XIV

da prevosto a leone
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05 maggio, 2022

Un nuovo (e pregevole) Ballo alla Scala

Dopo quasi 9 anni (era il luglio 2013) ritorna alla Scala Un ballo in maschera, in una nuova produzione, affidata per l’allestimento a Marco Arturo Marelli (con Marco Filibeck alle luci) e - dopo la forzata defezione di Chailly - a Nicola Luisotti (prime 5 recite) e Giampaolo Bisanti (le ultime 2) per la parte musicale.

Dico quindi subito di Luisotti, al quale ovviamente vanno concesse a-priori ampie attenuanti legate alla chiamata ricevuta a poca distanza dalla prima: perciò mi sento di riconoscergli il merito di aver concertato più che bene uno spettacolo che era evidentemente stato pensato e impostato dal Direttore musicale, poi costretto al forfait.   

Unica superstite del 2013 è Sondra Radvanovsky, che ricordo avesse avuto allora un’accoglienza più che buona (cosa da me condivisa): la sua voce sembra addirittura sovradimensionata rispetto alle esigenze imposte dal personaggio, ma timbro, qualità di emissione, espressione e portamento ne hanno fatto un’Amelia super, giustamente accolta da clamorose ovazioni a scena aperta e alle uscite finali.

La premiata coppia Francesco Meli - Luca Salsi ormai è chiamata dalla Scala (leggi Chailly...) per tutti i ruoli importanti (verdiani in particolare): di Meli come Riccardo mi era rimasto un ottimo ricordo da una produzione veneziana del 2017, e anche ieri non ha tradito a sua fama, pur senza entusiasmare, ecco. Salsi poi pare crescere (se possibile) ad ogni uscita e così, con la Sondra, è stato lungamente ovazionato sia dopo le arie che al termine.   

Yulia Matochkina impersona la millantata maga Ulrica: voce ben impostata e adeguata presenza scenica. Complessivamente una prestazione più che discreta la sua, accolta con apprezzamenti: forse un filino di cattiveria in più le avrebbe giovato...

Il personaggio di Oscar è affidato qui a Federica Guida: che mette la sua voce chiara e squillante al servizio di questa variante di Cherubino: anche per lei solo approvazioni.  

I due maschietti-mafiosetti sono Sorin Coliban (Samuel) e Jongmin Park (Tom), che hanno svolto con profitto il loro compito, così come il miracolato Silvano di Liviu Holender.

I due personaggi accessori (non me ne vogliano per l’attributo, ma diamo atto che anche gli accessori servono, e come...) sono Costantino Finucci (un giudice) e Paride Cataldo (un servo d’Amelia).

Alberto Malazzi ha guidato il rinomato Coro scaligero in modo praticamente perfetto.
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Che dire della regìa? Peste-e-corna che avevo riservato a Michieletto 9 anni orsono?

Al contrario, Marelli ci ha proposto un Ballo assolutamente fedele al libretto e alla partitura. Il regista-scenografo elvetico non ha cercato improbabili ri-ambientazioni nè rincorso chimeriche de-strutturazioni e ri-strutturazioni del soggetto originale.

Fa eseguire il Preludio a sipario alzato, e una volta tanto ciò non solo non disturba, ma aiuta ad evocare la complessa (e complessata) personalità di Riccardo: che vediamo trastullarsi con un modellino di una sala delle feste popolato da statuine in maschera. Chiara (almeno per me) indicazione della premura e dell’amore che il Conte ha per il popolo che è chiamato a governare e a rendere felice. E dei sogni che popolano la sua immaginazione, uno dei quali è impersonato da una statuina che lui prende e porta amorevolmente al petto, proprio mentre l’orchestra intona il motivo La rivedrà nell’estasi... Il modellino tornerà poi alla fine, per sottolineare anche la fine dei sogni.

Conte che ci viene mostrato poi con pennellate di regalità (la posa con mantello ed ermellino per il ritratto) poichè sappiamo che la storia risale a Gustavo III; per il resto in abbigliamento da popolano, che appunto ama mescolarsi alla sua gente.

Le scene sono assai spartane ed essenziali: quinte mobili chiudono gli ambienti e poi li aprono alla bisogna; pochissime suppellettili, per concentrare l’attenzione dello spettatore sul dramma. Una grande roccia nella scena presso Ulrica, rappresentante (ma questo lo spiega il regista sul programma di sala) il Destino che incombe sul protagonista e sul suo popolo. Altre rocce, con corvacci imbalsamati (...) nel campo abbominato, che per il resto si presenta come luogo spettrale e deserto (e non come ritrovo di battone, chi ha orecchio per intendere...) Un letto e null’altro nella casa di Renato all’inizio del terz’atto; spazio vuoto che si riempirà di popolo festante per il ballo.

Le luci di Filibeck ben supportano le diverse atmosfere che si susseguono nell’opera; i costumi sono più o meno plausibilmente dell’epoca in cui la vicenda è ambientata.

Efficace poi la gestione dei personaggi e delle masse: che mette adeguatamente in risalto le diverse personalità dei protagonisti e le attitudini del popolo nelle sue diverse manifestazioni.

Insomma, un allestimento caratterizzato da alta professionalità e onestà intellettuale, che il pubblico ha accolto con grande calore e lunghi minuti di applausi per tutti.

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente).