XIV

da prevosto a leone
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13 maggio, 2023

laVerdi 22-23. 29

La simpatica ukraina Oksana Lyniv (45 anni ma pare un’allegra ragazzina… e quest’estate sarà per la terza volta a Bayreuth per dirigervi l’Holländer) fa il suo esordio sul podio dell’Auditorium (ieri sera proprio per pochi intimi, ma assai ben disposti) per dirigere il concerto n°29 della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

Tema conduttore del concerto sono gli eroi, mitologici o… contemporanei, visti sotto due diverse e per certi versi opposte angolazioni. Di Silvia Colasanti (che con questa stagione chiude la sua residenza presso laVerdi, per cedere il posto a Nicola Campogrande) vengono presentati Fedra e Arianna, due dei tre componenti (insieme a Didone) di Epistulae Heroidum, Monodrammi per voce recitante, coro femminile e orchestra, che furono composti originariamente per Spoleto e colà eseguiti nel 2020, proprio nell’intervallo fra la prima e la seconda ondata del Covid.

Nei testi di Ovidio sono quasi sempre (18 su 21 lettere) delle donne a tenere banco, attraverso lunghe missive indirizzate ai loro amati eroi. I due casi proposti nel Concerto sono di natura assai diversa, benchè abbiano come protagoniste due donne (e i relativi uomini) legate da vincoli di parentela: Fedra e Arianna sono sorelle, figlie di Minosse e sorellastre del Minotauro; Teseo, abbandonata Arianna, è padre di Ippolito e poi sposa Fedra che si invaghisce del figliastro.   

Il primo monodramma evoca quindi l’appassionato appello di una donna (Fedra) al figliastro (Ippolito) che non ne vuol proprio sapere di mettersi con la matrigna (e con nessun’altra donna, se è per questo). Il secondo invece è la classica vicenda che ha per protagonista un maschio (Teseo) che adotta verso la femmina (Arianna) l’approccio usa-e-getta… e così è lei a rinfacciare al fedifrago le sue colpe, ma nel contempo a supplicarlo di tornare da lei, almeno in tempo per seppellire le sue ossa.

La voce recitante è quella della brava Maddalena Crippa, contrappuntata – in Arianna - da quelle dell’Ensemble vocale femminile Virgo Vox (6-6-6).

Fedra si apre con uno schianto orchestrale che introduce la confessione della donna del suo innamoramento per il figliastro. Cosa che lei fa con grande fierezza, senza il minimo pudore ed anzi rivendicando i diritti dell’amore, che supera ogni confine (beh… al confronto LGBT è roba da educande…) La musica ne supporta le crude e quasi imperative argomentazioni con folate di un mare in tempesta, per poi sciogliersi in accorate implorazioni della donna, che supplica in lacrime l’amato di non negarle comprensione e amore.   

Arianna esplode in un’autentica requisitoria contro Teseo, fuggito da lei nottetempo come un ladro; il coro interviene di tanto in tanto con citazioni dell’originale latino di Ovidio. La donna racconta quei terribili momenti della scoperta della fuga dell’amato, i suoi disperati tentativi di richiamarlo e infine la rassegnazione che si è impadronita di lei. La musica che la accompagna è prevalentemente dura, con folate che evocano di volta in volta rabbia, odio, delusione, rimpianto. Gli interventi del coro hanno invece il carattere di profonda pietas, e sono queste voci che chiudono mestamente l’opera.

Accolta con grande partecipazione dal pubblico, che ha riservato lunghi applausi a tutti, ma in particolare a Maddalena Crippa, efficacissima nell’interpretare le tante e diverse pulsioni dell’anima delle due protagoniste.
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Il secondo soggetto sul tema dell’eroismo è in realtà una specie di pretenziosa auto-biografia di un tale che, a 34 anni (1898) già si millantava eroe al punto da evocare in musica sue strabilianti imprese artistiche e relative epiche battaglie contro gli stupidi critici e denigratori: il Richard Strauss di Ein Heldenleben. (Qui una mia modesta esegesi dell’opera.)

Certo, Strauss aveva una specie di dono di natura che gli consentiva di catturare l’interesse del pubblico anche propinandogli merce non propriamente di eccelsa qualità: magari con più fumo che arrosto… ma un fumo assai profumato e a volte addirittura inebriante. 

E anche l’esecuzione di ieri lo ha confermato: la Lyniv ha diretto con piglio da… amazzone e un perfezionista forse le potrebbe addebitare qualche eccesso nelle dinamiche e un non perfetto equilibrio fra le sezioni nei passaggi più enfatici… tuttavia alla fine i rari-nantes-in-Auditorium si son fatti in quattro per accogliere l’esecuzione con ripetute chiamate, rumorose ovazioni e applausi ritmati all’indirizzo della Lyniv. Domani pomeriggio si replica. 

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Questa settimana la Presidente Ambra Redaelli e il DG Ruben Jais hanno annunciato (presenti i massimi rappresentanti istituzionali, Attilio Fontana e Giuseppe Sala) la stagione 23-24 dell’Orchestra Sinfonica e Coro di Milano. Stagione particolare, ricorrendovi il 30° anniversario dalla Fondazione dell’Orchestra e il 25° da quella del Coro.

Accanto alla stagione principale (26 concerti) e alle ormai consolidate proposte collaterali, spicca il Festival Mahler, 14 concerti che percorreranno gran parte della produzione del compositore boemo. Una importante particolarità dell’iniziativa, che si estenderà dal 22 ottobre al 13 novembre 2023, consiste nella presenza di alcune delle più qualificate compagini sinfoniche italiane, precisamente: Filarmonica della Scala (Chailly, 26/10, Sinfonia 1); Accademia di Santa Cecilia (27/10, Honeck, Des Knaben Wunderhorn); Orchestra Spira Mirabilis (28/10, Schumann S3 Renana orch. Mahler); I Pomeriggi Musicali (Feddeck, 31/10, Schumann S1 e S2 orch. Mahler); ORT + Orchestra Giovanile Italiana (Stenz, 3/11, Kindertotenlieder + Sinfonia 4); OSN-RAI (Trevino, 4/11, Sinfonia 5); Orchestra Arena Verona (Angius, 5/11, Sinfonia 6); Orchestra Haydn BZ-TN (Dantone, 7/11, Sinfonia 7); Filarmonica Toscanini (Wellber, 11/11, Rückert Lieder+ Adagio Sinfonia 10); Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano (Jais, 12/11, Bach orch. Mahler). 

