collage di pezzi del meccano-Boris, tipico passatempo di svariati direttori e registi in cerca di facile quanto caduca notorietà. (Alle mie orecchie grida tuttora vendetta la scellerata produzione del Regio di Torino del 2010, targata Noseda-Konchalovsky, tanto per dire…)  

Sulla prestazione sonora mi astengo dal dare giudizi inappellabili, date le circostanze (la ripresa non mi è parsa impeccabile, ecco). Abdrazakov ha riscosso un prevedibile trionfo, per la fama che gode anche qui in Scala e per l’oggettiva autorevolezza con la quale si è calato nel ruolo. Buona impressione, salvo verifiche dal vivo, per Norbert Ernst (Šujskij) e Stanislav Trofimov (Varlaam). Ovviamente da apprezzare i cori, se non altro perché avran dovuto sudare per via della lingua.

Chailly mi è parso un filino troppo sostenuto con i tempi, ma è questione di gusti. Orchestra apparentemente in buona salute, ma da giudicare dal vivo.  
___

Quel furbacchione di Kasper Holten si è inventato un approccio originale alla messinscena: né quello iper-tradizionalista e talebanamente rispettoso della lettera dell’opera (1598-1605); né quello di portarci all’epoca della creazione del lavoro (1869); né quello di ambientare la vicenda ai nostri giorni. Ecco: lui ce li ha messi tutti e tre in una volta (ad esempio coprendo con mantelli seicenteschi giacche e cravatte moderne…) Sperando così di accontentare un po’ tutti i gusti (o di non scontentarne alcuno). Certo: si può intuire che questa compresenza di costumi (anche di suppellettili, per la verità…) di epoche diverse stia a significare che usanze (e prepotenze!) umane non tramontano mai (della serie Putin=Stalin=Nicola=Pietro=Boris=Ivan=…)

Da vecchio responsabile dell’opera alla ROH, Holten si è anche permesso (senza pagarne i diritti?) di scopiazzare dalla produzione di Richard Jones del 2016 il vecchio Pimen che dipinge le sue storie a mo’ di affresco su una parete bianca. Ha invece fatto un doveroso omaggio all’Autore mostrando, mentre si ascolta la breve introduzione strumentale, gli ottusi critici del Marinski che strappano platealmente copie della partitura che ci viene presentata.

Per il resto regìa innocua e velleitariamente didascalica, col rischio di rendere ancor più incomprensibile l’intreccio, vedi la costante presenza del piccolo Dimitri coperto di sangue o la riproduzione per partenogenesi di personaggi nella scena finale. Nella quale riappare il simpatico Grigori-Dimitri per assistere con sprezzante sogghigno alla morte (mica naturale, ma per mano di un suo sicario!) dell’odiato zar. (Poi, se si volesse proseguire nel racconto delle vicende storiche, allora lui avrebbe poco da ridere, visto che dopo un anno verrà letteralmente fatto a fettine, poi impastate in polvere da sparo, da quelli stessi che si erano serviti di lui per combattere Boris…)   

All-in-all: una produzione che – personalmente – avrei collocato (tipo Chovanščina) a febbraio…  
___

Curiosità: Il sogno di Grigori 1872-1869

                   Gergiev – 1977                                            Nagano - 2019

04 dicembre, 2022

Oggi è in arrivo a Milano Бори́с Фёдорович Годуно́в

Questa sera i diversamente anziani terranno a battesimo il contestato Boris Godunov, fatto oggetto settimane fa dell’operazione-culturale-speciale di Kyiv, fortunatamente sventata sul nascere dagli eroici resistenti scaligeri.

Poi ci sarà la kermesse di SantAmbrogio e, dal 10, si comincerà a… fare sul serio. Quindi prepariamoci a dovere, cercando intanto di chiarirci su che cosa andremo a vedere e ascoltare.

Sì, perchè è facile dire Boris Godunov, ma è come dire formaggio-grana: ma sarà grana-padano o parmigiano-reggiano? O per caso una mescolanza dei due, ottenuta in laboratorio dalle abili mani di qualcuno che – magari in perfetta buona fede – pretende di migliorare le innate qualità dei due prodotti originali? 

La domanda non ha come scopo di stilare la classifica fra i famosi prodotti (genuini o manipolati) delle nostre premiate e ben foraggiate vacche (ciascuno ha il diritto di stilarne una sua propria…) ma semplicemente di sapere in anticipo – per approfondirne i contenuti allo scopo di goderne al meglio - quale delle leccornie ci apprestiamo ad assaporare, avendo ciascuna di esse (naturali o manipolate che siano) caratteristiche peculiari e inconfondibili.

In sostanza: in circolazione – escludendo elaborazioni più o meno cervellotiche di sedicenti addetti-ai-lavori – troviamo tre diverse versioni dell’opera: due di propria mano di Musorsgki (chiamiamole Boris-1 e Boris-2, rispettivamente datate 1869 e 1872) e una terza, ottenuta dalla rielaborazione del Boris-2, di Rimski-Korsakov (perfezionata nel 1908). Per gran parte del ‘900 è stata proprio la versione-Rimski l’unica ad essere rappresentata, in attesa che qualche solerte studioso riportasse alla luce le due versioni originali dell’Autore. (Un mio modesto contributo a chi voglia raccapezzarsi nel ginepraio delle versioni e delle loro differenti impostazioni è leggibile qui.)

