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18 agosto, 2024

ROF-2024-live: Ermione.

Ho riservato la mia prima presenza al ROF45 a quella che (non solo io) considero l’opera più innovatrice e moderna di Rossini: Ermione.

Il mio interesse era anche solleticato dalla presenza sul podio di Michele Mariotti, che ebbi occasione di vedere ed ascoltare proprio al suo battesimo al ROF, nell’ormai lontano 2010, con Sigismondo (prima ed ultima, al momento, rappresentazione) e con lo Stabat Mater. Da allora il direttore pesarese che, come molti suoi pari, del resto, ha avuto molto dalla sorte (essere figlio del fondatore-sovrintendente del Festival ed essere quindi cresciuto a pane-e-Rossini) di strada ne ha fatta assai ed oggi eccelle non solo in Rossini ma in una vasta area dell’immenso repertorio del teatro musicale.

E dico subito che, a conferma della buona impressione generale lasciatami dall’ascolto radiofonico della prima, anche questa terza recita ha per me meritato un voto ampiamente positivo.

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Ermione (tratto da Tottola dall’Andromaque di Racine, a sua volta liberamente derivata da quella di Euripide) è un soggetto tutto incentrato sulla psicologia (-schizofrenia?) dei quattro protagonisti (tutti, Andromaca esclusa, della generazione successiva a quella dei belligeranti di Troia) e sull’incredibile catena di rapporti conflittual-sentimentali che intercorrono fra gli stessi:

- Oreste (che ha appena vendicato il padre Agamennone, ammazzando sua madre Clitemnestra e l’amante di lei, il cornificatore Egisto) è invaghito della figlia di Menelao e della fedifraga Elena, la spartana Ermione;

- costei è patologicamente innamorata di Pirro (figlio del leggendario Pelide);

- il quale si è trovato in casa, come bottino di guerra, la povera Andromaca (più il figlioletto di lei Astianatte, che Racine e Tottola hanno tutto l’interesse a mantenere in vita, invece che credere alla sua morte per scaravento giù dalle mura troiane, da parte del futuro Odisseo) e se ne innamora all’istante, dimenticando una futile promessa fatta ad Ermione;

- ma Andromaca (unico personaggio con la testa sulle spalle, va subito detto, in mezzo a quei tre scavezzacollo figli/e di papà…) resta inflessibilmente fedele alla memoria del marito Ettore, fatto secco a Troia proprio dal padre del suo attuale spasimante!

Insomma, un inestricabile groviglio di sentimenti: l’infatuazione selvaggia, di Oreste per Ermione, di Ermione per Pirro e di Pirro per Andromaca, tutti amori impossibili e inquinati da cieca gelosia, che inevitabilmente potranno trovare sbocco solo in totale tragedia.      

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Mamma mia, come si vede, un soggetto di per sé fuori dall’ordinario, dal quale uno come il 27enne Rossini, all’apice del furore creativo degli anni napoletani, non poteva non rimanere soggiogato al punto da riservargli un trattamento adeguato, quindi fuori dall’ordinario

A cominciare già dall’Ouverture, che si apre in atmosfera cupa, dolente e poi agitata, presto interrotta dall’insolito ingresso del coro (!) dei deportati troiani; poi seguita da un motivo leggero e spiritoso e dal proverbiale crescendo, che Rossini si auto-impresterà in ben tre Ouverture di opere immediatamente successive (Eduardo, Bianca e Matilde).

L’opera inizia poi con la presentazione dei quattro personaggi principali e delle rispettive menti disturbate. E si capisce quindi come la musica, per seguirne questi psicologici labirinti, ne sia inevitabilmente contagiata, discostandosi dagli stilemi usuali. Al confronto anche le innovazioni dell’ultimo Gluck o di Cherubini sembrano solo dei timidi tentativi.

Dapprima si presenta Andromaca, che trepida per la sorte del figlio, ma contemporaneamente apprende delle profferte di amore da parte di Pirro, disposto per di più ad adottare Astianatte qual figlio ed erede al trono! Ma la sua coscienza le impedisce di tradire la fedeltà alla memoria del consorte, Ettore. Da qui il suo stato di prostrazione.

