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08 marzo, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.19 – Claus Peter Flor

Dopo Xian Zhang, ecco il secondo Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano fare la sua rimpatriata per proporci un concerto che accosta il maturo, ma ancora arzillo, Haydn londinese, al giovin di belle speranze DvořákPubblico… ehm… selezionato, ecco

Del capostipite riconosciuto della prima scuola di Vienna ascoltiamo una delle Sinfonie composte in terra albionica, catalogata come Hoboken 101 e nota come La Pendola, per il tipico ritmo da orologio che ne caratterizza l’Andante. [Qui una mia sommaria presentazione della Sinfonia.]

Flor ne aveva diretto la precedente apparizione qui in Auditorium nel luglio 2021, appena usciti dal Covid. E anche ieri, come allora, il quartetto delle prime parti degli archi è stato il protagonista dell’esecuzione. E Dellingshausen in particolare, avendo suonato da solista i diversi ritorni del tema della Pendola… Ma gli applausi sono andati poi a tutti i membri dell’orchestra, opportunamente smagrita per creare proprio l’atmosfera tutta settecentesca del brano.  

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La Quinta Sinfonia di Antonin Dvořák fu originariamente pubblicata dall’editore Simrock nel 1888 come Terza (dopo la 6 op. 60 e la 7 op.70) e con un numero d’opera (76) assai alto, per farla passare come fosse una primizia, mentre l’opera giaceva nei cassetti di Dvořàk da più di 13 anni ed era già stata anche eseguita a Praga quasi 10 anni prima!

La poca chiarezza sulla numerazione delle sinfonie del boemo fu anche colpa dell’autore medesimo, che trattava così maldestramente le sue composizioni da perderle per strada (come accadde alla prima sinfonia, il cui manoscritto, inviato ad un concorso, non gli fu mai restituito) o da vederle confiscate dal rilegatore (la seconda) che Dvořàk non aveva i soldi per pagare (!) Così per anni e anni circolarono solo alcune delle nove sinfonie, nell’ordine la 6-7-5-8-9 che erano numerate da 1 a 5. Si sospetta che Dvořàk giocasse anche un po’ con la cabala, inventando trucchi pur di non arrivare al fatidico nove

Questa Sinfonia era stata eseguita qui in Auditorium soltanto una volta, nel gennaio-febbraio 2013, all’interno di quello che avrebbe dovuto configurarsi come il ciclo completo – spalmato su tre stagioni - delle nove sinfonie dirette dal venerabile Aldo Ceccato. Il quale, forte della sua personale, lunga esperienza fatta in terra boema (come Direttore Artistico a Brno) aveva pensato di andare a ritroso, partendo dall’ultima (il Nuovo Mondo, ottobre 2011) per poi risalire fino alla prima (Le campane di Zlonice). [Di fatto il cammino si interruppe a ottobre 2013 con l’esecuzione della Terza…]

Ecco una mia presentazione dell’opera, scritta proprio in occasione della precedente esecuzione di Ceccato.

Flor ne ha dato un’interpretazione vibrante, impiegando modica ma sapiente quantità di rubato nel movimento iniziale, esaltando il carattere intimistico dell’Andante senza peraltro farne un pezzo decadente; trascinante lo Scherzo, dai tratti schubertiani e bruckneriani; travolgente poi il finale, con il suo tema spiritato e i poderosi, teatrali interventi dei corni.

Insomma, essendo difficile, anzi impossibile per chiunque, trasformare un’opera dignitosa in un capolavoro assoluto, dobbiamo ringraziare Flor e i ragazzi di avercela fatta digerire senza bisogno di… alkaselzer. Più che doverosi e meritati quindi gli applausi e le ovazioni di cui il pubblico li ha gratificati.


11 maggio, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.22

È il Direttore emerito Claus Pater Flor a rifarsi vivo con l’Orchestra Sinfonica di Milano per offrirci questo bel concerto che affianca il tardo Strauss al rampante Beethoven.

Una delle due prime parti di oboe dell’Orchestra, Luca Stocco, è il protagonista del primo brano in programma, il funambolico Concerto che l’81enne Richard Strauss compose nel 1945 come… ehm, piccolo risarcimento di guerra per John de Lancie, strumentista della Pittsburgh Symphony Orchestra (in seguito passato alla Philadelphia) nonchè caporale dell’armata USA che aveva preso il controllo della Baviera. Il ventenne militare era quasi divenuto amico del vecchio compositore, andandolo spesso a trovare nella sua villa di Garmisch, che un altro graduato aveva ossequiosamente evitato di sequestrare - per farne un... bivacco di manipoli - proprio per rispetto alla notorietà del proprietario.

Il Concerto ha la classica struttura in tre tempi, tonalità RE maggiore (1-3) e Sib maggiore, poi RE maggiore (2). Ascoltandolo non si può non andare con i ricordi ad atmosfere tipiche del classicismo viennese. E vi compare ripetutamente (in modo minore e maggiore) anche un motivo che rappresenta un sottile e sotterraneo legame con l’Eroica (a proposito del secondo brano in programma); motivo impiegato da Strauss anche nella contemporanea Metamorphosen:

Orchestra… magrolina (come prescritto) che il Direttore ha appropriatamente fatto suonare con delicatezza tutta settecentesca.

Quanto al solista all’oboe, l’aspetto più critico del brano riguarda però le apnee (!) cui si deve adeguatamente preparare… Strauss non era nuovo a richiedere prestazioni fuori ordinanza agli esecutori su strumenti a fiato, tanto che per la Alpensinfonie aveva consigliato addirittura l’impiego dell’aeroforo di Bernard Samuels per venire in soccorso ai poveri strumentisti!

Ma l’eroico Luca Stocco non ha avuto bisogno di alcun polmone d’acciaio, tanto da superare la prova quasi in… souplesse! E così si è meritato un gran trionfo di pubblico (anche ieri con folta rappresentanza di teen-agers) e l’applauso dei colleghi.
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Ha quindi chiuso in bellezza l’Eroica: poco da dire qui, se non che anche queste opere iper-inflazionate e millanta volte udite - dal vivo o attraverso le più esotiche diavolerie tecnologiche - se suonate come sa fare l’orchestra di casa, coinvolgono l’ascoltatore come al… primo amplesso, ecco!

Mi limiterò a citare per tutti il terzetto dei corni (Amatulli, Farrante Bannera, Buldrini) per l’impeccabile resa del Trio.  

Immancabili applausi ritmati hanno accolto questa ennesima dimostrazione di forza e compattezza del complesso guidato da Luca Santaniello.
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Lunedi 13, ore 11, in Auditorium (e in streaming sul canale youtube della Fondazione) appuntamento con il nuovo Direttore Musicale, Emmanuel Tjeknavorian, per la presentazione della stagione 24-25, che si preannuncia davvero… pirotecnica!

30 dicembre, 2023

Capodanno con la Sinfonica di Milano

È lunghissima tradizione per laVerdi che l’appuntamento con l’anno nuovo (quattro concerti fra il 29/12 e l’1/1) abbia come messaggero quell’universale appello che prende il nome di Nona Sinfonia.

Anche quest’anno a dirigerla è il Direttore Emerito Claus Pater Flor, che fece il suo un po’ rocambolesco esordio sul podio dell’Auditorium proprio in occasione di uno storico Capodanno, quello del nuovo millennio.

Prima dell’inizio, a orchestra e coro già schierati, un preludio particolare: Massimiliano Finazzer Flory si è presentato al proscenio per leggere il famoso Testamento di Heiligenstadt, che il Beethoven ormai sulla strada della sordità sempre più grave scrisse nel 1802 ai fratelli, confessando che solo l’amore per l’Arte lo aveva convinto a resistere, vivendo e componendo, alla tentazione di farla finita.

E poi, ecco la Sinfonia che il genio di Bonn potè ascoltare solamente nella sua testa, dove del resto era nata e cresciuta: e nessuno può dire con certezza quanto i segni da lui lasciati sui righi della carta da musica corrispondano a ciò che risuonava nel suo orecchio interiore…

Flor ce l’ha proposta con cipiglio davvero teutonico: un primo movimento austero e cupo; poi uno Scherzo quasi demoniaco, martellante, protervo; lo stupefacente Adagio, commovente come sempre (peccato una macchiolina dovuta ad uno scarto di un corno verso la fine); e poi quell’immenso finale, con gli archi bassi ad introdurlo in modo impeccabile nell’iniziale recitativo.

E infine i solisti (dislocati appropriatamente al proscenio) e il coro di Fiocchi Malaspina, che hanno chiuso trionfalmente la serata. Tutte apprezzabili e da promuovere a pieni voti le voci di Lenneke Ruiten, Theresa Kronthaler, Patrik Reiter (questi ultimi due già positivamente cimentatisi in passato in Auditorium) e Modestas Sedlevičius (gran bella prestazione la sua, a partire dallo stentoreo recitativo di apertura).

Pubblico davvero oceanico che ha tributato applausi e ovazioni a tutti. Quindi un inizio di… fine d’anno più che promettente, che ci trasmette almeno un po’ dell’incrollabile fede di un sommo Artista nella Vita e nell’Uomo. E Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno!  

14 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#14


Ieri si è chiuso il Mahler-Festival con l’ultima Sinfonia (completata) del compositore boemo: la Nona, con il Direttore Emerito Claus Peter Flor sul podio di un Auditorium affollatissimo. Un degno suggello per questa manifestazione che ha tenuto banco – nel mondo culturale milanese e non – per più di tre settimane piene di suoni prodotti dalle migliori orchestre italiane: un evento davvero degno di passare alla storia!
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La Nona, insieme al Lied von der Erde (che a settembre in Scala aveva significativamente inaugurato allo stesso tempo la stagione 23-24 e il Festival) e al torso della Decima, forma quella trilogia della morte con cui si usa catalogare quest’ultima parte della produzione mahleriana, a partire da quell’infausto 1907 che calò sul capo di Mahler (e della moglie Alma) le micidiali martellate del finale della Sesta. Sinfonia peraltro composta quasi 4 anni prima, quando Mahler toccava letteralmente il cielo con un dito: moglie invidiata dal mondo intero, famigliola felice, gloria professionale e benessere economico.

