XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta ranzani. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ranzani. Mostra tutti i post

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

04 marzo, 2013

C’è del comico anche a Verona


Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di regno, che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo Stefano Ranzani.

La seconda opera composta da Verdi (dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva sorte.

Insomma, un libretto a prima vista alquanto strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800 e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti. Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con qualcosa di giocoso preferiva di gran lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.

Ma il povero Verdi, che pur si sentiva cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse a comporre questo Finto Stanislao.    

Ergo nessuna meraviglia se il 5 settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a cancellare ogni recita successiva.   

Eppure… eppure, se analizziamo le cose con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani. Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.

E sono propriamente i due protagonisti: lui, Belfiore, il finto Stanislao; e lei, la Marchesa del Poggio, sua amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità dei due vecchi intrallazzatori (il Barone e il Tesoriere) intenti soltanto a perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e reazionaria.

Belfiore e la Marchesa evidentemente rappresentano forze emergenti dall’establishment incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della società. Ecco: due individui con una visione progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.

Anche la figura di Giulietta (una ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.     

Sul piano musicale, di certo siamo di fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni (fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di metà ‘800.    

Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.      

Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano. E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.

Fra le voci si è distinto il protagonista, Filippo Polinelli, per ottima prestazione vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.

Non fosse per il timbro di voce tendente al metallico, la carioca Ludmilla Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.

Brillanti i due buffi: Filippo Fontana (Tesoriere) e soprattutto Simon Lim (il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente completato il cast.

Note di merito anche per signori e signore del coro di Armando Tasso e per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.

Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui letteralmente calamitate e condotte per mano.

Calorosissimo e per me meritatissimo successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta che avevano accolto quasi tutti i numeri musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata. 

25 maggio, 2011

Cio-cio-san (per i piccoli) al Carlo Felice



Tema: Scrivete le vostre impressioni sullo spettacolo cui avete assistito ieri pomeriggio al Teatro di Genova.

Svolgimento (scolaro di 1a media):

Ero molto curioso di entrare nel teatro, perché finora ero solo andato al cinema colla mamma, oppure allo stadio col papà. Mi è piaciuto abbastanza, le poltrone sono comode, meglio di quelle di Marassi, però meno che al cinema. Purtroppo bisogna stare fermi e zitti e non si può mangiare pop-corn o patatine fritte.

All'inizio del primo tempo si è visto un giapponese vestito da donna che faceva vedere una casa vuota ad un tizio in divisa bianca, che poi si è messo a cantare sulla musica che si sente quando un americano vince la medaglia d'oro alle olimpiadi.

Poi è arrivata un sacco di gente per una specie di festa, che ho scoperto dalle scritte sul tabellone che era un matrimonio fra il tizio in divisa e una giapponesina che ha detto di avere solo 15 anni (ma a me sembrava più vecchia della mia professoressa). A me sembra anche una bella abitudine questa di sposarsi direttamente in casa, senza tutte quelle noiose cerimonie in chiesa.

Ad un certo punto della festa sono arrivati alcuni tizi vestiti di arancione e con le teste rapate, che hanno cominciato a fare un gran casino. A me il mio papà mi ha sempre detto che gli arancioni sono gente buona e non-violenta, ma forse questi erano degli infiltrati.

Quando il tizio in divisa bianca è restato solo con la giapponesina e si sono baciati c'è stato un gran casino, tutti a gridare come quando al cinema Richard Ghier si fa una bella gnocca. Ma l'orchestra ha continuato a suonare ancora per un bel po', fino alla fine del primo tempo, quando abbiamo potuto finalmente uscire per bere una coca.

Il secondo tempo è stato molto più noioso, con la giapponesina che consolava la sua schiava, e poi ha cantato una canzone che canta ogni tanto anche la mia mamma quando fa il bagno. Però a casa nostra nessuno le fa tutti quegli applausi.

Poi è arrivato un altro tizio seduto su una sedia portata da 4 schiavi, come il Papa che ho visto una volta alla televisione. Ma la giapponesina lo ha cacciato via perché voleva aspettare il tizio in divisa. A questo punto la gente ha applaudito (forse lo fanno sempre quando l'orchestra fa un gran casino) e così noi ci siamo alzati per tornare fuori ancora a bere qualcosa, ma il maestro ha ripreso subito a suonare e abbiamo dovuto stare di nuovo fermi e zitti per più di mezz'ora.

Il tizio in divisa è tornato davvero, stavolta però era vestito di nero ed era insieme a una tipa come la Canalis ma bionda, tutta il contrario della giapponesina. Però il tizio è scappato via per la vergogna, e così la giapponesina si è uccisa col coltello e ha lasciato il bambino da solo a giocare con una bandierina. Ma tutti abbiamo applaudito lo stesso.

Penso che chiederò alla mamma di portarmi ancora a vedere un'opera, però dove alla fine ci sia una lotta con sciabole spaziali, o almeno una bella sparatoria.


Ecco, speriamo proprio che questo non sia il livello medio delle reazioni degli scolaretti (di elementari e medie) che ieri pomeriggio hanno preso d'assalto, a centinaia e centinaia, il Carlo Felice, per questo specialissimo saggio di fine anno che era la quarta rappresentazione della Butterfly.

A parte le battute, non c'è che da lodare questa iniziativa di avvicinare i giovanissimi alla musica e all'opera, iniziativa che fa il paio con quella triestina, opportunamente segnalataci da Amfortas. E che va ovviamente integrata con altre, affinchè non cada nel vuoto, riducendosi ad un'allegra scampagnata fuori programma.

Che il teatro genovese sia risorto dalle ceneri è un dato di fatto, anche se all'orizzonte non mancano grossi e minacciosi nuvoloni… Tuttavia, dopo il successo di Pagliacci, anche questa Butterfly sta riscuotendo unanimi consensi e ciò lascia almeno aperta la speranza in un ritorno, diciamo così, alla normalità (quella sana però, mica quella delle ruberie e degli approfittatori).

Nel complesso una dignitosissima performance, di tutto il cast, su cui è spiccata Hui He, che ha confermato di essere un'ottima cantante, ma anche una sopraffina attrice. Max Pisapia al ballottaggio (smile!) con Mario Bolognesi; Elena Cassian e George Petean eletti direttamente. Tutti gli altri (vedi locandina) e il coro di Marletta all'altezza dei compiti.

Ranzani ha tenuto bene in pugno lo spettacolo, calamitando continuamente su di sé lo sguardo degli interpreti (cosa… interpretabile in vario modo); è comunque stato sempre attento a non coprirli, evitando pesantezze e limitando i fracassi al minimo consentito. Lodevole la decisione – forse non gradita al giovane pubblico - di non interrompere fra la prima e la seconda parte del secondo atto.

La regia, ripresa dal Montresor del '95 da Ignacio Garcia è di quelle che dimostrano come il miglior modo per far giustizia all'originale sia di… presentare l'originale, e non sue cervellotiche interpretazioni, che spesso degenerano in stravolgimenti. Ecco, ieri di dissacrante – ma qual ventata di aria fresca! – c'era solo la presenza dei ragazzini in platea.

Tirando le somme, un pomeriggio più che piacevole.
--