Ecco poi Ermione, circondata da premurose ancelle in un’atmosfera apparentemente idilliaca. Ma subito rotta dal cruccio che attanaglia la principessa spartana: Pirro la sta tradendo per Andromaca!  

Ed ecco appunto arrivare Pirro, in cerca della troiana. Ermione lo affronta a viso aperto, ma il Re si vanta della sua autorità e della sua decisione, pur con l’animo oppresso dall’incertezza riguardo le intenzioni di Andromaca, che non pare proprio disposta a… dargliela!

Ora tocca ad Oreste entrare in scena ed esporre subito la lancinante contraddizione che ne caratterizza la personalità: il suo amore non corrisposto per Ermione; e l’ingrato compito che lo attende, che ha risvolti per lui esiziali: convincere Pirro a dimenticare Andromaca, giustiziarne il figlio e quindi inducendolo a tornare da Ermione, col che lui perderebbe per sempre la sua amata!

Inizia adesso l’azione vera e propria. Pirro convoca Oreste e i greci per ascoltarne le ragioni, presenti anche Ermione e Andromaca. Dopo che Oreste lo ha invitato a liberarsi dei troiani, in particolare di Astianatte, Pirro, con tono arrogante, dichiara apertamente le sue determinazioni: impalmare Andromaca e porre in futuro Astianatte sul trono, ignorando bellamente il mortale rischio che ciò farebbe correre alla Grecia.

Ermione si dispera, mentre Oreste, ovviamente, spera (mors tua… etc,) Ma Andromaca ha fatto sapere a Pirro di non accettare le sue profferte. Al che il Re non esita a ricattarla, ipocritamente offrendo, per ingelosirla, la sua mano ad Ermione, e contemporaneamente gettando Astianatte, perché venga giustiziato, nelle mani di Oreste, che quindi raggiungerebbe il fine politico, ma a spese di quello sentimentale. Un mirabile concertato generale ci propone le quattro diverse attitudini dei protagonisti rispetto a questa drammatica quanto insostenibile situazione.   

Andromaca allora non vede altra via d’uscita che quella - poi scopiazzata in più di un melodramma - di fingere di promettersi a Pirro per averne in cambio il giuramento di salvar la vita al figlio, per poi suicidarsi prima di concedersi a quell’invasato. È in quest’atmosfera carica di tensione e incertezza che si chiude – con un finale concertato -  il primo atto.

Il secondo si apre con Pirro che esulta, informato della decisione di Andromaca di accettare le sue profferte. E proprio i due sono protagonisti di un incontro dove la gioia del Re, che finalmente vede coronarsi il suo sogno, si scontra con il cruccio di Andromaca, ormai preparata all’estremo sacrificio pur di salvare il figlioletto.

Dopo un fugace incontro-scontro di Ermione con la povera Andromaca, oggetto del disprezzo della prima, che ne ignora il tremendo stato di necessità, eccoci arrivati alla gran scena di Ermione. Davvero il compendio di tutte le straordinarie novità introdotte da Rossini: si va dalla vana speranza di un ripensamento di Pirro, alla constatazione del crollo di ogni prospettiva futura, al risentimento contro l’uomo che l’ha tradita e la donna che è stata causa del tradimento! 

Ora ci si avvicina allo scioglimento del dramma. E ci pensa Ermione ad… accontentare tutti: consigliata dalla fida Cleone, che le suggerisce di usare la sua influenza su Oreste - uno che per lei sarebbe disposto a tutto, per amore e per… esperienza pratica - finge di accettare le smanie di cui costui la fa bersaglio, lo convince a ripetere quel gesto di cui lui è ormai specialista universalmente riconosciuto: ammazzare il fedifrago Pirro! Omicidio che Oreste compie, non senza schizofreniche dissociazioni psichiche. 

Ma la stessa Ermione, in una seconda scena di altissima drammaticità, pentitasi subito dell’ordine impartito ma ormai non più revocabile, altrettanto schizofrenicamente maledice il sicario, al quale non resta che lasciarsi trascinare via dai compagni di missione.