E infatti quella Sinfonia tragica rimase un unicum (conclusione in tonalità minore) in tutta la produzione mahleriana, anche in quella posteriore: immediatamente, anni 1905-1906, che videro nascere la Settima, chiusa da un esilarante DO maggiore, e l’Ottava, dove il MIb maggiore abbonda fino alla nausea; ma anche successivamente all’annus horribilis, con quella trilogia (1908-1910) che ostinatamente continua ad evitare conclusioni funeree: il Lied chiude in DO maggiore, la Nona in REb maggiore e la Decima (abbozzo) in FA# maggiore.

Insomma, si può dire che la dimensione tragica in Mahler fino al 1907 fu sempre e solo osservata dall’esterno, tutt’al più fatta propria con un sentimento di pietas per tutti i mali del mondo, di cui il compositore era stato ed era direttamente testimone. Ecco, dopo quel disgraziato 1907 tutto cambiò poiché Mahler sperimentò – inaspettatamente e a ripetizione - il tragico sulla propria persona, sia in termini materiali (la fine dell’avventura viennese, la diagnosi preoccupante del suo stato di salute) che spirituali (la scomparsa della figlioletta e il deteriorarsi del rapporto con Alma).

Possiamo quindi immaginare lOttava sinfonia (1906) come quella che chiude il ciclo della produzione del Mahler testimone del mondo; da lì in avanti, la sua musica sarà quella del testimone di se stesso, naturalmente in rapporto al mondo e all’aldilà. 

Ed è proprio la trilogia della morte che in qualche modo sconfessa, come insincero, il pessimismo, quasi-nichilismo della Sesta: la quale, alla luce delle ultime opere, ci appare come una deviazione intellettualistica da quella strada che da sempre Mahler aveva percorso: l’amore sconfinato e una specie di fede laica nella Natura, di cui sono testimonianza i versi aggiunti di suo pugno alla fine del testo cinese dell’Abschied, che muta da fatalistico sconforto a rassegnazione serena, come gli orizzonti che si tingono d’azzurro…

In sostanza: in quell’estate del 1907 Mahler di certo aveva preso coscienza che la fine avrebbe potuto ormai bussare alla sua porta in qualunque momento, ma non era affatto un uomo sfiduciato, era anzi un artista che si manteneva in buona efficienza e piena attività. Caso mai la sua Nona – così come il Lied e i frammenti della Decima – ci mostrano la sua intima convinzione che, pur sulle macerie lasciate da quei terremoti, ci fosse ancora la prospettiva di una terza età che certo escludeva per lui il ritorno ai trionfi (pubblici e privati) della gioventù, ma che era pronto ad affrontare con il piglio di sempre (non per nulla, appena completata la Nona, metterà subito in cantiere e comincerà a lavorare alacremente alla sua Decima!)

Quindi: nessun sentimento di terrore di fronte allo spettro di una morte imminente (che arriverà – e prematuramente, possiamo ben dirlo date le circostanze - ben due anni dopo la Nona e tre dopo il Lied, e a causa di una infezione virale, un’endocardite, incurabile perchè non c’erano ancora in giro gli antibiotici…); ma l’esposizione del suo programma, non scritto, di consapevolezza nella caducità delle terrene cose e quindi anche della vita, alla di cui fine prepararsi nel modo musicalmente più appropriato.

A puro titolo di curiosità, se osserviamo che il Lied chiude su una sopratonica (RE) e la Nona su una dominante (LA) potremmo spiegare queste cadenze imperfette come una sfida del superstizioso Mahler alla morte, lasciando sempre aperto uno spiraglio per la… prossima Sinfonia, cosa che effettivamente accadde! 
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Come in quei film (o quei racconti) che si aprono calando direttamente (in medias res) ad un passo dalla conclusione per poi presentarci un lungo flash-back che ci informa in dettaglio sui fatti pregressi e infine ci riporta là da dove il film era cominciato, così questo Festival aveva avuto la sua ideale anteprima domenica 10 settembre alla Scala, quando si era spento il Lied con la reiterata esposizione di un motivo (mediante>sopratonica, MI-RE) che aveva accompagnato le ultime parole del canto: ewig… ewig… ewig… Poi il Festival ci ha condotto per mano ad esplorare tutte le vicende musicali che avevano portato a quel punto: quattro cicli di Lieder e otto Sinfonie!

Ecco perché è stata opportunamente chiamata proprio la Nona a chiudere il Festival: racconta della Sinfonia (come genere di opera musicale) che musicalmente interpreta il suo proprio tramonto in modo sereno, non traumatico, restando fedele al suo passato nella struttura complessiva (quella risalente a Mozart, all’ultimo Haydn e a Beethoven, i tre mostri sacri della prima scuola di Vienna…), nella forma-sonata del movimento iniziale e nella natura dei movimenti interni (uno comodo e l’altro vivace); ma essendosi spogliata dei tratti più eroici e sognatori - e magari velleitari - dei bei tempi andati (i due movimenti esterni, non più Allegro, ma Andante e Adagio).

E la Nona riprende precisamente il discorso lasciato in sospeso da quel MI-RE (ewig…) dell’Abschied: poiché dopo sei battute introduttive (piene di simboli e allusioni) i secondi violini si lanciano nell’esposizione del primo tema che inizia proprio con l’inciso mediante>sopratonica (ma qui FA#-MI, poiché siamo in RE maggiore…) che aveva chiuso il Lied!

Flor, che già aveva diretto qui la Sinfonia pochi anni fa, ne ha dato una lettura che definirei laica, asciutta (come testimonia il tempo spedito con cui ha condotto il gemächliche Ländler); accentuando i contrasti del primo movimento (grandi impennate eroiche seguite da catastrofiche cadute); poi scatenando tutta la furia del Rondo.Burleske, nel quale compare, quasi un miraggio, quell’oasi improvvisa dove la tromba anticipa il gruppetto, elemento fondante dell’Adagio conclusivo. Adagio la cui tonalità degrada di un semitono rispetto al RE maggiore iniziale, anche questo un chiaro riferimento all’ineluttabile scorrere del tempo e all'avvicinarsi della...

Del quale Adagio è da ricordare il culmine caratterizzato dalla straziante perorazione dei quattro corni (ieri guidati da Giuseppe Amatulli, meritatamente ovazionato alla fine) per arrivare alla conclusione che, dopo il girotondo delle viole attorno alla dominante di REb, non ha contemplato minuti di raccoglimento come si fosse in una camera ardente dinanzi ad un feretro, ma qualche doveroso secondo di silenzio per far semplicemente decantare l’emozione che si prova sempre ascoltando questa musica. (Sì, perché qui anche il silenzio è… musica, che proprio sembra non volersi spegnere, ma continuare a vivere in eterno.)

Più di cinque minuti di liberatori applausi hanno salutato l’epilogo di questa grande e indimenticabile avventura.

09 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#11

Ieri sera il Duomo di Milano ha ospitato quello che certamente era il concerto-clou del Mahler-Festival: l’esagerata Ottava, che l’Orchestra Sinfonica di Milano eseguiva per la seconda volta nella sua storia, dopo quella prima esperienza del novembre 2013 (20° anniversario) alla vecchia Fiera, con Chailly.

Pubblico che neanche a Natale o Pasqua… lunghissime code in piazza attendendo l’apertura del giganteschi portoni della Cattedrale in durissima pietra sotto le cui navate sono poi risuonate le note di tutt’altro tipo di Cattedrale!

Impressionante lo spettacolo dei Musikanten schierati nell’abside (con la banda isolata - che nei finali di ciascuna delle due parti suona i temi principali della parte susseguente / antecedente - sul pulpito di sinistra): oltre agli strumentisti, ecco sul fondo, al centro, i Pueri Cantores del Duomo (preparati e guidati da Marta Guassardo e Massimo Palombella); più sotto le piccole del Coro di Voci Bianche di Milano (emanazione de laVerdi, dirette da Maria Teresa Tramontin); sopra, ad avvolgere i… minorenni, i due cori misti associatisi per l’occasione: quello di casa e quello AsLiCo  (Massimo Fiocchi Malaspina).

I solisti di canto erano davanti all’orchestra, ai lati del podio: soprani Flurina Stucki, Eleanor Lyons e Elisabeth Breuer; mezzosoprani Bettina Ranch (già protagonista della Auferstehung) e Annely Peebo; tenore Tuomas Katajala (ha cantato nell’inaugurazione alla Scala Das Lied von der Erde); Jochen Kupfer, baritono e Samuel Youn, basso.

Sul podio Claus Peter Flor, che ha già inciso con l’Orchestra di cui è Direttore Emerito le sinfonie dispari di Mahler, ed ora ha fatto il battesimo della più complicata (almeno materialmente) sinfonia pari!

Che dire? È una musica che allo stesso tempo ti stordisce e ti emoziona. Dall’inno medievale di Hrabanus (da infarto l’Ac---cende Lumen) al finale metafisico di Goethe (dove si sale dalla solitudine di valli rocciose su su verso l’ineffabile ed eterno Weibliche) è un viaggio davvero unico in tutta la storia della musica! Oratorio? Cantata? Messa? Forse un insieme di tutto ciò, che molti hanno giudicato e giudicano velleitario, tacciando il suo Autore di megalomania ma che, ascoltato dal vivo come capita (e tutto sommato è forse un bene) così di rado, non può non prenderti per la gola.

Ieri, in un ambiente che, quanto ad acustica, non è certo dei migliori, la prestazione complessiva è stata più che soddisfacente e mi sento di assegnarle un voto più che positivo. 

Claus Peter Flor ha come minimo il merito di aver saputo tenere insieme con grande autorevolezza quello sterminato esercito che si trovava a dover guidare (piccole imperfezioni o sbavature in questi casi sono all’ordine del giorno); i solisti, specie in Goethe dove devono emergere al di sopra dell’oceano dei cori, si sono onorevolmente portati; e i tre cori, appunto, che hanno un ruolo immane in quest’opera, lo hanno interpretato con grande efficacia, negli stentorei passaggi dell’Inno, come negli oscuri sussurri degli anacoreti, nel misterioso e straordinario attacco dell’Alles Vergängliche, e nella finale esplosione dello zieht uns hinan!        