Le Sinfonie 2-3-8-9 saranno eseguite dall’Orchestra Verdi diretta da Boreyko (2) e Flor (3-8-9). In particolare, l’apice del Festival si toccherà l’8/11, quando la colossale Sinfonia 8, dopo le tre esecuzioni della prossima settimana alla Scala con la Filarmonica diretta da Chailly, tornerà ancora (un record!) a risuonare a Milano, questa volta nella magica cornice del Duomo.   

25 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 17

Shakespeare in musica si intitola il concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano di questa settimana; a dirigerlo il Direttore Principale Ospite, Jaume SantoniaOpere di due autori ormai da tempo entrati nella storia della musica che ne incastonano una di un’autrice che più contemporanea di così non si può!

Si parte quindi con Macbeth (op.23) che Richard Strauss compose nel 1887-88 (quindi a 23-24 anni!) e poi ultimata nel 1891, praticamente insieme ai (e pure prima dei…) più fortunati Don Juan (op.20) e Tod und Verklärung (op.24). Hans von Bülow trovava in questa musica (che pure, da fedele wagneriano, apprezzava per l’alto tasso di innovazione) delle autentiche mostruosità… E Hugo Wolf (non certo un adepto di Hanslick) arrivò a definirla raccapricciante! E persino il padre Franz continuò fino all’ultimo a consigliare al figlio severe revisioni della partitura, per depurarla da eccessive pesantezze…

Non parliamo poi dell’eterno problema legato alla musica-a-programma: la pertinenza dei suoni messi sulla carta dal compositore con i riferimenti extra-musicali (letterari, nella fattispecie) dell’opera. Le discussioni e le diatribe iniziarono addirittura prima che la musica fosse pubblicata ed eseguita! Il citato von Bülow fu persino responsabile del radicale mutamento del finale dell’opera rispetto a quanto previsto in origine (versione mai pubblicata) da Strauss: che contemplava, dopo il RE minore che costantemente identifica la personalità di Macbeth, di chiudere il poema sinfonico in RE maggiore, con la marcia trionfale di Macduff e compagni che – arrivano i nostri! – mettono fine al dispotismo e al despota.

No no no! questa sarebbe una gran baggianata! protestò l’ex-marito di Cosima Liszt-Wagner, e così il suo allievo Strauss si decise a lasciare nella partitura definitiva solo 6 (sei!) battute in RE maggiore evocanti i liberatori, per poi chiudere tornando sul protagonista del dramma, con 15 battute in RE minore.

E ancora oggi ci sono discussioni e diatribe fra i critici musicali riguardo l’individuazione delle strette relazioni fra la musica e il soggetto esterno. C’è discordanza, per dire, su dove collocare nella partitura – visto che Strauss non l’ha fatto - il momento dell’arrivo di Duncan, quello del suo assassinio o quello della morte dello stesso Macbeth. E se nella musica si debba anche individuare qualche riferimento a Banqo e figlioletti! E come interpretare le 6 battute in RE maggiore della coda, se evocanti Macduff o la fallacia della presa del potere di Macbeth…

E altre diversità di vedute si riscontrano addirittura nello stabilire i confini musicali fra esposizione dei temi, loro sviluppo e ricapitolazione, come vorrebbero i criteri della forma-sonata, sia pure eterodossamente applicata al caso in questione.

Chi desideri approfondire questi aspetti può leggere questo interessante saggio, dove si propone una possibile (e assolutamente plausibile, per carità) esegesi dell’opera con precisi riferimenti al plot shakespeare-iano. Ma resta il fatto che Strauss ha esplicitamente riportato in partitura soltanto due indicazioni didascaliche:

1. Battuta 6: la semplice dicitura Macbeth;

2. Battuta 64: la dicitura Lady Macbeth, corredata da 5 versi di Shakespeare (Atto I, Scena 5) dove si prefigura la seduttiva adulazione della Lady al marito, per spingerlo al crimine.

Per il resto, nessun’altra indicazione, niente. E da qui il proliferare di ipotesi le più diverse – plausibili o campate in aria - su come interpretare i vari passaggi musicali dell’opera. Ennesima conferma che la musica, da sola, non è in grado di narrare alcunchè di preciso; salvo, appunto, se stessa.

Ascoltandola possiamo certo convenire che la struttura del brano sia vicina alla forma-sonata, principalmente perché ci espone due temi ben scolpiti:

A=Macbeth, maschio e volitivo, caratterizzato da una vertiginosa salita di 12ma (il successo?) immediatamente seguita da un rovinoso precipitare di 7ma (la rovina?); tonalità RE minore;

B=Lady, femminile e insinuante, in FA#, ma poi canonicamente chiuso sul FA maggiore;

temi preceduti da una specie di motto (M) che tornerà mille volte a farsi udire, caratterizzato da un arpeggio (tonica-dominante) sulla scala di LA, chiuso da un accordo di quinta vuota.

Lo sviluppo e la ricapitolazione mostrano la grande abilità manipolatoria di Strauss e le sue indiscusse doti di orchestratore; tuttavia verrebbe da dar ragione al padre Franz riguardo all’eccessiva pesantezza di molti passaggi…

Del tutto gratuita poi la comparsa, nella coda, della marcetta con fanfara in RE maggiore, che non ha (escludendo gli arpeggi delle trombe) alcun riferimento musicale con tutto il resto; per cui bene fece Strauss a ridurla – obbedendo al navigato e smaliziato von Bülow - ad un moncherino di 6 battute:

E alla fine domandiamoci quindi perché Macbeth, cui pure Strauss attribuì un’importanza preminente nella sua produzione, sia da sempre il meno eseguito (ed oggettivamente il più ostico da afferrare) dei suoi Tondichtungen

Non sarà per caso perchè la musica in sé non eccita immediatamente il nostro interesse e le nostre emozioni, come accade ascoltando i vari DonJuan, Till, Zarathustra, Quixote, Heldenleben, Alpensinfonie… ? Certo, il riferimento letterario è un dramma dalle tinte oscure, abitato da due personaggi negativi e dalla psiche alterata… ma è pur vero che quello stesso soggetto ispirò a tale Verdi ben altra musica per le nostre orecchie!