Nel 2002 - precedente presenza dell’opera alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) - fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quel pericoloso putiniano che risponde al nome di Valery Gergiev, allora reduce dall’aver messo per primo sul mercato le due versioni originali (1869-1872) del formaggio-grana Boris, ricostruite a partire dalle edizioni critiche di Lamm (1929) e Lloyd-Jones (1975).

E, come allora, anche oggi è la prima versione dell’opera (Boris-1, del 1869) ad essere rappresentata, a cura della premiata coppia Chailly-Holten. A chi vuol apprezzare entrambe le versioni dirette da Gergiev senza spendere un centesimo basterà entrare in rete e mettersi comodo. E sempre in rete si trovano diverse registrazioni della versione spuria di Rimski.

Dato però che anche il Boris-1 di Gergiev presenta qualche deviazione rispetto all’originale di Musorsgki, consiglio ai puristi questa edizione svedese (diretta da Kent Nagano) che mi pare del tutto fedele alla lettera, oltre che allo spirito, dell’originale.  
___

Questa immagine, invero assai cruda, che accompagna la locandina dello spettacolo e sta facendo un certo scalpore, ritrae il piccolo Dimitri, fatto uccidere per sgozzamento da Boris – così lo storico Karamzin cui si ispirò, via Puškin, Musorgski - alla tenera età di 7 anni, allo scopo di toglier di mezzo un potenziale concorrente nella corsa al trono.

È precisamente il personaggio invisibile (ma che il regista renderà visibilissimo, a scanso di equivoci) che occupa in permanenza la mente dello zar, fino a condurlo sulla soglia della pazzia e, in definitiva, alla morte. È proprio la tormentata figura dello zar alle prese con il governo di una realtà sociale caratterizzata da disperazione e fatalismo autodistruttivo che sta al cuore di questa prima versione del Boris. (La seconda farà invece emergere, in contrasto con l’incurabile crisi dello zar, un ruolo più consapevole e determinato del popolo russo, alla confusa ricerca di riscatto e libertà.)

Ecco, staremo a vedere e sentire, prima dalla TV e poi dal vivo.

14 novembre, 2022

Il Boris alla Scala: a vuoto le sanzioni ukraine.

Allora, pare che al simpatico Console di Kyiv a Milano ancora non vengano riconosciute sufficienti prerogative che gli consentano di cambiare in corsa la stagione della Scala, decidendo lui quando – bontà sua - concederci il malsano privilegio di tornare ad ascoltare musica russa.

Caso mai fanno discutere certe motivazioni (come questa, oppure questa e anche questa del maestro Chailly) al rifiuto di assecondare le richieste del Console: si sostiene che il Boris sia un’opera che non si presta a strumentalizzazioni da parte di uno zar moderno (Putin) poiché in essa è rappresentato precisamente un popolo vessato dal potere dello zar, e che piange sul suo disgraziato destino, mentre lo zar medesimo è schiacciato dalle sue colpe e muore in preda agli incubi che gli ricordano le sue malefatte. Quindi, un’opera che caso mai dovrebbe essere proprio il Console a voler rappresentata e Putin a voler cancellare dal cartellone…

Ok, ma allora, se l’opera in programma fosse, che so, Evgeni Onegin di Ciajkovski, dove si rappresentano scene liriche (con omicidio sì, ma per ragioni sentimentali) in un mondo che vive felicemente all’ombra dello zar, che succederebbe? Si darebbe ragione al Console?

Mah… 

11 novembre, 2022

Uno Zar minaccioso si profila all’orizzonte

No, Putin purtroppo è già qui fra noi, ne avvertiamo la nefasta presenza in molti momenti della nostra vita quotidiana. No, parliamo di quel Boris Godunov che dopo soli 20 anni (Putin si era da poco affacciato sulla scena, con il biglietto da visita della carneficina di Grozny, peraltro subito perdonatagli da tutti) tornerà a tener banco alla Scala per inaugurare la stagione 22-23.

A meno che lo stupido autolesionismo del Console di Kyiv a Milano non abbia il sopravvento sull’universalità della cultura, sortendo così il brillante effetto di far aumentare dal 60 all’80% il numero degli italiani contrari all’ulteriore invio di armi a Zelensky… 

Quanto al Presidente e al Sovrintendente della Fondazione (Sala e Meyer) oggi si trovano in evidente imbarazzo a dare risposta al Console, a causa del loro stesso zelo con cui, allo scoppio della guerra, decretarono l’ostracismo agli artisti russi che non prendessero formalmente posizione contro Putin: per coerenza con quella passata decisione dovrebbero – ma proprio come minimo – chiedere la stessa cosa ad Abdrazakov, Denisova e agli altri artisti russi del cast del Boris. (Della serie: allora gli hai offerto un dito, oggi pretendono il braccio…) Non parliamo poi di come si sentirà il Presidente Mattarella ad affacciarsi in mondovisione dal Palco Reale il pomeriggio del 7 dicembre e di come fatalmente si noterà l’assenza del Console (di cui nessuno altrimenti si curerebbe).

Un’idea per salvare capra-e-cavoli potrebbe essere quella già praticata da Andrey Boreyko in Auditorium il 25 febbraio scorso: dopo Fratelli d’Italia, eseguire Šče ne vmerla Ukraïny.

Per ironia della sorte, l’ultima apparizione del Boris alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) risale al 2002 quando fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quello che oggi è bollato quale bieco propagandista dello zar Vladimir, tale Valery Gergiev.

Domani pomeriggio, nel foyer-Toscanini del teatro, si terrà una pubblica conferenza su questa prima. Moderata da Raffaele Mellace, recentemente nominato collaboratore scientifico della Fondazione, la tavola rotonda avrà come protagonisti il Direttore Riccardo Chailly, gli insigni musicologi Franco Pulcini ed Elisabetta Fava, e il russologo per eccellenza Fausto Malcovati (autore della traduzione italiana del libretto). Vedremo se la politica e le armi faranno capolino anche lì…

30 settembre, 2022

laVerdi 22-23. 1

Il primo concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano della stagione principale 22-23 vede il gradito ritorno sul podio di Stanislav Kochanovsky, che ormai da anni opera regolarmente in Italia e a Milano in particolare. Programma di impaginazione tradizionale, aperto e chiuso da due delle composizioni strumentali più celebri di Modest Musorgski che incastonano l’unico concerto solistico composto da un 38enne Jan Sibelius.

Ecco quindi Una notte sul Monte Calvo, di cui viene eseguita – credo sia la prima volta per laVerdi - la versione originale (quella non ancora inquinata – in senso buono! – da Rimski). Quindi da chiamarsi correttamente La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo. Rimando qui ad una mia breve disamina delle diverse versioni di questo brano. 

Kochanovsky ce lo propone proprio in tutta la sua barbarie (i critici di Musorgski – Rimski compreso – la scambiarono per totale insipienza nell’orchestrare) solo saltuariamente interrotta da squarci di luce notturna. E l’Orchestra ne segue il gesto sobrio ma efficace, accolta dal pubblico (piacevolmente assai folto e con incoraggiante presenza giovanile) con calore e partecipazione.
___  
Il 37enne armeno Sergey Khachatryan arriva poi per cimentarsi con il Concerto per violino di Sibelius. Nel quale lo vediamo esibirsi, sempre con Kochanovsky, poco più di tre anni fa in Olanda.

Lui sembra mettere nelle corde del suo Guarneri del Gesù del 1740 la pietas e la dignità di tutto un popolo. Ne esce un Sibelius crepuscolare ma non decadente, sofferto (l’Adagio di molto davvero da trattenere il respiro) esuberante ma non sguaiato nell’Allegro, ma non tanto conclusivo. Kochanovsky lo supporta al meglio, mitigando i tutti orchestrali e per il resto lasciando al solista il massimo del rilievo.

Strepitoso successo, con lunghi applausi ritmati, ripagato da Sergey con un bis dedicato alla sua patria, che ancora oggi attende giustizia dalla storia.
___
Ha chiuso la serata Quadri di un’esposizione, nella lussureggiante trascrizione orchestrale di Maurice Ravel, della quale rimando pure ad una mia passata e sommaria esegesi.

Una prestazione superlativa (i fiati soprattutto in grande spolvero, meritatamente fatti alzare più volte dal Direttore per gli applausi finali) che ha chiuso in bellezza questo ritorno alla normalità (speriamo non ci siano… ricadute) dopo la disgraziata parentesi del Covid. 

08 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°6


Tocca ad un giovane direttore spagnolo, Josep Vicent, alla sua prima apparizione sul podio dell’Auditorium, dirigere questo concerto che incastona un brano moderno britannico fra due brani otto-novecenteschi russi.

Si comincia con Musorgski e la sua Notte sul Monte Calvo. È sempre la notissima versione orchestrata da Rimski-Korsakov sulla base dell’Intermezzo dell’opera La Fiera di Sorochyntsi, e non sull’originale La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo. Anche se derivate dalle stesse fonti, le due composizioni hanno solo qualcosa in comune, cosa di cui ci si può render conto... ascoltandole (oltre che confrontando le due partiture): qui Rimski con Bernstein e la NYPO; e qui Musorsgki con Abbado e i Berliner.

Purtroppo (per me, almeno) anche stavolta non sono stato accontentato: sì, perchè mi piacerebbe tanto ascoltare le due versioni una appresso all’altra! E vi assicuro che non ci si annoierebbe: pazienza, continuo a sperare... 

Vicent dà veramente la carica del sabba all’orchestra, staccando tempi frenetici che mettono a dura prova la compattezza delle sezioni: ma il risultato è di tutto rispetto e il pubblico (anche qui: pochi-ma-buoni) risponde con convinti applausi.  
___
Ecco poi l’intermezzo contemporaneo, con il Concerto per trombone di Michael Nyman, opera del 1995 commissionata dalla BBC in omaggio al grande Henry Purcell (qui e in video successivi la registrazione della prima). Musica tonale (base RE) ispirata ad un’antica usanza medievale (la chiarivari) consistente nel mettere ferocemente alla berlina persone accusate di comportamenti eterodossi: circondandole per la strada e facendole oggetto di un gran frastuono (musica volgare) ottenuto con improvvisate percussioni. Ecco, il concerto evoca questa situazione di totale conflitto fra il solista (= il peccatore) e la massa orchestrale (= la folla sfottente).

Ma in omaggio a Purcell Nyman cita espressamente - in un’oasi di quiete della sua composizione - un motivo della Marcia del Funerale della Regina Mary, prima di proporre anche una manifestazione di musica volgare presa dal calcio: il ritmo di Come on you Rangers, scandito su scatoloni di latta dai tifosi dei Queens Park Rangers alle partite della Premier League!

È la prima parte dell’Orchestra, Giuliano Rizzotto, ad interpretare questo brillante e spiritato pezzo di bravura. Lui fa il suo ingresso quando il Direttore è già sul podio e suona peripateticamente le 18 battute del suo sognante recitativo, interrotto dalle intemperanze della... folla. Poi supera tutte le impervie difficoltà del brano, guadagnandosi scroscianti applausi dal suo pubblico. 

Così, insieme ai colleghi dell’Orchestra ci offre un bis che ci riporta agli anni ’60, Elizabeth Taylor e Richard Burton...
___
laVerdi si è cimentata più volte con lo Stravinski dell’Uccello di fuoco, ma credo sia la prima volta che ne presenta la terza Suite del 1945. Dal balletto del 1910 il compositore russo estrasse appunto tre diverse Suites (1911, 1919 e 1945) e poi rimaneggiò la terza ulteriormente nel 1947. A puro titolo di curiosità rimando ad un mio vecchio post che contiene una tabella di riferimenti sui contenuti di balletto e Suites (peccato che parecchi link ivi riportati siano obsoleti: colpa di Internet, ovviamente). Si deduce come la Suite del 1945 sia la più corposa delle tre, più di 30’ contro i 15’ della prima e i 22’ della seconda (il balletto complessivamente dura più di 45’). 

Non è detto però che questa maggior corposità si traduca in efficacia: poichè diverse parti si apprezzano assai in un’esecuzione coreografica, assai meno come musica pura, di cui si fatica a cogliere un fondo di narrativa.

In ogni caso i ragazzi sono stati eccellenti, in ogni reparto, e alla fine a tutti sono andati meritatissimi consensi, consensi estesi al Direttore, che ha diretto il brano à-la-Gergiev, cioè senza bacchetta e mediante sfarfallio della mano destra... Chissà se sia un buon segno!

28 febbraio, 2019

La Chovanščina è tornata alla Scala


Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima delle 7 rappresentazioni di Chovanščina, una nuova produzione affidata a Mario Martone e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich: Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro dei raskolniki, ripreso in orchestra e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di musica.

Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno, un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.

Ma encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera. Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità, nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici buh uditi alla fine.

Il cast delle voci merita un encomio cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.

Splendido Alexey Markov come Šaklovityj: e non solo per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui e contraddittori. 

Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.

Evgeny Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij Golicyn, personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.

Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile (con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso e disperato al momento del redde-rationem.

Lo scrivano è impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella scena con Šaklovityj e nella ricomparsa al terz’atto.

Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.  
   
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.

Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte: memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.

I due soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia Muraveva che la Susanna di Irina Vashchenko hanno messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.

Il coro di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio di sè, a dispetto del... russo!

Detto ciò, mi sembra quasi superfluo aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
___
Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo, un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti, suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati di strumenti elettronici, o gli smartphone impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è anche una specie di drone che attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate, dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta 24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj; le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo parlerò più avanti).

Martone inventa encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro, per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per... abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro (che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma questo è un problema di Musorgski).

Nell’atto iniziale citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.

Come detto, il secondo e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.

A questo punto arriva (secondo me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?  

Ma il peggio arriva adesso, con la danza delle persiane: un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)

Ecco, una regìa apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine, mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!, per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...  

22 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (4)


Dopo aver fatto la conoscenza con l’integrale dell’opera nella versione-Shostakovich, e prima di dare una scorsa a quella tradizionale di Rimski, prendiamo in considerazione le esecuzioni di due direttori che, come si dice in gergo, hanno lasciato il segno nella storia interpretativa dell’opera così come strumentata e completata dal grande Dimitri. Cercherò di essere il più asettico possibile, limitando al minimo personali giudizi sulle diverse (in alcuni casi diversissime) scelte dei due direttori. Ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che può facilitare l’ascolto, specie in presenza di tagli al testo.

Cominciamo - se non altro perchè sarà lui sul podio del Piermarini dal 27/2 - da Valery Gergiev che è da anni (almeno dal 1991, anno di uscita della sua prima incisione) un campione di questa versione, da lui già diretta alla Scala quasi 21 anni orsono.

