Proseguendo la serie dei revival di produzioni ormai catalogabili
come storiche (domanda: nel 2060 si
riprenderà ancora la Traviata di Cherniakov?) la Scala ha ospitato ieri la prima della Cenerentola
della premiata coppia Abbado-Ponnelle,
ripresa a 46 anni di distanza dalla sua originaria comparsa nel 1973. Produzione
già riproposta da allora in diverse stagioni (74, 75, 82, 01, 05) e oggi
affidata alle esperte mani di Grischa
Asagaroff, ben coadiuvata da Marco Filibeck alle luci. Immortalata anche in DVD
(con altri interpreti rispetto al ’73, e con riprese fatte in studio e in
play-back) nel 1981. E proprio a Claudio Abbado, a 5 anni dalla scomparsa, è
dedicata questa ripresa. Che mantiene, più o meno, anche i (consueti) tagli:
qualche recitativo secco e i due contributi di Luca Agolini (coro di apertura atto secondo e aria di sorbetto di
Clorinda). Cassata anche l’altra componente agoliniana
(Alidoro) in favore del Rossini autentico.
Nel progettare la loro Cenerentola, il
librettista Ferretti e Rossini si erano posti un obiettivo assai chiaro:
sfrondare il racconto di Perrault da
ogni e qualsivoglia componente favolistica, magica, miracolistica, bambinesca
(aspetti che si reputavano sgraditi se non addirittura offensivi per l’evoluto
pubblico romano di allora) per mettere più che altro in risalto - pur in un
contesto giocoso - gli aspetti drammatici, sociologici ed etici del
racconto, primo fra tutti quello che oggi chiameremmo come pari-opportunità. (Lo stesso Barbiere,
di un anno precedente, dietro la maschera del buffo poneva problemi mica da
poco, quali l’avvento della borghesia alla guida della società.) Quindi niente comari-fatine,
zucche-carrozze e topi-cavalli che appaiono dal nulla, ma solo un po’ di alone
arcano col quale rivestire un illuminato filosofo (Alidoro, precettore del
principe Don Ramiro, una specie di Marco Pannella ante-litteram) che procura
alla povera Angelina i mezzi per godere, appunto, delle pari-opportunità,
negatele dal retrivo padre e dalle sorellastre viziate.
E Ponnelle(-Asagaroff) interpreta alla
perfezione l’approccio degli Autori, facendone passare il messaggio col mettere
in ridicolo gli aspetti più retrivi della società. Niente miracoli, ma nemmeno
avanspettacolo: le gag sono limitate
allo stretto necessario e tutto viene mantenuto entro i confini del buon gusto.
E per questo l’allestimento resiste alla grande anche in tempi di regie fatte
solo per far parlare del regista, ma di fatto prodotti usa-e-getta.
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Che dire poi della prestazione musicale?
Intanto si apprende dal curatissimo libretto
della Scala che Angelina-Cenerentola è diventata improvvisamente
soprano, come pure la Tisbe, e che Alidoro ha innalzato la sua tessitura a
quella di tenore... evabbe’, è il progresso, bellezza! (Il testo pubblicato nel
2005 riportava correttamente le tessiture dei ruoli... o forse è Alberto Zedda
che ha inviato dall’aldilà un aggiornamento alla sua edizione critica, chissà.)
Marianne
Crebassa
per fortuna canta da mezzosoprano qual è e quale l’ha voluta Rossini. La sua è
stata una prestazione non strepitosa, tuttavia il personaggio è uscito
discretamente bene: un po’ legata all’inizio, è poi cresciuta nel corso della
recita, arrivando ben rodata in tempo per la sua finale aria strappalacrime,
che ha anche strappato... applausi a scena aperta, applausi che per la verità
hanno accolto tutti i principali numeri
dell’opera.
Don Ramiro è una parte non propriamente
impossibile (peraltro nell’aria del second’atto presenta diversi DO
sovracuti...) e lo smilzo Maxim Mironov
l’ha padroneggiata assai bene (a proposito di acuti, ha esagerato anche con un
RE): peccato che la sua voce non abbia sufficiente potenza per diffondersi
adeguatamente in spazi come quelli del Piermarini altrimenti, invece di un più
che discreto, si meriterebbe un più che buono...
Dandini è Nicola Alaimo (credo che Cenerentola fosse anche il suo debutto in
carriera); personalmente lo ricordo in questa parte già al ROF nel 2010...
direi che da allora, anche grazie al passaggio su terreni diversi, vedi
Falstaff, ha imparato a meglio controllare l’emissione, a giudicare
dall’assenza di sguaiatezze e schiamazzi.
Carlos
Chausson
è un più che convincente Don Magnifico, gran potenza e rotondità di voce, ha brillantemente
superato gli scogli della sua parte (anche quantitativamente) assai
impegnativa. Subito in spolvero con i rampolli
femminini, ha poi ben cantato l’aria
del second’atto e ha contribuito alla riuscita del duetto-di-bassi a suon di
scioglilingua con Alaimo.
Erwin
Schrott
(anche lui non ha velleità tenorili...) - da qualche anno (esordio nel Turco al
ROF-2016) si dedica a Rossini - è un ottimo Alidoro, personaggio cui conferisce
appropriatamente quell’arcano aplombe
soprannaturale che ne caratterizza la figura. Pregevole la sua interpretazione
dell’aria del primo atto, quella di Rossini e non di Agolini.
Le due sbifide sorellastre vengono dalla
scaligera Accademia e devo dire che si sono ben portate, la Capitelli in primo luogo, ma anche la Giorgadze. Prezioso il loro contributo
agli ensemble, in particolare al
sestetto del second’atto.
Il coro è impegnato solo al maschile, e
per di più senza grandi difficoltà, quindi Casoni ha fatto il suo dovere, e
basta così.
Ottavio
Dantone,
di professione barocchista, ha riportato saldamente questo Rossini nel ’700, il
che non è affatto un demerito, tutt’altro. Apprezzabile la sua concertazione,
in specie negli insiemi, dove basterebbe poco a trasformare le mirabilia di
Rossini in puro e semplice caos sonoro.
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Pubblico meno folto rispetto a quello
della recente Traviata, ma prodigo di applausi per tutti.
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