Beh, Santonja e i ragazzi vanno encomiati in blocco per aver fatto il massimo per valorizzare questa difficile partitura: certo la sostanza di fondo non la si può cambiare, e a me personalmente questo lavoro lascia sempre parecchie perplessità, come qualcosa di troppo artefatto, di velleitario, magari spiegabile con l’impeto e il furore innovativo del giovane Strauss, ecco…       
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La compositrice-in-residence Silvia Colasanti torna protagonista in Auditorium con una nuova opera eseguita in prima assoluta: Time's Cruel Hand, tre sonetti di Shakespeare affidati alla voce del controtenore Alex Potter.

Nel primo sonetto della composizione (n°64) il solo pensiero che il tempo si porti via la persona amata mette la morte nell’anima. Il sonetto 19 - secondo dell’opera - sfida il tempo a fare il suo corso e a scolpire profonde rughe nella nostra pelle.

Il soggetto, come ben lascia intendere il titolo dell’opera (tratto dall’ultimo verso del Sonetto 60, che chiude la composizione) è precisamente l’incessante, inesorabile ed impietoso scorrere del tempo, la cui mano crudele non lascia scampo a nulla e nessuno. (Siamo ad Anassimandro e al destino che impone ad ogni creatura, per la sola colpa di esserne uscita, di ritornare all’apeiron.)

Ma all’Uomo resta sempre un’arma di difesa: l’ArteCome recitano gli ultimi tre versi:

Nulla resiste, di ciò che miete la sua falce crudele,
Ma incrollabile sia il mio verso, nel tempo che verrà,
a tua lode, e quelle mani crudeli sfiderà.

Ecco, la sfida dell’Arte all’inesorabile azione del tempo e alla conseguente ossessione umana per la morte: pare proprio il programma estetico di tale Richard Wagner!

E Colasanti interpreta in modo convincente lo spirito di questo Shakespeare, rivestendo i tre testi (come sempre opportunamente proiettati sugli schermi sovrastanti il palco, nella lingua originale e nella eruditissima traduzione di Quirino Principe, presente in sala) di note coinvolgenti e cariche di profonda compassione (nel senso etimologico del patire insieme).

Musicalmente i sonetti sembrano ricoperti di atonalità, anche se il primo mi pare avere un centro gravitazionale sul LA (minore) chiudendo sulla dominante MI e il secondo, più agitato, tenda a gravitare sul RE-SOL. Il terzo giurerei proprio che sia nella classica e pura tonalità di MI minore!

Pregevole l’interpretazione di Alex Potter, che ha messo la sua voce e la sua sensibilità al servizio di quest’opera che merita davvero l’accoglienza trionfale che il pubblico dell’Auditorium le ha riservato. Trionfo che ovviamente ha coinvolto la compositrice, salita sul palco a ringraziare tutti i musicisti che hanno così efficacemente illustrato il suo lavoro.
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Chiude la serata il Prokofiev di Romeo&Giulietta, di cui viene eseguito un mix delle tre Suite che il nativo del Donbass ricavò dalle musiche per l’omonimo balletto. [Qui un mio schematico sunto delle relazioni fra numeri del Balletto e Suite, all’interno di un commento ad una precedente esecuzione.]

Qui sono stati presentati i seguenti 9 numeri (indicati coni corrispondenti del balletto):

1. II-1.  Montecchi e Capuleti
2. II-2.  Giulietta fanciulla
3. III-1. Romeo 
4. III-2. Danza mattutina 
5. I-4.   Arrivo degli ospiti (Minuetto)
6. I-5.   Maschere
7. I-6.   Scena del balcone
8. II-7.  Funerale di Giulietta
9. I-7.   Morte di Tebaldo

Ribadisco una mia convinzione: è musica (tutto il balletto, non solo le Suite) che reputo fra la più straordinaria prodotta in tutto il ‘900. E anche l’esecuzione di ieri me lo ha confermato in pieno.

Quindi, onore e gloria per tutti: dal Direttore ai musicisti (ieri guidati da Dellingshausen) e – last but not least – al bardo di Stratford-upon-Avon! 

09 aprile, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 24

L’appuntamento di questa settimana vede sul podio dell’Auditorium il 37enne Maxime Pascal, tornato qui dopo due anni per dirigere un concerto di musiche del ’900 e dello... ‘000 (che gli vanno assai a genio, a giudicare dal suo repertorio).  Auditorium tornato allo scarso affollamento: non si può suonare ogni settimana la coppia Mozart-Beethoven... ma certo il programma odierno è, per così dire, per stomaci forti, ecco.

È Silvia Colasanti ad aprire la serata con un suo brano orchestrale del 2007, Cede pietati, dolor - Le anime di Medea, un titolo quanto mai attinente alla tragica attualità. [A proposito, al nostro super-Mario è scappato il classico lapsus freudiano draghiano, quando ci ha chiesto di scegliere fra la pace e il condizionatore acceso... mentre anche i sassi capiscono che - caso mai - è la guerra che rischia di spegnerlo, il nostro condizionatore, e insieme a lui il 40% della nostra economia, fabbricanti d’armi esclusi.]

Il brano, come lascia intuire il titolo, è ispirato da un verso della Medea di Seneca, parole pronunciate da lei pochi attimi prima di trucidare i figli: un ultimo spiraglio di umanità, prima dell’efferato delitto:  

Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l'odio, di là l'amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L'ira dà il bando alla pietà, la pietà all'ira. Rancore, cedi alla pietà.

I 12 minuti del brano evocano efficacemente lo stato d’animo disturbato di Medea: ondate di un mare in tempesta si abbattono sugli scogli, deboli spiragli di luce e di calma vengono regolarmente cancellati da nuovi uragani. Alle due estremità del brano pare di sentire un’atmosfera di DO, alla fine c’è una sospensione attorno alla dominante (MI-FA-SOL-SI); ma poi ecco lo schianto che fa presagire il peggio.

É un peccato che quest’opera si possa soltanto fruire live: non (mi) risulta esistano incisioni, a meno di qualche... pirata. Di sicuro anche qui il pubblico l’ha accolta con palese apprezzamento. 
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Segue poi un brano di rarissima esecuzione, il Concerto per violino e strumenti a fiato di Kurt Weill, compositore noto soprattutto per il suo sodalizio con il più celebrato Bertold Brecht. Ad interpretarlo è la 45enne Patricia Kopatchinskaja, dimostrazione vivente che dalla sottosviluppata Moldova non emigrano qui da noi esclusivamente premurose badanti, ma anche artisti di gran valore e di straordinaria umanità.

