XIV

da prevosto a leone
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19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

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Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

11 febbraio, 2019

Alla Scala una Cenerentola sempre giovane


Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili come storiche (domanda: nel 2060 si riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola della premiata coppia Abbado-Ponnelle, ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi affidata alle esperte mani di Grischa Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD (con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli: qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana (Alidoro) in favore del Rossini autentico.

Nel progettare la loro Cenerentola, il librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro: sfrondare il racconto di Perrault da ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca (aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere, di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine, zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità, negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.

E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno avanspettacolo: le gag sono limitate allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto. E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?

Intanto si apprende dal curatissimo libretto della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel 2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)

Marianne Crebassa per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime, che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità hanno accolto tutti i principali numeri dell’opera.  

Don Ramiro è una parte non propriamente impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più che discreto, si meriterebbe un più che buono...   

Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010... direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.

Carlos Chausson è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli femminini, ha poi ben cantato  l’aria del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di scioglilingua con Alaimo.

Erwin Schrott (anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce appropriatamente quell’arcano aplombe soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.  

Le due sbifide sorellastre vengono dalla scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo agli ensemble, in particolare al sestetto del second’atto.

Il coro è impegnato solo al maschile, e per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e basta così.

Ottavio Dantone, di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione, in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.