É possibile oggi seguire in rete (con video) una sua (relativamente) recente produzione (2012) al teatro Marinski di SanPietroburgo. A parte le immancabili piccole divergenze di carattere interpretativo, questa esecuzione di Gergiev si differenzia dalla versione adottata in alcuni particolari. Il primo è di scarsa importanza: verso la fine del primo atto, allorquando Ivan Chovanskij comanda agli Strelcy di rientrare al Kremlino (si è udita una fanfara di trombe) Gergiev inserisce (da 48’30” a 48’54” della registrazione) subito prima dell’ultima invocazione di Dosifej, 12 battute di soli strombazzamenti (inesistenti in Lamm e Shostakovich) prese di peso dalla partitura di Rimski. Non è escluso che questa scelta sia stata suggerita da esigenze puramente registiche (accompagnare il corteo degli Strelcy che esce di scena); l‘inserimento è presente anche nell’edizione CD del 1991.

Altra deviazione da Shostakovich è il finale dell’Atto II: Gergiev ignora la trionfalistica fanfara di zar Pietro e si limita ad un colpo di tam-tam, facendo poi tenere (1h32’20”) agli archi il RE (su cui Šaklovityj aveva chiuso il suo intervento) in dissolvenza. Una scelta abbastanza vicina alle intenzioni dell’Autore, e anche - come vedremo - a quella di Abbado.

Gergiev poi taglia (in questa occasione, ma non nella registrazione del 1991) la filastrocca di Kuzka, accompagnata da Strelcy e mogli, dell’atto terzo: a 2h01’44” salta direttamente all’arrivo dello scrivano (questo è uno dei tanti tagli di Rimski).   

E infine ecco la differenza, questa sostanziale, che riguarda il finale dell’opera. Come si può constatare, Gergiev segue fedelmente Shostakovich (in realtà... Rimski, come abbiamo visto in una precedente puntata, esaminando i diversi finali) fino alla perorazione del coro dei raskolniki, seguita dalle invocazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (3h15’18”). A questo punto però, invece della sequenza prevista da Shostakovich (marcia delle truppe di Pietro + motivo della foresta + coro dei moscoviti + alba sulla Moscova) il Direttore russo fa semplicemente ripetere alla sola orchestra il tema del coro, chiudendo (3h15’54”) con un lungo accordo tenuto di LAb minore. Una soluzione quindi che sconfessa Shostakovich, mentre si avvicina un pochino a quella di Stravinski, che osserveremo in dettaglio ascoltando l’esecuzione di Abbado: insieme a quest’ultima, è la soluzione per il finale che forse meglio interpreta ciò che l’Autore aveva affermato di voler realizzare. 
___
E a proposito di Abbado, ha fatto storia la sua interpretazione del 1989 a Vienna, di cui esistono in rete almeno due riprese dal vivo in date diverse, con cast leggermente ma significativamente diversi. La prima è stata trasmessa in video; la seconda è incisa su CD. La base è sostanzialmente costituita dalla versione-Shostakovich, ma con alcuni tagli e soprattutto con il finale mutuato da quello composto nel lontano 1913 da Igor Stravinski (per Diaghilev). Le considerazioni (e i riferimenti temporali) che seguono si riferiscono alla versione CD.

Una prima constatazione riguarda la durata netta dell’intera opera: 2h50’. Rispetto a quella dell’edizione integrale (3h18’ sia per Tchakarov-1986 che per Gergiev-1991) ci sono ben 28 minuti di differenza! Il che ovviamente porta subito a concludere che Abbado abbia tagliato parecchio!

Una delle ragioni, diciamo così, programmatiche, dei tagli è stata esposta dallo stesso Abbado, che li ha giustificati (ma non tutti...) con il desiderio di rispettare la presunta volontà di Musorgski, deducibile dalle cancellature rinvenute sui suoi manoscritti e dalle parti di testo mancanti nel quaderno blu; tutto materiale che Lamm (e Shostakovich con lui) hanno invece tenuto in vita. Si tenga presente che la quasi totalità dei tagli di Abbado è mutuata da Rimski. Vediamo però più in dettaglio.

Primo atto. A 11’46” vengono omessi alcuni versi cantati da Šaklovityj, effettivamente pleonastici: una parte cancellata (da mano ignota) anche sul manoscritto.

A 13’54” c’è un piccolo taglio nel dialogo fra Šaklovityj e scrivano, anche questo di versi pleonastici, cancellati anche sul manoscritto. 

A 20’27” troviamo un taglio più sostanzioso, che elimina una parte del battibecco fra i moscoviti e lo scrivano; effettivamente è anche questo un passaggio pleonastico, che fra l’altro lo stesso Musorgski non riportò nel quaderno blu.

A 35’08” ecco un piccolo ma significativo taglio, nel corso del terzetto Emma-Marfa-Andrej: taglio che elimina una velata minaccia di Marfa ad Andrej, che ha un momento di paura. Tuttavia si tratta di una delle cancellature apportate sul manoscritto verosimilmente dallo stesso Autore.

Il secondo atto è quello che Abbado ha sfrondato di più (almeno un quarto d’ora di musica).