Il concerto è del 1924, catalogato quindi nella prima stagione della produzione di Weill, prevalentemente orientata allo strumentale, cui seguì quasi soltanto musica per il teatro (la cui perla è la Dreigroschenoper) e poi, in USA, per Broadway e Hollywood.

Oltre al violino solista e ai fiati sono in realtà previste in partitura anche alcune percussioni e pure i contrabbassi, i quali ultimi hanno funzione prevalente di supporto al ritmo, ma saltuariamente anche di protagonisti della melodia.

Come le - e anche più delle - altre composizioni strumentali del primo Weill, il Concerto si caratterizza per l’innovazione della forma (che pochissimo ha a che spartire con quella classica) e soprattutto per la spiccata atonalità, che ricorda il primo Schönberg e ha riflessi mahleriani e pure straussiani. Weill non abbracciò il nascente serialismo, anche se nel Concerto troviamo molte linee melodiche costituite da successioni di 9-10-11 note diverse della scala cromatica.

Un’interessante analisi delle caratteristiche del Concerto (e di altre tre composizioni strumentali di Weill immediatamente precedenti ad esso) si trova in questa tesi di laurea di 50 anni fa. Il primo movimento anzichè la classica forma-sonata presenta una struttura più vicina forse al rondò: A-B-C-B’-D-E-A’, e in esso compaiono non meno di 10 diversi temi! Il secondo movimento - più tonale - si articola in tre parti distinte: Notturno-Cadenza-Serenata. Il terzo si presenta con un saltarello e si spinge ancor più verso riferimenti tonali, chiudendo su una figura dominante-tonica di FA maggiore.      

La vulcanica Patricia si impegna al massimo (lo spartito tenuto sotto gli occhi testimonia che il brano non è proprio un suo... cavallo di battaglia, e direi comprensibilmente) ma la sua tecnica sopraffina non basta a fare di un onesto prodotto un capolavoro, ecco.

Comunque ci addolcisce la... pillola con un bis in combutta con il clarinetto del mitico Fausto Ghiazza
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Infine la Musica per archi, percussioni e celesta di Bela Bartók, del 1936, commissionata al compositore dal direttore d’orchestra e magnate rossocrociato Paul Sacher per la sua Orchestra da camera di Basilea.

Gli studiosi che hanno analizzato minuziosamente la tecnica compositiva di Bartók ci dicono come - accanto alle ricerche sulle musiche popolari del suo Paese, ma anche di Paesi balcanici e mediorientali (Turchia, ad esempio) - il compositore ungherese abbia anche impiegato tecniche derivate dalla matematica (che sappiamo fin dai greci avere con la musica legami indissolubili). Fra queste si cita ampiamente l’uso della Serie di Fibonacci e del concetto di Sezione aurea. Ed è proprio il brano eseguito qui che viene citato come esempio di tali impieghi, che vanno dall’uso di intervalli (per melodia e armonia) rappresentati esclusivamente da numeri presenti nella Serie del matematico Pisano (1-2-3-5-8 semitoni, cioè seconda minore, seconda, terza minore, quarta e sesta minore) alla suddivisione di un brano musicale in sezioni i cui numeri di battute siano parte della suddetta serie.

Testimonianza di ciò sarebbe (Ernö Lendvai, 1955) la struttura del primo movimento (Andante tranquillo) suddivisibile in sezioni che si estendono fra le battute 1-5-13-21-34-55-89, tutti numeri della serie incriminata. Questa osservazione è peraltro già stata mesa in dubbio (ad esempio da Gareth E. Roberts, 2012) in quanto affetta da inaccuratezze (banalmente: le battute sono 88 e non 89!) e forzature.

Ciò che invece è interessante di questo primo movimento è la sua forma peculiare: trattasi infatti di una Fuga caratterizzata da una successione di entrate delle diverse voci (inizialmente 5) che si muovono alternativamente sul circolo delle quinte: le entrate pari (2-4-6...) successive all’iniziale LA, passano a MI, poi a SI, quindi a FA#, a DO#, a LAb e infine a MIb (distante quindi un tritono dalla nota di partenza); quelle dispari (3-5-7...) si muovono invece verso il basso, quindi vanno al RE, poi al SOL, al DO, al FA, al SIb e infine al MIb, dove avviene il ricongiungimento con l’ultima delle voci ascendenti e si ha il climax del movimento. Da qui inizia il cammino inverso, caratterizzato dall’inversione dell’incipit del tema originale e del percorso sul circolo delle quinte: partendo dal MIb le entrate pari scenderanno a LAb, poi a DO#, quindi a FA#, SI, MI e finalmente a LA, mentre le dispari saliranno al SIb, FA, DO, SOL, RE per arrivare al LA su cui il movimento si chiude come si era aperto.

Come si vede, una struttura a dir poco ingegneristica (in realtà con qualche piccola... trasgressione alla regola che tralascio di citare) che, sommata all’intrinseca severità della forma (le barbare stranezze fiamminghe, copyright Camerata dei Bardi) può effettivamente rendere questo movimento assai ostico, per non dire indigeribile. Per curiosità, la celesta entra con i suoi liquidi arpeggi solo sulle battute 78-81.

Il secondo movimento è invece un Allegro in forma-sonata, uno scherzo indiavolato nel quale fa capolino anche un particolare strumento percussivo: il pianoforte. Come scrisse l’Autore: la tonalità di base è DO e quella secondaria è la dominante SOL (sacri canoni). Lo sviluppo ripresenta anche (in inverso) il tema della Fuga del primo movimento e poi anticipa quello del movimento conclusivo. La ripresa è in tempo (3/8) diverso da quello (2/4) dell’esposizione.

Segue poi il terzo movimento (Adagio, in FA#) a struttura ad arco, o palindrome (A-B-C+D-B-A). É introdotto da 5 battute dove è protagonista lo xilofono, che ribatte un FA naturale su un ritmo di... Fibonacci: 1-1-2-3-5-8-5-3-2-1-1! Ciascuna delle 4 sezioni riprende la corrispondente sezione del tema della Fuga del primo movimento. Celesta, arpa e pianoforte creano atmosfere notturne, quasi spettrali. Ancora gli acuti tocchi di FA naturale dello xilofono chiudono sul FA# tenuto delle viole e due sommessi colpi in DO dei timpani.