Un’ultima osservazione: nel giro di soli sei mesi l’Ottava è risuonata per ben quattro volte nel cuore di Milano: tre esecuzioni a maggio, con Chailly, nel tempio della musica; e questa nel tempio della religione. Un vero record, per una città che evidentemente non sa offrire solo shopping

29 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#5

Dopo tre ospitate ad altrettante Orchestre italiane, è tornata sul palco - insieme al Direttore Emerito Claus Peter Flor - la padrona di casa in un Auditorium ancora pieno come un uovo a dimostrazione del successo che il Festival sta riscuotendo, in particolare fra i giovani, numerosi anche oggi in sala.

In programma c’era oggi la colossale, smisurata Terza Sinfonia, che ci porta, come scriveva il compositore nelle note esplicative (poi ritirate), dalla Terra al Cielo, o anche per-aspera-ad-astra, o ancora, volgarmente, dalle-stalle-alle-stelle! Un programma non diverso da quello individuabile in altre Sinfonie mahleriane, a partire dalla Seconda (dalla-morte-alla-resurrezione). Ma in senso lato presente anche nella Quinta Sinfonia: due movimenti iniziali apparentati dal carattere funebre seguiti da uno di natura giocosa e da un altro di tono lirico prima del finale in gloria. E pure la Settima pare ispirata a questo schema: due tempi estremi, il primo cupo, l’ultimo trionfalistico ed esilarante, inframmezzati da due serenate e da uno spettrale scherzo.

Ma in realtà in termini di struttura musicale dell’opera, parrebbe l’invenzione dell’acqua calda, poiché la Sinfonia stessa, come genere musicale, si andò strutturando così fin da Haydn, come minimo: quattro movimenti, di cui i due esterni più robusti (in Allegro, tipicamente) e i due interni più contemplativi (Andante) e leggeri (Minuetto o poi Scherzo).

La novità di Mahler (in buona parte mutuata dal suo idolatrato – e riorchestrato – Schumann) risiede principalmente nell’abbandonare il principio (Hanslick-iano, potremmo definirlo) di costruzione dell’edificio sinfonico con materiale musicale puro per impiegare invece una tecnica tipicamente teatrale (incluso quel teatro in miniatura che è il Lied…) Approccio non poi troppo diverso da quello di Ciajkovski, ma portato da Mahler alle estreme conseguenze.

Ecco allora che le Sinfonie di Mahler assurgono nientemeno che ad interpretazioni dell'intero mondo, dove troviamo esplicitata in suoni e secondo la visione dell'Autore ogni possibile problematica legata all'esistenza e ai suoi misteri. 
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L’esecuzione odierna non ha mancato l’obiettivo, grazie alla rigorosità che Flor ha impiegato nella sua direzione, che nulla ha trascurato e nulla ha stravolto: dal poderoso attacco degli otto corni (in palcoscenico erano nove…) capitanati dalla coppia Ceccarelli-Amatulli; alle leziosità del Minuetto, con Santaniello protagonista; al mirabile assolo della cornetta-da-postiglione di Alessandro Rosi (dislocato come richiede Mahler fuori dal palco, ma uscito alla fine a raccogliere meritatissimi applausi) alla corposa e calda voce di Anke Vendung in Nietzsche e poi nel Wunderhorn insieme alle piccole di Maria Teresa Tramontin e alle ragazze di Massimo Fiocchi Malaspina; per finire con l’apoteosi del tema beethovenian-parsifaliano che ci ha accompagnato verso il trascendente.

Grandissima emozione, sfociata in lunghi, liberatori applausi e ovazioni per tutti.

23 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 27 (Rach4/4)

Il programma dell’ultima giornata del Rach-Festival era totalmente dedicato al compositore russo, presentando in pratica le ultime due opere cui Rachmaninov lavorò prima della morte (1943).

Il Concerto n.4 per pianoforte e orchestra in Sol minore op.40 era stato ideato a ruota del Rach3 (anni ’10-’15) se non ancor prima… ma poi ripreso e completato solo nel 1926; quindi revisionato una prima volta nel 1928; e infine, sottoposto ad altre sostanziose modifiche nel 1941. Fu l’ultima fatica del compositore, seguita di poco alla penultima, le Danze sinfoniche op.45 che hanno completato questa interessante rassegna offertaci da laVerdi.

Sulle intricate vicende del Concerto e sulle principali differenze fra la seconda versione del 1928 e quella definitiva del 1941 ho già pubblicato su questo blog un tormentone ora disponibile qui, quindi non mi dilungo oltre. Caso mai può essere di qualche interesse confrontare le tre versioni ascoltando la terza e ultima dal grande Benedetti Michelangeli, la seconda da William Black e la prima da colui che l’ha incisa per primo dopo la riesumazione nel 2000. Si noteranno così le differenze di durata: 25’, 29’, 31’, a dimostrazione del progressivo smagrimento cui l’Autore sottopose la partitura.