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Beh, se ancor oggi noi scafati spettatori del terzo millennio, passati attraverso mille esperienze e rivoluzioni (e vessazioni?) restiamo sconvolti ed allibiti di fronte a simile esplosione di creatività musicale, possiamo capire perché per quasi 150 anni nessuno più si curò di tale autentico tesoro nascosto, meritoriamente ritrovato qui da noi negli anni’70 e poi definitivamente riportato alla ribalta dalla Fondazione Rossini e dal ROF.
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Johannes Erath ci propone una scena (di Heike Scheele) praticamente fissa, un ambiente incastonato in una cornice di neon (luci di Fabio Antoci) e abitato ora da personaggi della corte di Pirro, in abbigliamento moderno e vistoso (costumi di Jorge Jara) e dediti a libagioni e gozzoviglie, ora dal coro (il popolo dell’Epiro) rigorosamente in anonimi abiti neri. La passerella che circonda l’orchestra è parsimoniosamente impiegata per accogliere, portandoli proprio alla ribalta, i più drammatici incontri fra le coppie (Ermione-Pirro o Ermione-Oreste).

Sullo fondo della scena e ai due lati appaiono saltuariamente immagini marine (video di Bibi Abel) oppure i palchi del Teatro Rossini. Fin troppo invadente l’impiego di un mimo ad impersonare l’immanente presenza di Cupido, le cui frecce (da guerre stellari) sortiscono peraltro (come vuole il soggetto di Tottola) solo esiti nefasti. Eccessivamente duro mi è parso il trattamento riservato al povero Astianatte, perennemente bistrattato da tutti (mamma esclusa, per fortuna…)

Per il resto, la gestione dei personaggi è assai curata, mettendo nel dovuto risalto tutti i lati deteriori delle rispettive psiche.

In sintesi, una proposta intelligente e di buon gusto, ma soprattutto aderente allo spirito del testo.

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Torno ora al piano sonoro, ribadendo la meticolosa attenzione riservata da Mariotti ad ogni minimo dettaglio della partitura, testimoniata da passaggi in punta di cesello, affidati a strumenti solisti, a improvvisi strappi e scoppi orchestrali per sottolineare ogni sfumatura delle menti disturbate dei protagonisti. E una maniacale attenzione al canto, dei singoli e del coro, sempre guidati con millimetrica precisione. Più che meritata la lunga ovazione finale per il Direttore di casa.

Ma come non lodare il coro del Ventidio Basso e il suo curatore Giovanni Farina, alle prese con compito assai gravoso e fondamentale nell’economia dello spettacolo; compito assolto con il massimo dei voti per compattezza, potenza e omogeneità di suono.

Anastasia Bartoli è stata ancora una volta la trionfatrice della serata: voce senza sbavature, svettante nella parte alta della tessitura e davvero imponente negli sfoghi di passione e odio di questo personaggio: delirio per lei dopo la grande scena, e meritate ovazioni all’uscita finale.

Enea Scala non mi aveva convinto alla prima ascoltata per radio: acuti spesso ingolati e con vibrato piuttosto sgradevole. Ieri devo dire che si è – in buona misura – riscattato, anche se mi limiterò a dargli una piena sufficienza, non di più. Il pubblico per la verità è stato assai più indulgente, riservandogli un’accoglienza calorosa.

Assai più calorosa ancora quella ricevuta da Florez, che sa supplire con mestiere ed esperienza alle purtroppo naturali conseguenze… dell’età, ecco. In ogni caso, il suo è un Oreste forse meno svalvolato di quanto Tottola e Rossini non lo dipingano in versi e note, ma il suo carisma resta tuttora intatto.

Chi dalla ripresa radiofonica aveva tratto vantaggi forse eccessivi è stata l’Andromaca di Viktoria Yarovaya, che dal vivo ni è parsa meno autorevole, in specie bella parte bassa della tessitura, non proprio impeccabile.

Hanno confermato invece le buone impressioni sia Antonio Mandrillo (Pilade) che Michael Mofidian (Fenicio): voci ben impostate su tutta la gamma, che gli hanno meritato anche l’applauso dopo il loro siparietto nel finale. Oneste le prestazioni di Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Davvero una bella serata di musica, che il foltissimo pubblico della Vitrifrigo Arena ha accolto con grande entusiasmo.


