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17 febbraio, 2019

Un Mozart ragazzo a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran (poco affollato in verità, ma d'altronde Venezia è immersa fino al collo nel carnevaleultima replica della serenata (sic!) mozartiana Il sogno di Scipione.

Opera del sedicenne Teofilo, opera di circostanza, da dedicare ad un personaggio e/o ad un avvenimento pubblico importante, verosimilmente il 50° (o 49°) di sacerdozio dell’Arcivescovo di Salzburg. Il soggetto - preso di peso da quel pozzo di sanPatrizio costituito dall’immensa produzione letteraria del poeta cesareo Pietro Metastasio - tratta di un sogno che lo Scipione, futuro conquistatore e spianatore di Cartagine, fa mentre dorme a casa del suo alleato Massinissa, in una regione oggi assimilabile all’Algeria orientale (va detto che nemmeno Metastasio ha inventato nulla, chè il soggetto viene da... Cicerone!)

Nel sogno incontra due intraprendenti signore che gli chiedono di scegliere fra loro due la sua compagna della vita. Insomma, uno scenario subito sospettabile di introdurre tematiche di natura non precisamente platonica, ecco (tanto è vero che qualche regista ha preso la palla al balzo ambientando l’operina in un ménage-à-trois in piena regola).

Le due signore in realtà se la tirano parecchio, presentandosi come esseri soprannaturali: una si definisce Fortuna e l’altra Costanza, magnificando ciascuna le proprie specifiche prerogative. Prima di decidersi Scipione vorrebbe sapere in qual posto sia capitato, e così gli vengono presentati nientemeno che i suoi due ascendenti nell’albero genealogico: il nonno adottivo, Publio; e il padre, Emilio. I quali gli spiegano cos’è l’aldilà, magnificandolo al punto che lui vorrebbe fermarsi lì con loro, ma i due lo spronano a completare le sue (e le loro) imprese con la definitiva distruzione di Cartagine.

Fortuna e Costanza non sono disposte ad attendere oltre e portano ciascuna i propri affondo per conquistare l’eroe. Il quale - ovviamente deve dimostrare di aver la testa sulle spalle, mica di essere un pazzo avventurista - sceglie la Costanza, suscitando le ire di Fortuna che lo riempie di saette e fulmini, provocandone il risveglio.

Adesso deve arrivare la conclusione-con-dedica. E capita che le opere dedicate a qualche personaggio (soprattutto se a potenti) a volte presentino problemi, come dire, di adattamento alla bisogna. E qui nello Scipione ne emerge uno la cui soluzione fa abbastanza sorridere. Dunque, il testo di Metastasio, da Mozart impiegato alla lettera, verso la fine prevede l’intervento di un particolare personaggio (la Licenza) che canta, prima della sua aria, un recitativo secco nel quale - al fine di esplicitare la dedica dell’opera - svela chi si celi, in realtà, sotto le spoglie dell’ultra-lodato Scipione. Metastasio scrive: Carlo. E perchè mai? Semplice: perchè Carlo VI Imperatore era il suo sponsor e protettore!

Ma quando Mozart compone la serenata, il dedicatario è l’Arcivescovo di Salzburg in carica al momento (1771): tale Sigismund III Christoph Graf von Schrattenbachautentico patron dei Mozart. E così, nel recitativo della Licenza, il nome Carlo viene sostituito da Sigismondo. Peccato che il prelato non faccia in tempo a godere della dedica, poichè tira le cuoia quando ancora Mozart deve completare l’operina. Al suo posto arriverà lo sbifido Hieronymus Franz de Paula Josef Graf Colloredo von Waldsee und Mels (quello che anni dopo licenzierà in tronco il povero Teofilo... ma così facendone senza volerlo la fortuna). E allora, prontamente Mozart (lui o il padre Leopold, ma fa lo stesso) cancella dal manoscritto il nome Sigismondo e ci scrive sopra: Girolamo!

Ora, siccome a noi frega nulla di Carli, Sigismondi e Girolami, imperatori e vescovi assortiti, si doveva pur trovare un nome adatto per attualizzare la dedica della serenata, qualcuno di nostra conoscenza e meritevole di panegirico. Bene, siamo a Venezia, Fenice, giusto? Qui non c’è un arcivescovo, ma comunque un capo della Fondazione. E quindi il fortunato prescelto (toh!) è proprio un... Fortunato!

(Diciamo che c’è andata pure bene: non hanno scelto un... Matteo.)

A proposito della Licenza, va detto che Mozart compose una seconda versione dell’aria, assai più elaborata di quella originale (che è stata eseguita a Venezia). In questa registrazione assai pregevole e ascoltabile in rete (fra l’altro senza una riga di tagli) a 1h36’41” viene eseguita l’aria originale e a 1h42’10” quella composta successivamente.

