Beh, è già
qualcosa aver constatato – in corpore vili – che ciò che viene
presentato è effettivamente il Boris-1 del 1869
(ovviamente nell’ipotesi di dar credito a due studiosi seri come Lamm e Lloyd-Jones)
e non un libero collage di pezzi del meccano-Boris, tipico
passatempo di svariati direttori e registi in cerca di facile quanto caduca
notorietà. (Alle mie orecchie grida tuttora vendetta la scellerata
produzione del Regio di Torino del 2010,
targata Noseda-Konchalovsky, tanto per dire…)
Sulla prestazione sonora mi astengo dal dare giudizi inappellabili, date le circostanze (la ripresa non mi è parsa impeccabile, ecco). Abdrazakov ha riscosso un prevedibile trionfo, per la fama che gode anche qui in Scala e per l’oggettiva autorevolezza con la quale si è calato nel ruolo. Buona impressione, salvo verifiche dal vivo, per Norbert Ernst (Šujskij) e Stanislav Trofimov (Varlaam). Ovviamente da apprezzare i cori, se non altro perché avran dovuto sudare per via della lingua.
Quel
furbacchione di Kasper Holten si è inventato un approccio originale alla
messinscena: né quello iper-tradizionalista e talebanamente rispettoso della lettera
dell’opera (1598-1605); né quello di portarci all’epoca della creazione del
lavoro (1869); né quello di ambientare la vicenda ai nostri giorni. Ecco: lui
ce li ha messi tutti e tre in una volta (ad esempio coprendo con mantelli
seicenteschi giacche e cravatte moderne…) Sperando così di accontentare un po’
tutti i gusti (o di non scontentarne alcuno). Certo: si può intuire che questa
compresenza di costumi (anche di suppellettili, per la verità…) di epoche
diverse stia a significare che usanze (e prepotenze!) umane non tramontano mai
(della serie Putin=Stalin=Nicola=Pietro=Boris=Ivan=…)
Da vecchio responsabile dell’opera alla ROH, Holten si è anche permesso (senza pagarne i diritti?) di scopiazzare dalla produzione di Richard Jones del 2016 il vecchio Pimen che dipinge le sue storie a mo’ di affresco su una parete bianca. Ha invece fatto un doveroso omaggio all’Autore mostrando, mentre si ascolta la breve introduzione strumentale, gli ottusi critici del Marinski che strappano platealmente copie della partitura che ci viene presentata.
Per il resto regìa innocua e velleitariamente didascalica, col rischio di rendere ancor più incomprensibile l’intreccio, vedi la costante presenza del piccolo Dimitri coperto di sangue o la riproduzione per partenogenesi di personaggi nella scena finale. Nella quale riappare il simpatico Grigori-Dimitri per assistere con sprezzante sogghigno alla morte (mica naturale, ma per mano di un suo sicario!) dell’odiato zar. (Poi, se si volesse proseguire nel racconto delle vicende storiche, allora lui avrebbe poco da ridere, visto che dopo un anno verrà letteralmente fatto a fettine, poi impastate in polvere da sparo, da quelli stessi che si erano serviti di lui per combattere Boris…)
Curiosità: Il
sogno di Grigori 1872-1869
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