Romanovsky, che ha comprensibilmente presentato la versione 1941, evidentemente deve ancora prenderle tutte le misure, se è vero che si è portato lo spartito sul leggio, e al suo fianco anche l’aiuto gira-pagine. Ma ciò non significa che la sua interpretazione non sia stata eccellente, quanto meno lui è riuscito a renderci questa partitura meno ostica e indigeribile di quanto non rischi di essere: purtroppo, se gli ingredienti del manicaretto sono di qualità mediocre non c’è cuoco che possa cavarne un piatto da leccarsi i baffi, ahinoi.

Ma il pubblico dell’Auditorium – stracolmo anche oggi pomeriggio - lo ha comunque premiato per… l’abnegazione, riservandogli poi un trionfo in ringraziamento per questo autentico regalo che ci ha fatto in questi ultimi 10 giorni. Ci auguriamo di rivederlo (e soprattutto… risentirlo) al più presto. Oggi intanto si è congedato con due sontuosi bis: Rachmaninov e un oceanico Chopin.
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Si è chiuso con il canto del cigno di Rachmaninov, le Danze sinfoniche. Sono proprio un bigino di tutta la precedente produzione del russo trapiantato in USA. E quindi, a chi Rachmaninov piace, piacciono assai. I tre movimenti dovevano avere anche dei sottotitoli - mezzogiorno, tramonto e sera, poi non pubblicati – che peraltro non sembrano propriamente rispecchiati sul pentagramma. 

L’organico orchestrale comprende anche il sax contralto, che impreziosisce il primo dei tre movimenti, oltre al pianoforte e ad una corposa batteria di percussioni.

 

Il primo dei tre brani ha una struttura macroscopicamente tripartita, con le sezioni esterne più mosse dove si ode il tema principale della danza, nervoso e insistito:

La sezione centrale è invece di carattere intimistico e vi spiccano gli interventi della morbida voce del sax contralto:


 

Il secondo brano è praticamente un Walzer, piuttosto tetro e spettrale, sul tipo, per intenderci, dello Scherzo (Schattenhaft) della Settima mahleriana. Il motivo principale è esposto nella prima parte del brano da corno inglese e oboe:


Una seconda sezione è più languida nel ritmo, ma sempre cupa, poi riprende fino alla fine questa specie di danza macabra.


Il terzo e conclusivo brano si apre, dopo un’introduzione lenta, con un Allegro vivace che presenta una danza nervosa e sincopata, che passa da una sezione all’altra dell’orchestra. Segue una transizione lenta e misteriosa, con sonorità cupe del clarinetto basso, con la musica che poi progressivamente si acqueta. Riprende infine l’Allegro vivace dove, dopo l’introduzione dell’oboe e alcune fanfare delle trombe, udiamo distintamente il Dies Irae (una vera fissazione di Rachmaninov) che introduce il caotico finale.

  

Che dire? Che il povero (si fa per dire… certo non dal punto di vista economico, ma purtroppo da quello estetico) Rachmaninov abbia cercato – in extremis, per darsi una patina di modernitä - di scimmiottare gli stilemi (da lui prima sempre vituperati) di uno Stravinsky o di un Prokofiev? O che ormai sentisse, magari nel subconscio, l’avvicinarsi del traguardo riservato a tutti noi? Come interpretare sennò il trito (per lui) riferimento al Dies-Irae che la fa da padrone alla fine dell’ultimo brano? 

    

Insomma, quest’ultimo lavoro, insieme al drastico maquillage operato al 4° concerto, sembra forse testimoniare di una tremenda presa di coscienza di una vita… sprecata? Beh, in quegli stessi anni, o poco dopo, tale Richard Strauss, pur distrutto dalla caduta di tutti i suoi ideali e mortificato dal processo di denazificazione, ci lasciava cosucce tardoromantiche quali Metamorphosen e Vier letzte Lieder… non so se mi spiego!


Ma queste note poco elogiative per il compositore non vanno ovviamente estese agli interpreti, che ancora una volta si sono superati per compattezza, precisione, affiatamento e per qualità di suono.  

21 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 26 (Rach3/4)

Il programma della terza giornata del Rach-Festival (praticamente sold-out!) accosta al Concerto del compositore russo uno dei lavori più noti ed eseguiti di Edward Elgar, le Enigma Variations op.36, del 1898-99.

In esso il musicista albionico si divertì a ritrarre musicalmente gli amici, personaggi più o meno noti della buona società britannica, ed anche sé medesimo (!) attraverso una serie di 14 variazioni su un tema, che sarebbero ulteriormente legate ad un più ampio tema, che le percorre tutte: e quest'ultimo tema costituirebbe l'enigma cui fa riferimento il titolo. Da più di un secolo c'è chi si è scervellato per trovare la soluzione: God save the Queen (oh sorry, H.M. Charles III) the KingAuld Lang Syne (il nostro Valzer delle candele) furono proposte all'autore, che negò fossero la risposta giusta e così lui si portò il segreto nella tomba.

Ma il concorso è continuato negli anni: nel 1976 un musicologo olandese, Theo van Houten, decriptò una frase che Elgar aveva scritto per il programma di sala della prima esecuzione: So the principal theme never appears. Dato che il compositore amava i giochi di parole, la frase si può leggere anche così: So the principal theme - never - appears, quindi il tema in questione potrebbe aver qualcosa a che fare con il termine never. E guarda caso, il più antico canto patriottico albionico, Rule Britannia, contiene la parola never musicata da Thomas Arne precisamente con le prime note riprese da Elgar per il suo tema:

Altri indizi – e pure complicatissime elucubrazioni - portano a soluzioni diverse, peccato che Elgar non possa più confermare o smentire. 