Per le 10 arie Mozart interpreta la classica struttura bistrofe metastasiana (A - B - A da-capo) con ampia libertà, mostrando un precoce istinto all’innovazione: l’esposizione della prima strofa è sempre assai articolata, con ripetizioni del testo in tonalità diverse (comunque adiacenti) mentre quella della seconda è sempre asciutta e senza riprese. Eliminato il meccanico e un po’ arido da-capo, la prima strofa viene riesposta con nuove varianti.

Particolare cura è messa nella caratterizzazione musicale dei personaggi; ad esempio Fortuna ha melodie vivaci e caratterizzate da ampi intervalli, Costanza invece è più riflessiva e posata, con melodie che si muovono senza troppi scossoni. Forse più convenzionali sono i due Cori, mentre la Sinfonia si distingue per la mancanza di una chiusura tradizionale, estinguendosi direttamente nel recitativo di apertura.

E a proposito dei famigerati (da noi) recitativi secchi, a Venezia si è tagliato parecchio (un quarto d’ora circa) come si desume dalle evidenziazioni presenti sul libretto pubblicato nel prezioso programma di sala. Mirabile invece il recitativo accompagnato (Fortuna-Scipione) che precede l’entrata di Licenza.  

L’organizzazione dei numeri musicali presenta una simmetria abbastanza spiccata. Se escludiamo i due cori e l’intervento asimmetrico di Licenza, ecco come si struttura la sequenza delle 9 arie affidate ai 5 protagonisti principali:





Emilio







Publio

Publio





Costanza



Fortuna



Fortuna





Costanza

Scipione







Scipione

Scipione apre e chiude, le due femmine - che trattano aspetti di carattere comportamentale - occupano le parti a ridosso del protagonista, mentre ai genitori - che si occupano di politica - è assegnata la posizione centrale.      
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Vengo ora a ieri, cominciando dalla musica. Le cinque voci in scena hanno tutte ben meritato. Volendo proprio fare una (mia personale) graduatoria, metterei in testa lo Scipione di Valentino Buzza e la Costanza di Francesca Boncompagni, poichè mi son parsi i più efficaci nei rispettivi ruoli e vocalmente non hanno mostrato limiti o pecche. Ma tutti hanno ricevuto applausi a scena aperta alla fine delle rispettive arie.

Federico Maria Sardelli ha guidato la (correttamente) sparuta pattuglia di orchestrali de LaFenice con grande autorevolezza e non a caso il pubblico ha riservato per lui, alla fine, l’accoglienza più calorosa. Bene anche il coro di Claudio Marino Moretti, che ha cantato il finale dalla buca dell’orchestra. Buca dove si sono distinti (in casi come questi il loro apporto è fondamentale) i continuisti Luca De Marchi (cembalo) e Alessandro Zanardi (cello). 
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Lo spettacolo è stato realizzato con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti veneziana e l’apporto di giovani studenti delle Scuole di scenografia e costumi. Tutti coordinati da Elena Barbalich, regista di fatto dello spettacolo. Un lavoro di gruppo encomiabile, tenuto conto delle caratteristiche dell’opera, dove non esiste la minima parvenza di azione, ma solo dissertazoni su filosofia, psicologia e politica. Del resto, non per nulla il pezzo si chiamava serenata: da eseguirsi - se non proprio sotto le finestre di una casa popolare - magari nel giardino di una residenza patrizia o in un salone dell’Arcovescovado...

Alcune trovate della messinscena possono essere apparse un filino goliardiche o sopra le righe, ma nel complesso si è trattato di uno spettacolo godibile, grazie anche alla supervisione dello scenografo Massimo Checchetto e del responsabile alle luci Fabio Barettin.
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In definitiva, una proposta quanto mai interessante, della quale il Fortunato dedicatario-patron può ben andare orgoglioso.

23 novembre, 2015

Purcell a Torino

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.

Il cognome Purcell deriva – ma che strano! – proprio da porcello: colpa dei francesi che fin dal 1066 (Hastings) avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)

Il libretto di tale Nahum Tate è ovviamente ispirato all’Eneide, rispetto alla quale presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso, senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa, manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza, offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.

E il motivo stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata, provocandone così il suicidio.

Qualcuno sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche: Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.

In compenso c’è una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro stati. Ciò andrebbe d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia Tate-Purcell…

Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi, ma anche degli Charpentier e dei Lully.

Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al 1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.

Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di rappresentazioni singole (cioè dove l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così ha fatto anche il bravissimo Federico Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.

L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo (cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.  

La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc Gingold) e proviene originariamente da Rouen. È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione, evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare; lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!

Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi. C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza, facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto, scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!

Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le diverse atmosfere del dramma.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da encomiare) che sulla scena. Roberta Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e languida che diventa però una furia (Away! Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse (per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce squillante e sempre ben intonata.

Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.

Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per le altre interpreti (Kate Fruchterman, Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano egregiamente il cast.

Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida, ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino, complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e ti risolleva anche il fisico!