Il quarto movimento (Allegro molto, in LA) presenta non meno di 7 temi, strutturati in 4 sezioni, la penultima delle quali (prima del ritorno del tema principale) ripresenta, trasfigurato, il tema iniziale della Fuga. Un secondo pianoforte si aggiunge ad arricchire il volume di suono. Dopo alternanza di passaggi convulsi e più calmi, si chiude in un esilarante LA maggiore.

Pascal dispone pianoforte (solo uno) celesta e arpa proprio davanti a sè, come prescrive del resto la partitura; gli archi, che Bartók divide praticamente in due diverse orchestre, sono invece disposti in modo quasi tradizionale.

Esecuzione direi impeccabile, accolta da meritati applausi per Direttore e suonatori.  

25 marzo, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 22

Torna sul podio dell’Auditorium Jader Bignamini, per dirigere un concerto dall’impaginazione piuttosto insolita, che aveva come protagonista il violino di Domenico Nordio, per aprire e chiudere la serata. Poi all’ultimo momento l’impaginazione è tornata... classica, con il Concerto solistico in seconda posizione e la Sinfonia a chiudere: ne ha risentito un po’ l’equilibrio dei tempi delle due parti: 75’ la prima e 30’ la seconda...ma va bene anche così.
Il primo brano è una novità assoluta, commissionata dalla fondazione a Silvia Colasanti: Esercizi per non dire addio, per violino e orchestra. Qui c’è una specie di rimpatriata fra i tre protagonisti: Bignamini è Direttore-in-Residenza de laVerdi; Colasanti è Compositore-in-Residenza e Nordio è stato, dal 2017 al 2020 - prima che il Covid gli tirasse un brutto scherzo - Artista-in-Residenza.

Il contenuto del brano (poco più di un quarto d’ora) è descritto dalla stessa compositrice come uno sguardo al (suo) passato musicale a cui guardare senza rimpianti ma con piena consapevolezza:

...è un pezzo attorno al tema del distacco e della perdita, nel ricordo vivo di quello che si è amato e che si continua ad amare in modo sempre nuovo, un racconto in suoni dei tentativi che un’esistenza compie, lungo un cammino fatto di richiami interni e di memoria, per vivere il presente, guardando al futuro ma con la consapevolezza piena del nostro legame con il passato.

Questo brano della Colasanti conferma una tendenza chiaramente in atto nella musica contemporanea: back-to-basics! Non ho ovviamente sottomano la partitura, ma un orecchio appena appena allenato distingue chiaramente all’attacco un’atmosfera di MI minore! E tutto il brano si muove nel più classico diatonismo, compresi stilemi di stampo mahleriano (maggiore>minore). L’atmosfera, sempre composta e con vaghe increspature, pare virare al SIb. Il violino introduce qualche escursione espressionista, ma alla fine è ancora il SIb a farla da padrone, esalato dal solista su un sommesso tocco di (?) grancassa.

Insomma, un brano da riascoltare (speriamo venga presto messo in rete o su altri supporti) poichè merita davvero gli applausi che il pubblico dell’Auditorium ha riservato a compositrice e interpreti. 
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Torna subito il violino di Nordio - che si tiene davanti lo spartito elettronico - con Beethoven e il celeberrimo Concerto in Re maggiore op. 61Lui e Bignamini danno vita ad un’interpretazione coinvolgente, l’uno ad impreziosire la... razionalità beethoveniana con buone dosi di rubato e l’altro a supportarlo con sapiente dosaggio delle dinamiche. Successo calorosissimo premiato con due encore, scelti (casualmente?) quasi a rappresentare in musica la complessità della situazione politica che si vive in Europa orientale: il primo di Mieczyslaw Weinberg, compositore novecentesco polacco emigrato in Russia e amico di Shostakovich; il secondo dell’ukraino del Donbass Sergei Prokofiev!   
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Si chiude quindi con una Sinfonia (ma... piccola): la Nona di Dmitri Shostakovich. Così come la Quinta, udita qui non più tardi di una settimana fa, si potrebbe definire una Sinfonia (volutamente) insincera, anche questa è interpretabile come una sotterranea espressione di pessimismo, in aperto contrasto con il trionfalismo delle istituzioni sovietiche a fronte della conclusione vittoriosa della WWII. Interessante al proposito anche questa recente analisi dell’opera che sottolinea la presenza in essa di diffusi riferimenti a stilemi musicali ebraici, che Shostakovich avrebbe impiegato per esprimere le sue preoccupazioni sulla brutta piega che stava prendendo la situazione in URSS a dispetto dei trionfalismi di regime, legati all’eroica e vittoriosa resistenza al nazismo.    

Qui invece è il grande Lenny ad introdurcela con la sua proverbiale carica emotiva, dopodichè lo possiamo vedere all’opera, con i Wiener. Per alcune mie personali riflessioni rimando ad un mio scritto in proposito.

Davvero esaltante l’esecuzione di Bignamini e dei ragazzi, salutata da ovazioni per tutti. Mi limito a citare, come alfiere, Andrea Magnani e il suo fagotto magico.

Serata da incorniciare... ma dopo pochi minuti, ahinoi, la disfatta di Palermo!

27 maggio, 2021

laVerdi tutta rosa

Per il secondo concerto di questa mini-stagione estiva laVerdi stabilisce un record nell’applicazione delle quote-rosa: compositrice, interprete e direttrice!

Silvia Colasanti (ospite in-residence) presenta in prima assoluta una composizione commissionatale dalla Fondazione: La voce di Eschilo, per soprano e orchestra. Valentina Varriale ne è l’interprete e per l’occasione Karen Kamensek sale per la prima volta sul podio dell’Auditorium (rimpiazzando una sua compatriota yankee, Alondra de la Parra, originariamente in locandina).   

L’opera è stata composta nell’ultimo anno sotto l’inevitabile influsso della pandemia che ha colpito il mondo seminando sciagure e morte. Ecco perchè il sottotitolo è l’ultimo verso delle Coefore, nella libera ma poeticissima traduzione di Pier Paolo Pasolini: Dove si disperde, infine spento, il Canto della Morte?

