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consulta e zecche rosse

23 novembre, 2015

Purcell a Torino

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.

Il cognome Purcell deriva – ma che strano! – proprio da porcello: colpa dei francesi che fin dal 1066 (Hastings) avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)

Il libretto di tale Nahum Tate è ovviamente ispirato all’Eneide, rispetto alla quale presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso, senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa, manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza, offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.

E il motivo stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata, provocandone così il suicidio.

Qualcuno sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche: Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.

In compenso c’è una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro stati. Ciò andrebbe d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia Tate-Purcell…

Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi, ma anche degli Charpentier e dei Lully.

Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al 1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.

Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di rappresentazioni singole (cioè dove l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così ha fatto anche il bravissimo Federico Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.

L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo (cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.  

La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc Gingold) e proviene originariamente da Rouen. È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione, evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare; lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!

Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi. C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza, facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto, scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!

Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le diverse atmosfere del dramma.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da encomiare) che sulla scena. Roberta Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e languida che diventa però una furia (Away! Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse (per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce squillante e sempre ben intonata.

Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.

Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per le altre interpreti (Kate Fruchterman, Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano egregiamente il cast.

Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida, ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino, complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e ti risolleva anche il fisico!  

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