Di sicuro la più famosa delle variazioni, spesso eseguita singolarmente, come bis nei concerti, è la n°9, intitolata Nimrod, un grande Adagio in MIb maggiore, dove il tema viene esposto con molta nobiltà, in un continuo crescendo dall'iniziale ppp al ff della finale perorazione, chiusa poi di nuovo in pp. È un grande momento che supera esteticamente lo stesso finale, piuttosto enfatico e scontato.

Variazione controversa per quanto riguarda l’agogica, che l’Autore prescrive con indicazione metronomica di 52 semiminime al minuto. Essendo in tutto costituita da 43 misure in 3/4 (=129 semiminime) e in assenza di variazioni (salvo il ritenuto sulle ultime 4 misure) se ne deduce matematicamente che la sua durata dovrebbe essere (espressa in decimali) di 129:52= 2,48 minuti, cioè circa 2’30”. Orbene, se ascoltiamo questa registrazione del 1926, con l’Autore sul podio, riscontriamo che il brano dura da 12’02” a 14’49”, cioè 2’47”, appena di poco più lento rispetto al metronomo. Ma se ascoltiamo tutte le principali esecuzioni (youtube ne è affollato) scopriamo che nessuna sta sotto i 3’, ma di norma ci si avvicina o si superano i 4’. Il record lo detiene Lenny Bernstein che fa suonare la BBC Symphony (con la quale per la verità aveva un po’ di ruggine…) addirittura a 5’15”, ben più del doppio più lento rispetto al metronomo di Elgar! (NB: Flor l’ha suonata attorno ai 4’, seguendo quindi il solco di quella che ormai è diventata tradizione interpretativa, con la quale personalmente tendo a discordare.)

Infine, c’entra qualcosa quest’opera con Rachmaninov? Mah, dal punto di vista degli anni della composizione, e se è vero che Elgar – come il russo – era tentato a quel tempo di abbandonare la musica… allora starebbe meglio a fianco del Rach2… oppure c’è qualche enigma nascosto (magari all’insaputa di Rachmaninov) anche nel Rach3? 

Beh, comunque sia è sempre un piacere ascoltarla, se poi chi la suona è un’Orchestra di prim’ordine!
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Eccoci quindi al famigerato Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in Re minore op. 30, nel quale possiamo vedere qui impegnato il nostro beniamino Alexander allorquando (2001) si rivelò come stella nascente nel pianismo internazionale. Come ho suggerito in questo precedente scritto, le difficoltà del concerto sono più che altro di natura per così dire… atletica (dato il quasi continuo impegno del solista, cui sono riservate pochissime pause di respiro) che non tecnica.

Una delle tante curiosità che suscita l’ascolto del Concerto riguarda la cadenza del movimento iniziale, invero massacrante, di cui Rachmaninov ha lasciato (scritte in partitura) due diverse versioni, che riguardano peraltro solo la prima parte della cadenza: la principale è forse più virtuosistica, mentre l’altra (indicata come ossia) è più lunga, massiccia e severa.

Ebbene, Romanovsky, nella citata esecuzione del 2001 al premio Busoni, eseguì la cadenza principale (si ascolti la parte specifica fra 10’32” e 11’25” del video). Più recentemente (2019) a Seul Romanovsky ha invece eseguito la seconda (da 10’22” a 12’04” in questo video). Che ha scelto anche ieri sera.

Inutile dire della sua interpretazione, invero strepitosa, coadiuvata da un’orchestra che lo ha supportato nel migliore dei modi. L’oceanico pubblico dell’Auditorium (davvero, nonostante il nubifragio che ha flagellato Milano) è andato letteralmente in visibilio, tributandogli una lunghissima standing ovation, che lui ha ricambiato con due bis: una versione pianistica (in DO# minore) di Vocalise e il Momento Musicale n°4.

16 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 25 (Rach2/4)

Il programma della seconda giornata del Rach-Festival fa precedere il Secondo Concerto dalla versione orchestrale degli Études-Tableaux, predisposta da Ottorino Respighi nel 1929 in risposta ad un’iniziativa del vulcanico Koussevitsky che aveva chiesto a Rachmaninov di orchestrare per la BSO alcuni dei brani delle due opere pianistiche (la 33 del 1911 e la 39 del 1916).

Ne è uscita questa raccolta di 5 Studi, così selezionati da Rachmaninov e messi da Respighi in sequenza concordata con l’Autore:

La mer et les mouettes (Il mare ed i gabbiani) – (Op.39, n°2)

La foire (La fiera) – (Op.33, n°6)

Marche funèbre (Marcia funebre) – (Op.39, n°7)

La chaperon rouge et le loup (Cappuccetto Rosso e il lupo) – (Op.39, n°6)

Marche (Marcia) – (Op.39, n°9)

Mah, forse qui c’è troppo Respighi… sono convinto che altro effetto avrebbe fatto l’esecuzione di Romanovsky al pianoforte!
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Ecco quindi il di gran lunga più famoso ed eseguito Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in Do minore op. 18.