I tre frammenti di Eschilo - tratti da parti esclusivamente affidate al coro - sono proposti dalla voce (in lingua greco-antica) e supportati con grande discrezione dall’orchestra, che anima un tappeto sonoro piuttosto aspro, in omaggio al pessimismo che emana dal testo.

da Primo stasimo, versi iniziali. (La Natura scatena la sua potenza devastatrice)
Infinite cose orrende, nere visioni, 
la Terra crea...
Il mare partorisce mostri mortali...
Fra la terra e il cielo
guizzano scie di fuoco:
e tutto ciò che batte le ali
o striscia al suolo
puo testimoniare la rabbia
del vento in tempesta.

da Esodo(Meditazione sul dolore)
Nessuno di noi può passare una vita
di dolore senza portarne il segno:
è appena finita un’ansia
che un’altra incomincia.

da Esodo, versi finali. (Dilaniante rapporto con la morte) 
E ora per la terza volta ci travolge il vento…
Ma è speranza o disperazione?
Dove si dirige?
Dove si disperde, infine spento,
il canto della Morte?

I 15 minuti scarsi del brano poggiano - in omaggio a Eschilo e alla musica greca - sulle scale in modo eolio e dorico (diciamo, per gli amici... LA minore e RE minore) che si alternano in una struttura tripartita (corrispondente ai tre frammenti testuali) A-B-A. Nelle due sezioni esterne la voce insiste particolarmente sul MI, toccando anche il DO acuto. L’incedere è lento e lamentoso, come si addice al testo, e ricorda vagamente lo Sprechgesang. Curiosamente il brano chiude con la voce sola che si perde sulla sensibile melodica, SOL#...

Caloroso successo per la Colasanti, salita sul podio a raccogliere meritati applausi, per la Varriale, pienamente immedesimatasi nella parte, e per la Kamensek che ha diretto con gesto preciso e sicuro.    

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L’Ouverture della Zauberflöte ci riporta all’utopismo massonico nella capacità dell’Uomo di progredire sulla via della conoscenza e della saggezza (cioè l'opposto del percorso di tale Salvini...)

Ma in fatto di quote-rosa c’è da dire che la massoneria non gode propriamente di buona fama, se proprio il sommo Sarastro così si esprime, rivolto a Pamina, a proposito del ruolo femminile nella società: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria.

Nel ginepraio della cabala massonica sappiamo che il magico numero 3 rappresenta l’Uomo (ma non l’essere umano, no, proprio il maschio, il sole) mentre alla donna è riservato - un gradino sotto - il numero 2. Il numero 5 rappresenterebbe allora l’unione fra maschio e femmina, ovvero la femmina fecondata dal maschio!

Che c’entra tutto ciò con Mozart? Osserviamo proprio l’Ouverture: che è in MIb maggiore, tonalità quanto mai simbolica, musicalmente e... cabalisticamente (per via dei 3 bemolli); tonalità che chiuderà in gloria anche l’opera. Mozart, che la compose proprio a ridosso della prima (venerdi 30 settembre 1791) la apre con il celebre Dreimalige Akkord, i tre accordi che nel second’atto si udiranno ancora ripetutamente, nel mondo massonico di Sarastro. Quindi, esotericamente, sempre il magico 3: 3 accordi di 3 note ciascuno (tre triadi) con 3 bemolli in chiave.

Però attenzione, il triplo accordo si ripete alla fine dell’esposizione, prima dello sviluppo del tema principale, ma questa volta sul SIb maggiore (2 bemolli, la femmina!) Ed è in questa tonalità dominante, e non in MIb, che verrà ripetuto nell’opera. Perchè? Vuoi dire che Mozart si prendeva gioco di Sarastro e del magico numero 3?

Beh, osserviamo allora più da vicino le due ricorrenze del Dreimalige Akkord nell’Ouverture, partendo dalla seconda, che ha una struttura assai regolare: 6 battute suddivise in tre sezioni di 2, ciascuna delle quali ospita una delle tre esposizioni della triade (fondamentale, primo e secondo rivolto: SIb-RE-FA / RE-FA-SIb / FA-SIb-RE) con scansione orizzontale di tre note: semicroma-minima-minima. Quindi tutti multipli di 3: 3 triadi, 6 battute, 9 note... ma uno dei multipli è 2 (la donna!) Come detto, a parte la diversa strumentazione, questa forma assai regolare tornerà nel corso dell’opera.

Invece l’attacco dell’Ouverture in MIb maggiore è piuttosto sghembo, oltre che più sbrigativo: 3 sole battute che recano i tre accordi. Il primo su una sola minima, il secondo e il terzo su semicroma-minima, quindi in tutto una scansione di 5 note, il 3+2 che tira i ballo la donna! Ma in più, il secondo accordo non è il primo rivolto di MIb maggiore (SOL-SIb-MIb) ma - innalzando il SIb di un tono intero - il secondo rivolto di DO minore (SOL-DO-MIb) il che abbruna provvisoriamente l’ineffabile atmosfera.

Insomma, forse sarà il caso di rivedere certe teorie (o dietrologie) che sono nate attorno ai riferimenti extramusicali dell’opera. Ma alla fine l’importante è che la simpatica e cicciottella Karen abbia guidato, anzi trascinato i ragazzi ad una prestazione maiuscola.

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Infine la Settima di Antonín Dvořák: la seconda, stando al primitivo catalogo predisposto dallo stesso autore, che considerava evidentemente puri esercizi accademici le prime 5 (poi la 5 originale fu recuperata come 1, per poi rinumerare le future 8 e 9 come 4 e 5... insomma un divertente guazzabuglio, prima del reintegro delle sorellastre nel novero cabalistico delle nove). Opera composta nel 1884 su commissione della londinese Philharmonic Society, ma anche sull’onda del rinnovato interesse del pubblico per la sinfonia, promosso dalle ultime imprese del grande Johannes Brahms.

Che il buon ceco non esitava a citare nelle sue composizioni, compresa questa, dove il secondo tema del primo movimento è un chiaro tributo all’amico-sponsor, di cui è copiato quasi alla lettera il tema dell’Andante del Secondo Concerto per pianoforte; e anche nel secondo movimento (Poco Adagio) l’assolo del corno (discesa mediante-tonica-dominante) mostra la sua chiara ascendenza brahmsiana (dall’Adagio del concerto per violino); e infine Brahms fa capolino anche nell’Allegro conclusivo, in quell’inciso giambico chiaramente mutuato dal primo movimento della Sinfonia in DO minore. (Ma Dvořák non dimenticava nemmeno Beethoven, a giudicare da una cadenza dello Scherzo, che ricorda assai il tracotante tema dell’Egmont...  