La prima grossa sforbiciata (49’50”, mutuata da Rimski) inizia con la lettura da parte di Golicyn della lettera della madre (Abbado salva pochi versi conclusivi). Il taglio ci priva del primo apparire del tema trionfante della casata di Golicyn, tema che ci viene negato anche subito dopo, a causa della cassazione totale dell’incontro tra Golicyn e il Pastore luterano (il che purtroppo ci impedisce anche di farci un’idea più precisa della personalità del principe). Abbado ha qui la scusante della mancanza di questa scena nel famoso quaderno blu, ma francamente mi pare che questo taglio presenti più contro che pro. Si passa quindi direttamente al momento in cui Varsonofev annuncia l’arrivo di Marfa.

A 1h00’21” abbiamo un piccolo taglio (mutuato sempre da Rimski) durante il battibecco fra Golicyn e Chovanskij, che ci fa sfuggire uno dei motivi di rancore del capo degli Strelcy verso il consigliere della zarevna: accusato di aver manipolato le decisioni della Duma!

Altro taglio, più o meno significativo, a 1h03’22”: Dosifej, appena arrivato, rivela di essere stato principe, prima di convertirsi all’apostolato come guida spirituale dei Vecchi Credenti. È un taglio di Rimski, e per pochi versi finali è anche una mancanza nel quaderno blu.

Ci sono infine due tagli (sempre da Rimski) che riguardano aspetti non proprio trascurabili della personalità e della storia di Chovanskij: il primo si trova a 1h04’36”: laddove Chovanskij si propone in sostanza come nuovo capo del governo, impiegando i suoi Strelcy per arrivare al potere su Mosca e sulla Russia. Il secondo (minuscolo e quasi impercettibile) si incontra a 1h07’14”: è Chovanskij che ricorda a Dosifej di averlo già in passato aiutato con idee, uomini e mezzi.

Si è già detto, trattando dei finali d’atto incompleti, come Abbado abbia di sua iniziativa ignorato la versione di Shostakovich, anticipando qui (1h11’20”) cinque battute della fine del terz’atto.

Nel quale atto terzo notiamo come Abbado abbia impiegato, per la canzone di Marfa (1h15’15”) la versione originariamente orchestrata da Musorgski (accompagnamento di archi, mentre Shostakovich aveva fatto di testa sua, accompagnando con i fiati). Poi troviamo a 1h20’45” il primo dei due tagli personali (cioè non mutuati da Rimski) di Abbado: è una piccola parte dello scontro fra Marfa e Susanna, e contiene un frase appena-appena osé: non può certo essere questa la ragione del taglio... bisognerebbe chiederlo ad Abbado!         

Per il resto, solo un altro piccolo taglio (1h24’27”, giustificato dall’assenza dei versi nel quaderno blu) di parte dello scambio di battute fra Dosifej e Susanna. Effettivamente non si tratta di cosa grave.

Nel quarto atto c’è solo da segnalare la Danza delle persiane, dove Abbado sembra fare un mix fra l’orchestrazione di Rimski (vedi impiego delle arpe) e quella di Shostakovich (esempio: la cadenza finale con scoppiettanti interventi delle percussioni).

Nel quinto atto troviamo il secondo e ultimo (e minuscolo) taglio personale di Abbado (2h36’04”): sono i primi versi dell’esternazione di Marfa, che manifesta il suo dolore per l’abbandono di cui Andrej l’ha fatta oggetto.

Ed eccoci ora arrivati al cuore della scelta drammaturgica di Abbado: il finale dell’opera. Si è già sommariamente descritto l’approccio del Direttore, consistente nell’adozione della versione 1913 di Stravinski. Seguiamo ora la musica in dettaglio, a partire dal momento (2h45’04”) in cui Marfa accende il rogo, sull’accordo di MIb maggiore che ha chiuso l’invocazione di Dosifej e fedeli dopo quella strabiliante discesa cromatica: questo è chiaramente riconoscibile come il punto dal quale la soluzione Abbado(-Stravinski) che fin lì aveva seguito sostanzialmente quella di Shostakovich(-Rimski) se ne distacca nettamente.    

E se ne distacca anche dal punto di vista della complessità dell’impianto, che sarebbe stata del tutto impensabile da parte di Musorgski, e ancor meno da parte di Rimski; lo stesso Shostakovich (arrivato 45 anni dopo Stravinski) si è ben guardato dall’introdurre nel suo finale (come nel resto dell’opera) soluzioni tanto brillanti quanto lontane dallo scenario in cui l’opera prese vita. Dopodichè non sorprende che un musicista orientato al ‘900 come Abbado si sia letteralmente innamorato di quel finale! Che - lo ammise lui stesso - è puro Stravinski, quindi nulla a che vedere con Musorgski, del quale impiega peraltro genialmente le note... (Curiosità: Stravinski enarmonicamente adotta notazioni con i diesis al posto di quelle con i bemolle usate sempre da Musorgski.)

Il coro inizia a cappella (come previsto da Musorgski) con la frase musicale dell’Autore, ma subito (2h45’22”) Stravinski introduce una nuova frase composta intrecciando il motivo scelto da Musorgski con l’altro (parte anch’esso del corale popolare fornito dalla Karmalina) che l’Autore aveva ignorato. Il tema completo di Musorgski viene esposto con accompagnamento orchestrale a 2h45’48”, e alla conclusione (2h46’15”) ecco il tema della foresta (inizio atto V) che finora era rimasto in sottofondo, uscire allo scoperto in funzione di interludio, seguito (2h46’30”) da una sequenza discendente del coro, di pura mano di Stravinski.