21 agosto, 2023

ROF-44 live - Eduardo&Cristina

Il mio personale percorso a ritroso nella presenza alle tre opere del cartellone ha riservato l’ultimo posto (dulcis-in-fundo?, haha) al titolo principale di questa edizione del ROF: Eduardo&Cristina, già visto e udito – via etere/RAI - alla prima dell’11 e sul quale avevo anticipato qualche mia peregrina osservazione alla vigilia, e senza aver ancora potuto leggere il programma di sala. Il quale reca altre preziose e fondamentali considerazioni dei due curatori dell’edizione critica, Malnati e Tavilla.

Per affinità di… origini etniche (copyright Francesco Lollobrigida) segnalo subito il commento scritto a caldo dopo la prima dalla mia conterranea Roberta Pedrotti, della quale condivido ampiamente i giudizi del tutto positivi sul piano musicale; e, diciamo, ehm, politically correct, quelli meno entusiastici (o almeno dubitativi) sull’allestimento.  

Do quindi spazio in primo luogo alla messinscena, o meglio, all’idea di base di Stefano Poda, che pare farsi scudo dell’esempio rossiniano (dove una stessa musica può supportare indifferentemente il diavolo e l’acqua santa…) per proporci un approccio registico che si dovrebbe adattare – parole di Poda medesimo, riportate sul programma di sala - a questo Rossini così come a Tristan&Isolde, o a Romeo&Giulietta oppure anche ad Orfeo&Euridice(Osservo però che trattasi di drammi finiti in tragedia, a differenza del centone rossiniano, che chiude in gloria.)   

Tradotto in termini Pod-iani, in scena non va in onda il soggetto originale, ma una libera interpretazione delle mille materializzazioni del concetto amore-morte. Che artisticamente, secondo il regista, si traducono in immagini di corpi umani mostrati (staticamente/sculturalmente o dinamicamente/carnalmente) nelle più diverse posture associabili a pulsioni erotico-spirituali dell’insieme anima-corpo di ogni essere umano.

La componente freddamente materiale di ciò è il fondo-scena occupato da un gigantesco bassorilievo in cui appare un’accozzaglia di sezioni di corpi umani (teste, petti, cosce e glutei alla rinfusa, tipo deposito di macelleria) e dalle quinte laterali costituite da enormi scaffali occupati da manichini di gesso raffiguranti corpi ignudi. Quella dotata di anima e corpo è invece rappresentata da mimi (quasi sempre completamente nudi, salvo minuscoli cache-sexe) che si muovono ieraticamente sul palcoscenico ad esternare (per noi poveri pirla che non saremmo in grado di raffigurarcele) le segrete pulsioni che animano la psiche dei personaggi del dramma.

Naturalmente Poda ci notifica quando in scena arrivano personaggi del soggetto reale (i protagonisti e i componenti dei cori) che, per ragioni forse anche di… ehm… indisponibilità alla nudità in pubblico, sono ricoperti di costumi che ne identificano lo status e la fazione.

Insomma, un’idea come tante altre che serve al regista per scaricarsi della responsabilità di mostrarci qualcosa che abbia una sia pur minima attinenza con il soggetto dell’opera. Evabbè, uno potrebbe obiettare che per questo ci sono già le esecuzioni in forma di concerto, senza scomodare (con relativi costi) scenografi, coreografi, costumisti, addetti alle luci (tutti qui distillati, e retribuiti, nel solo… Poda!) e figuranti assortiti e per di più correndo il rischio che lo spettatore, tutto preso a decifrare quegli alati simboli, finisca o per annoiarsi o per perdersi anche quanto di buono c’è nella musica…

Ma, si sa, ai festival tutto è concesso, dalle più grandi trasgressioni alle più comode e ammiccanti paraculate, e qui abbiamo un esempio cumulato dei due approcci (!?)
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Confermata invece l’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico. 

Daniela Barcellona è tornata qui con una prestazione di grande classe, che il pubblico (anche ieri parecchi vuoti in sala…) ha accolto trionfalmente. Forse la voce non ha più la penetrazione di un tempo, ma la nobiltà dell’emissione, il portamento e la sensibilità interpretativa sono sempre da incorniciare.

Anastasia Bartoli non è stata da meno, confermando l’ottima impressione suscitata alla prima. La voce è adamantina, senza sbavature o vetrosità, gli acuti sempre squillanti e gli abbellimenti virtuosistici e le colorature impeccabili. Le due hanno poi strappato applausi a scena aperta nei duetti e nei concertati.