La tonalità di RE minore, una certa cupezza di atmosfere ed anche un primitivo sottotitolo (poi rimosso dal compositore) hanno portato taluni a definirla come Tragica, ma si tratta di definizioni abbastanza arbitrarie (come, per dire, quella affibbiata alla sesta di Mahler). In realtà Dvořák sembra qui voler strafare, forse per stupire gli albionici che lo avevano onorato della commissione... Poi, certo, sentiamo immancabili tracce di folklore boemo, ma qua e là si sconfina in velleitarismi e retorica.

La Kamensek (che ha ripreso la bacchetta abbandonata per Mozart) dirige con gesto ampio ed appariscente che mi ha un po’ ricordato la Xian... L’Orchestra ha risposto alla grande e alle uscite finali ha imposto un applauso ritmato per lei, segno di un’intesa subito creatasi con questa 50enne di Chicago.

14 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°16


Ben due Requiem nel programma del concerto di questa settimana, diretto dal brillante 34enne Maxime Pascal.

Dapprima il K626 del Teofilo, di cui viene eseguita più o meno la prima metà, cioè fino alla Sequenza. È noto come quest’opera, l’ultima fatica di Mozart prima della prematura scomparsa, sia rimasta non solo incompleta, ma anche assai bistrattata da coloro - la moglie Constanze in primis - che per ragioni poco artistiche, ma assai prosaiche, decisero a tutti i costi di completarla in qualche modo per poi contrabbandarla come farina del sacco del de-cuius, onde incassare i proventi della commissione dal Conte Franz Von Walsegg.

Solo nella seconda metà del ‘900 i musicologi sono riusciti, e nemmeno in modo definitivo, a districarsi nel ginepraio di documenti, testimonianze e leggende metropolitane cresciute attorno all’opera. Oggi possiamo almeno contare su qualche solida base di conoscenza, grazie all’impegno profuso da ormai 140 anni dalla Fondazione del Mozarteum. Che negli ultimi tempi ha meritoriamente messo una gran mole di informazioni e documenti a disposizione del pubblico attraverso il sito DME (Digitale Mozart Edition) e in particolare ha reso universalmente fruibili tutte le partiture (in edizione critica) del Teofilo.

Lo schema sottostante - derivato dai documenti della DME - sintetizza al massimo grado lo stato dell’arte delle conoscenze che possediamo sui contenuti musicali del Requiem:


Come si vede, di Mozart si sono ritrovati i fogli manoscritti (purtroppo inquinati da mani diverse, forse Eybler) delle prime quattro parti, mentre nulla è stato ritrovato delle quattro restanti. Inoltre del Lacrimosa esistono solo le prime 8 misure (fino a Homo reus). A ciò vanno aggiunti due schizzi isolati: 4 battute del Rex tremendae e 16 battute di un Amen fugato, presumibilmente a chiudere la Sequenz. Il suo allievo Joseph Eybler si era per primo cimentato nell’impresa di completare il lavoro, ma aveva abbandonato il tentativo dopo aver strumentato la Sequenz, salvo il Lacrimosa, cui si limitò ad aggiungere due battute. Constanze allora appaltò il completamento ad un altro allievo del marito, Franz Xäver Süssmayr, che aveva avuto modo di intrattenersi sul Requiem con lo stesso Mozart. Costui mise a punto una versione completa dell’opera, impiegando, rielaborando e completando quanto già composto o almeno abbozzato da Mozart (incluse le aggiunte di Eybler) e soprattutto componendo di suo pugno il resto, dal Lacrimosa (battute successive alla 8) e poi dal Sanctus in avanti (per la verità il Communio riprende ampi passi mozartiani di Introitus e Kyrie). È la sua versione quella che da sempre ha portato il Requiem alle orecchie del pubblico.

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le attività di studio e ricerca, che hanno portato alla predisposizione di nuove versioni dell’opera, fra le quali sono da ricordare quella di Clemens Kemme (2009) e la più recente (2013) di Benjamin Gunnar Cohrs.  
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Nel concerto di questi giorni in Auditorium viene invece eseguita, insieme all’Introitus e al Kyrie, la Sequenz di Eybler, che si chiude sul torso di 8 battute del Lacrimosa, cui l’allievo, come detto, aggiunse timidamente solo 2 battute del soprano, per poi rinunciare a proseguire.

È opinione abbastanza diffusa fra i musicologi che questa versione di Eybler sia esteticamente superiore a quella di Süssmayr. Come esempio pratico si confronti l’inizio del Dies Irae: di seguito sono riportate le prime 9 misure come lasciate da Mozart e le corrispondenti completate da Eybler e Süssmayr:


Mozart ci lasciò la parte vocale, il basso e un abbozzo della parte degli archi (violini primi); proprio nulla di fiati e timpani.


Eybler completa la parte degli archi (violini II e viole) e aggiunge i fiati (corno di bassetto, fagotto e clarino) e i timpani. Si noti in particolare la leggerezza della strumentazione dei fiati.


Süssmayr sembra accogliere alcune aggiunte di Eybler, ma appesantendole (i fiati hanno ad esempio note più lunghe) ma soprattutto aggiunge (qui e in quasi tutti gli altri numeri) i tre tromboni, che imprimono al brano un’impronta piuttosto greve. Il grande Bruno Walter stigmatizzava questa scelta, eccessiva a suo parere, e non la rispettava. Sebbene i tromboni siano tipici strumenti da chiesa, Mozart ne indica esplicitamente ed appropriatamente la presenza solo nel Tuba mirum (trombone tenore). Per il resto li indica nell’Introitus (dove peraltro sono notati soltanto - colla parte - accanto alle voci di Alto, Tenore e Basso) e gli stessi editori della DME non sono affatto certi che quell’indicazione sia necessariamente da estendere (come fa Süssmayr) al resto della composizione. 

Di grande interesse (per me, almeno) è questa esecuzione basata strettamente sul manoscritto originale (con l’aggiunta in coda dello schizzo dell’Amen): perchè ci porta all’orecchio l’intima essenza dell’opera, il suo cuore profondo, la sua metafisica bellezza. 
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Lo smilzo Pascal dirige senza bacchetta, con ampi gesti delle sue lunghe braccia, e ondeggiando mollemente sulle sue leve da fenicottero. Gli attacchi sono netti, dati tendendo le mani come fendenti indirizzati verso solisti, coro e strumentisti.

E tutti rispondono al meglio: dalle voci ben impostate dei quattro solisti: soprano Minji Kim; alto Solgerd Isalv; tenore Massimo Lombardi e basso Daniele Caputo; a quelle del coro guidato per l’occasione da José Antonio Sainz Alfaro; all’orchestra, doverosamente leggera in quantità (un solo trombone per doppiare le voci nell’Introitus e per le bellissime frasi del Tuba Mirum) e in trasparenza di suono.