Opera nata proprio all’inizio del XX secolo (1900) a valle di una stagione davvero penosa per Rachmaninov, dalla quale uscì proprio sfornando questo lavoro che gli darà, oltre a grande notorietà, anche il carburante per tutta la sua successiva attività di compositore e soprattutto di concertista.

Concerto che da sempre ha sollevato discussioni fra i critici (meno nel pubblico, di norma entusiasta, va detto) dove si distinguono i giudizi lusinghieri sull’ispirazione e la vena melodica, e quelli invece negativi, se non stroncanti, che ci vedono null’altro che un comodo riflusso di Rachmaninov verso canoni estetici superati e contenuti di fin troppo facile presa sull’ascoltatore. Ho personalmente inquadrato l’origine e le principali caratteristiche del Concerto in uno scritto consultabile qui.     

Romanovsky lo ha già eseguito numerose volte (qui lo vediamo a Seul 9 anni orsono) e anche oggi ha sciorinato tutte le sue straordinarie qualità tecniche ed interpretative. Questa partitura comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata, ma il nostro ha saputo dosare alla perfezione gli ingredienti del manicaretto; forse (ma non è colpa sua) in alcune parti del primo movimento Flor non ha bene dosato le dinamiche, finendo per coprire il suono del pianoforte. Straordinario invece l’Adagio, dove Romanovsky è stato davvero ispirato. Travolgente poi il finale.

Pubblico (Auditorium praticamente preso d’assalto, oggi pomeriggio) in delirio e chiamate a ripetizione, ricambiate da due bis (il primo sempre Rachmaninov).

Giovedi prossimo il Rach3

14 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 24 (Rach1/4)

Claus Peter Flor (oggi Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano) e Alexander Romanovsky (39enne ukraino trapiantato a Bologna…) hanno ieri dato il via al Rach-Festival, che propone (fino a domenica 23/4) l’integrale dei 4 Concerti pianistici di Sergei Rachmaninov (più altre sue e non sue composizioni).

Il programma della prima giornata è aperto da due lavori di autori francesi contemporanei di Rachmaninov, lavori che hanno in comune il fatto di essere nati per il pianoforte a 4 mani e di essere poi stati trascritti per l’orchestra. Meno stretti sono i loro legami con il Concerto di Rachmaninov: la cui versione originale è di poco posteriore al lavoro di Debussy, mentre quello di Ravel è coevo addirittura del Rach3. Ma anche la versione definitiva del Rach1 non parrebbe influenzata dalle opere dei due compositori francesi.  

Ascoltiamo quindi per prima la Petite Suite in 4 movimenti che Claude Debussy compose nel 1889 per pianoforte a 4 mani, ispirandosi (per i primi due brani) a poesie di Paul Verlaine. Solo 8 anni più tardi sarà un allievo di Ernest Guiraud (quello che aveva… bistrattato la Carmen) di nome Henri Büsser a trascrivere la Suite per grande orchestra.

Seguono poi i Cinq pièces enfantines, che recano il titolo Ma mère l'oye (raccolta di poesie di Charles Perrault che ispirano i due primi pezzi) e che Maurice Ravel compose nel 1909 per pianoforte a 4 mani e orchestrò nel 1910, per poi ampliare a balletto nel 1912.
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Questo antipasto è servito più che altro a mettere in evidenza la distanza fra le avanguardie francesi e la… retroguardia russa rappresentata da Rachmaninov e dal suo Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in Fa diesis minore op.1.

Di cui si è eseguita (come ormai quasi sempre accade) la versione definitiva approntata dall’Autore nel 1917, ben 26 anni dopo la stesura originale del 1891. Una mia breve storia ed esegesi della composizione, inclusi alcuni riferimenti alle novità introdotte dalla versione definitiva, è consultabile a questo link.  

Romanovsky la affronta con gran cipiglio, martellando sulla tastiera le poderose terzine in ottava a due mani che coprono le battute 3-8 del Vivace di apertura. Poi mette tutta la sua sensibilità nel presentare i due temi (espressivo e cantabile) che innervano l’esposizione. Ispirata la lunga cadenza che porta alla chiusura.

Lo spirito romantico del concerto viene mirabilmente interpretato da Romanovsky nell’Andante, condotto con nobile semplicità… a dispetto del relativo appesantimento apportato da Rachmaninov in questa versione agli interventi dell’orchestra.

Anche l’Allegro vivace conclusivo, come rimaneggiato nel 1917, acquista una brillantezza piuttosto… gratuita, ecco. Romanovsky fa del suo meglio perché la voce del pianoforte non venga troppo oscurata dai rumorosi interventi dell’orchestra.

Alla fine grande apprezzamento per lui (e per tutti, ovviamente) ricambiato da ben due bis: il primo e più famoso Preludio di Rachmaninov (in DO# minore, op.3 n°2, che si riverbera anche nel Concerto appena ascoltato) e poi il 12° Studio dell’op.8 di Scriabin, nella bizzarra tonalità di RE# minore! 

Domenica il Rach2.