Enea Scala dal vivo mi è parso meno efficace rispetto alla ripresa tecnologica: la voce non sempre passa adeguatamente, gli acuti a volte sono staccati con fatica e gli abbellimenti non proprio impeccabili. Comunque ha ricevuto un interminabile applauso dopo la sua grande aria del primo atto.

Matteo Roma si è pure ben comportato in tutti i suoi interventi, e in particolare nella sua aria (che nell’edizione critica viene escluso sia di Pavesi, ma sospettato possa essere proprio di Rossini…) meritandosi calorosi applausi. Così come Grigory Shkarupa, voce davvero imponente, come la presenza scenica. Applaudi a scena aperta anche per lui dopo l’aria di Pavesi del second’atto.

Applausi e ovazioni anche per il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che ha una corposa presenza in quest’opera, nobilitata da una prestazione di alto livello, sia nel complesso, che nelle due sezioni chiamate a sostenere le scene più drammatiche.

Di Jader Bignamini non posso che ripetere tutto il bene possibile. Lui è arrivato più tardi di altri alla ribalta della Direzione, dopo lunga gavetta in orchestra (clarinetto in MIb a laVerdi) ma ormai è lanciatissimo sulla scena internazionale: da Detroit (dove è di casa) al resto del mondo. Anche per lui grande successo, insieme a qfello della prestigiosa OSN-RAI, inclusi i due continuisti Giulio Zappa e Jacopo Muratori (fortepiano e cello).

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Ecco, chiudo così i miei commenti sul cartellone principale di questo ROF. Che però deve ancora terminare: a parte le due ultime recite, ci sarà il gran finale della Petite Messe Solennelle, che ho deciso di seguire da… (non troppo) lontano. 

12 agosto, 2023

Apertura del ROF-44 via radio(-TV)

Partito ieri il clou del 44° Rossini Opera Festival con la prima assoluta (a Pesaro) di Eduardo&Cristina nella nuova (ancora da pubblicare) edizione critica della Fondazione. Lo spettacolo inaugurale è stato trasmesso in diretta da Radio3 e in differita di 75 minuti da RAI5.

L’impressione a caldo lasciata(mi) dall’ascolto tecnologico (spero verrà confermata dal vivo…) è decisamente positiva, grazie alla direzione dell’ormai navigatissimo Jader Bignamini, coadiuvato al meglio dalla prestigiosa OSN-RAI e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, da anni compagini stabili del ROF.

Ottima nel suo complesso la compagnia di canto: Daniela Barcellona, davvero una veterana del ROF (vi debuttò nell’ormai lontano 1996!) ha messo tutta la sua esperienza, oltre che la voce sempre solida, al servizio di Eduardo.

Al suo livello Enea Scala (anche lui da quasi tre lustri ospite a Pesaro) che ha ben meritato come Re Carlo: voce sempre ben impostata e squillante e acuti sicuri.

Una piacevole sorpresa (per chi non la conosceva) è venuta da Anastasia Bartoli (figlia d’arte, di mamma Cecilia Gasdia, soprano di valore prima di assumere incarichi… gestionali all’ArenaVR) debuttante al ROF. Voce dal timbro caldo e corposo, in tutta l’estensione, è stata una Cristina quasi perfetta, anche sotto l'aspetto attoriale.

Bene Matteo Roma (dal 2019 ospite al Festival) come Atlei, per il quale l’edizione critica ha scovato un’aria (Da nume sì benefico i miseri mortali) per la scena 5 del primo atto.

Altrettanto dicasi per Grigory Shkarupa (34enne di SanPietroburgo, esordiente al ROF in un cartellone principale) che ha prestato a Giacomo una voce ben tornita e profonda.


Per tutti ampi consensi, a scena aperta e alle uscite finali. 
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Lo spettacolo di Stefano Poda? Aspetto di ragionarci sopra un po’… e poi di vederlo dal vivo prima di esprimere un giudizio più equilibrato. Così d’acchito dovrei coinvolgere uno psichiatra con specializzazione in ossessioni sessuali e disturbi dell’io profondo (!?!)  


21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
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Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
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L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.