A 2h46’51” è Dosifej da solo a cantare il primo verso; gli rispondono (2h47’09”) Andrej e i raskolniki (RE# minore, come dire... MIb) e in sottofondo, nei bassi, si ode distintamente il tema cantato dai Monaci alla fine del secondo e poi all’inizio del terzo atto (un bell’esempio di politonalità, non c’è che dire). La cosa si ripete: 2h47’28” Dosifej e 2h47’42” Andrej e fedeli (SOL#=LAb). Un ultimo intervento del coro e dei solisti (2h47’56”) porta alla chiusa (2h48’23”) in dissolvenza, sostenuta da un insistente pedale acuto di RE# e LA#, accompagnato da cupi rintocchi di campana.
___
***
___
Da ultimo ascoltiamo l’opera come apparve per la prima volta in scena nel 1886 e come è stata ovunque rappresentata fino alla metà (come minimo) del secolo scorso: la versione di Rimski, che per più di mezzo secolo è stata l’unica disponibile sul mercato. Sappiamo che Rimski, oltre a creare l’orchestrazione (del tutto o quasi assente nei manoscritti di Musorgski) aveva anche apportato pesanti modifiche all’originale, consistenti in ampi tagli e in interventi sia su melodia che su armonia. Seguiamone quindi sommariamente i contenuti ascoltando questa edizione storica del Bolshoj del 1946.

Preludio: nella chiusa (3’28”) la tonalità, dal precedente FA#, anzichè a LAb è trasposta alla sottodominante REb.

Primo atto: nella prima scena (Kuzka e due Strelcy) a 6’50” troviamo un piccolo taglio (Kuzka manda al diavolo i commilitoni). Poi, a 8’09” sono omesse poche battute di dialogo all’arrivo di Šaklovityj presso lo scrivano. A 10’56” è omessa la prima parte della dettatura di Šaklovityj (cancellata sul manoscritto di Musorgski). Piccolissimo taglio a 13’03”, parte pure cancellata sul manoscritto. Idem a 13’32”.

A 15’12” ecco il proditorio (davvero) taglio di tutta la lunga scena che coinvolge scrivano e moscoviti. Soltanto una piccola parte di essa si giustificherebbe con l’assenza dal quaderno blu. Veniamo così privati di una fondamentale componente dello scenario dell’opera, quella che descrive la condizione di vita del popolo russo. Inoltre, la scena che segue - il tripudio popolare in attesa di Ivan Chovanskij - è stata da Rimski pesantemente modificata nella linea musicale e pure nel testo. Poco dopo (coro di lode, 19’45”) ecco altri interventi di Rimski, che aggiunge delle ripetizioni (il numero di battute raddoppia!) e alcuni incisi musicali di sua invenzione.

All’arrivo di Emma, piccolo taglio (22’29”) di un botta-e-risposta fra la ragazza e Andrej. Subito dopo (23’26”) un taglio che ci priva dell’offerta di Andrej di fare di Emma la zarina! Ancora tagli piccolissimi nel seguito (23’44”, minaccia di Andrej di usare la forza). E poi (24’45”) tagliata una parte dell’intervento di Marfa a proteggere Emma. E poi altro taglio (25’08”, è una cancellatura nel manoscritto) dove Marfa chiede ad Andrej se ha dimenticato il giuramento fatto in passato e lancia una velata minaccia di denunciarlo: qui viene a mancare la prima comparsa del tema dell’amore perduto di Marfa. Modifiche anche alle tonalità del canto di Marfa e Andrej. Ultimo piccolissimo taglio a 27’51”, allorquando Andrej sfida gli Strelcy. 

Dopo l’arrivo di Dosifej e il suo accorato appello, a 34’01” Rimski aggiunge all’originale alcune battute, reiterando la fanfara degli Strelcy per accompagnarne il corteo che si muove verso il Kremlino. Un’ultima, microscopica ma significativa modifica all’originale: a 36’43” Dosifej chiude il suo invito ai fedeli - a rinunciare a questo mondo - con una terza minore discendente (RE-SI) al posto della terza maggiore (RE#-SI) dell’originale. 

Secondo atto: dopo che Golicyn ha letto la focosa quanto erotica missiva della zarevna, ecco il primo gigantesco taglio (42’33”): se ne vanno la lettura della lettera della madre e l’intera scena dell’incontro con il Pastore protestante (questa manca per la verità nel quaderno blu). Si arriva quindi direttamente alla scena con Marfa. La cui aria (quella della profezia, 44’33”) ha un’introduzione di Rimski, diversa dall’originale, oltre ad essere innalzata di un semitono (da DO a DO#) e ancora presentare tonalità diverse nel seguito (MI e SOL minore, anzichè LAb) e modifiche nell’accompagnamento. 