Dopo l’ultimo verso dei soprani (Huic ergo parce deus) e anche l’unico ad essere musicato da Eybler, Pascal ottiene un minuto di raccoglimento, prima di abbassare le braccia per meritarsi l’applauso del pubblico.
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Il secondo Requiem è del 2017! Fu eseguito, domenica 2 luglio, al Festival di Spoleto, che lo aveva commissionato a Silvia Colasanti in ricordo del terribile terremoto che un anno prima aveva sconvolto e distrutto l’Italia centrale.

Si tratta propriamente di un Oratorio, dove al Coro si unisce una voce recitante accompagnata da un bandoneon. La voce (che espone un testo italiano) si alterna alle strofe del Requiem latino, cantate dal coro e dal contralto solista.

Più che un Requiem, è la contestazione del Requiem, così come la tradizione chiesastica ce lo ha tramandato: la voce recitante non per nulla è La dubitante! Che sfida il Coro di chi non dubita. Accompagnandosi al bandoneon, il Respiro della terra. E il contralto, che canta dal Quid sum miser al Cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis è il Cuore ridotto in cenere...

Il carattere di laica accettazione della morte, di aspirazione al perdono e al ritorno alla natura eterna (un po’ l’àpeiron degli antichi filosofi greci) è sintetizzato dal sottotitolo dell’opera: Stringeranno nei pugni una cometa, verso del visionario poeta gallese Dylan Thomas, non a caso divenuto famoso per il suo approccio laico e quasi ottimistico al mistero della morte.

In rete si può ascoltare unincisione fatta a Bolzano, e anche qui abbiamo in scena alcuni dei protagonisti della prima esecuzione: il Direttore Pascal, l’autrice dei testi italiani e voce recitante, Mariangela Gualtieri, e il contralto solista, Monica Bacelli. A loro si aggiungono, oltre all’Orchestra, Davide Vendramin al bandoneon e il Coro sinfonico de laVerdi, ancora guidato da José Antonio Sainz Alfaro.  
  
L’opera inizia con un confuso chiacchiericcio, come di qualcuno che recita il Dies Irae in una giornata di pioggia. Poi inizia il canto del Coro di chi non dubita, in un’atmosfera oscillante fra SOL minore e la relativa SIb.

Ora La dubitante, Mariangela Gualtieri, con la sua voce secca e piglio deciso, si rivolge Alle piccole e grandi ombre, accompagnata da suoni dimessi del violoncello (di Tobia Scarpolini) per chiedere per loro non già la pace eterna, ma una vita perenne, qui, in mezzo a noi e alla natura che ci circonda.

Torna il Coro di chi non dubita con il tremendo Dies Irae: qui non c’è musica, ma caos, rumore; le voci espongono i versi recto tono, poi con rapide discese e con accenti quasi di terrore. Si fa largo in orchestra un MI isolato, sul quale le voci intonano stentoreamente il Tuba mirum, poi in aspra dissonanza con un FA, finchè tutto crolla verso il silenzio.

Ancora La dubitante, interrotta da sordi suoni dell’orchestra, che non sa spiegarsi perchè quel Dio tanto invocato resti zitto di fronte a macerie, dolore e pianto: un Dio duro, troppo duro...

Riprende il Coro di chi non dubita con Mors stupebit: l’atmosfera è caratterizzata da un tappeto sonoro aspro (proprio da... stridor di denti) sul quale le voci innestano ora sequenze ascendenti, ora improvvise discese dall’acuto, per sottolineare la tremenda severità del giudizio finale.

Riecco La dubitante, adesso nel totale silenzio di voci e orchestra, manifestare il suo stupore: per quel Giudice supremo che rimane in silenzio di fronte a misfatti compiuti dall’uomo, ma spesso mostra inspiegabilmente la sua mano feroce.

É arrivato il momento del Cuore ridotto in cenere. Ed entra sul palco Monica Bacelli a cantare il Quid sum miser, su una sorta di Sprechgesang. Il Rex tremendae majestatis è invece declamato. Più liriche le due strofe del Recordare e del Quaerens. Dopo uno scabro Juste Judex ecco uno squarcio di grande respiro melodrammatico, una specie di arioso che accompagna le strofe Ingemisco, Qui Mariam e Preces meae. Un ultimo scatto violento (Confutatis maledictis) e poi la chiusa (Oro supplex) di un grande lirismo, un abbandono - in LA minore - nelle mani di Dio (Gere curam mei finis).  

Ora l’orchestra prepara una specie di soffice tappeto sonoro (su un vago RE minore) per supportare una nuova esternazione della Dubitante: che invoca un Dio di amore, che arrivi a portare all’uomo la comprensione e la compassione, la consapevolezza dell’unità dell’Universo, il capire l’insetto e la grandine, l’acqua e il filo d’erba.  

Il Coro di chi non dubita espone ora il Lacrimosa: è la parte femminile a cantare la voce principale, contrappuntata da quella maschile. È un canto appropriatamente lamentoso (vagamente in RE minore) con motivi degradanti, appunto lacrimevoli, che sfocia alla fine su un LA acuto, per l’invocazione alla pietà divina.

Ultimo intervento della Dubitante, accompagnata da discreti e sporadici interventi del bandoneon di Davide Vendramin. È una lacerante confessione di chi riconosce tutte le sue colpe, piccole e grandi, egoismo, narcisismo, individuaismo... ma una su tutte: la disattenzione. Il MI del bandoneon chiude questa accorata esternazione e si prepara ad accompagnare l’ultima parte del Requiem:

il Lux Aeterna del Coro di chi non dubita. Un lungo viaggio in LA minore verso la luce che risplende sul riposo eterno dell’uomo. Un ultimo saluto del bandoneon, poi l’Amen del Coro, in LA maggiore! Lo stesso LA dell’ultimo rintocco di campana.

Qui Pascal e tutto il coro rimangono a braccia alzate al cielo e impiegano, per abbassarle, non meno di 120 secondi, in un religioso silenzio carico di tensione. Poi sei minuti ininterrotti di applausi, dapprima sobri e contenuti, quindi sempre più forti e accompagnati da ovazioni per tutti, compresa l’Autrice, salita sul palco ad abbracciare gli altri protagonisti di questo indimenticabile appuntamento.