Dopo l’esternazione di Golicyn si arriva ad un paio di tagli abbastanza corposi, durante il battibecco fra il padrone di casa e il sopravvenuto Ivan Chovanskij. Il primo a 53’14”, quando Golicyn ricorda all’ospite come fu la Duma a varare le leggi che Chovanskij reputa lesive dei suoi diritti e privilegi. Il secondo (53’46”) quando Golicyn ricorda al suo ospite fatti che lo mettono in cattiva luce. 

Arriva Dosifej e qui c’è il lungo taglio (55’48”, solo in piccola parte giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) che riguarda il passato del santone. Poi (57’20”) altro taglio, dell’offerta di Chovanskij di fare un colpo di stato e salire al potere. Poco dopo, tagliato (58’03”) un breve battibecco fra Dosifej e Golicyn, accusato di comportamenti reprensibili. Tagliato anche (58’49”) il successivo battibecco fra Dosifej e Chovanskij, per cui si passa direttamente al canto dei Monaci Neri.

Arriva Marfa e una parte del suo racconto (1h01’37”) dell’aggressione subita è soppressa. Ecco poi Šaklovityj e il finale, che Rimski inventa (1h02’56”) riprendendo - in RE maggiore, dal preludio - il motivo dell’alba sulla Moscova.

Terzo atto: Rimski ristruttura il coro dei Monaci Neri (1h03’56”) apportando modifiche sia al testo che alla linea delle voci. Per la canzone di Marfa Rimski impiega la strumentazione di Musorgski, come si deduce dall’attacco degli archi (1h06’41”). Poi qualche modifica ai tempi.

Per lo scontro Marfa-Susanna (1h10’11”) Rimski adotta la versione accorciata (come nell’edizione di Lamm) ma introduce modifiche all’armonizzazione e alle tonalità (Marfa, 1h12’43”). Dopo l’arrivo di Dosifej ecco il taglio (1h15’54”, giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) dello scambio di battute fra il santone e Susanna. Piccolo taglio (1h18’04”) alla risposta di Marfa a Dosifej, dove la donna prevede sventure. Nell’aria di Šaklovityj troviamo due piccoli e ravvicinati tagli (1h25’01” e 1h25’25”) quando il boiaro ricorda le vicissitudini politiche della Russia.

Dopo l’ingresso in scena degli Strelcy e quindi delle rispettive mogli, ecco un altro macroscopico taglio (1h30’45”): l’intera scena della canzone di Kucka, accompagnata da Strelcy e mogli. Si passa direttamente all’arrivo dello scrivano. Piccolo taglio (1h31’33”) alle minacce degli Strelcy al povero malcapitato. Microscopico taglio (1h33’16”) ad un’esternazione delle mogli. Poi, nella scena finale con Kuzka, Strelcy e Ivan troviamo più che altro delle trasposizioni di tonalità.

Quarto atto, primo quadro: i due cori delle contadinelle appaiono variati nell’armonizzazione e nell’accompagnamento. Rimski identifica poi (1h43’26”) l’emissario di Golicyn (che per Musorgski è un tenore) con il suo assistente Varsonofev (che è però un basso) per cui ne deve abbassare la tessitura originale, oltre che alterarne l’accompagnamento.

La Danza persiana (1h45’07”) presenta due piccoli tagli (10 battute in tutto) e piccole differenze di armonizzazione. La canzone finale (1h54’14”) presenta pure differenze più o meno marcate di armonizzazione.

Quarto atto, secondo quadro: pochi gli interventi di Rimski sull’originale (accompagnamento, armonizzazioni). Durante l’appello di Dosifej, subito dopo un inciso di Marfa (2h01’18”) la frase di Dosifej alla donna è abbassata dal DO al SIb maggiore.

Per il resto sono da rilevare soltanto tre piccoli interventi. Dapprima un piccolo taglio sull’ultima esternazione di Marfa (2h08’50”) che cerca di tranquillizzare Andrej. Poi (2h09’41”) un’aggiunta (una battuta!) al coro delle mogli degli Strelcy. Infine (2h10’10”) un altro minuscolo taglio al coro degli Strelcy.

Quinto atto: l’introduzione strumentale viene accorciata della metà. Il primo intervento piuttosto corposo di Rimski riguarda l’esternazione iniziale di Dosifej: alla quale viene aggiunto di bel nuovo (2h18’25”) un altro appello ai fedeli di argomento, potremmo dire, politico. La musica impiegata qui a sostenere il testo di Rimski è la medesima che nel primo atto aveva accompagnato il richiamo dello stesso Dosifej.

Poi troviamo trasposizioni di tonalità nei cori dei fedeli, e una ristrutturazione dell’ultima parte del coro, con un taglio di implorazioni a 2h26’18”, che porta direttamente all’entrata di Marfa. A proposito della quale poco dopo (2h33’34”) troviamo l’aria che non figura nell’edizione di Lamm, ma che si è già visto come sia da considerare del tutto autentica.

Infine (2h37’01”) ecco le battute scritte da Rimski per evocare le lingue di fuoco, che introducono il coro finale in LAb minore, chiuso (2h38’16”) sulle esternazioni (aggiunte da Rimski) di Marfa, Andrej e Dosifej, prima del sopraggiungere delle truppe dello zar Pietro e della trionfalistica chiusura in modo maggiore.
___
(4. fine.)