Ieri pomeriggio
il Regio torinese ha ospitato la
seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.
Il cognome Purcell deriva – ma che strano! –
proprio da porcello: colpa dei
francesi che fin dal 1066 (Hastings)
avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre
teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)
Il libretto di
tale Nahum Tate è ovviamente ispirato
all’Eneide, rispetto alla quale
presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il
personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso,
senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica
manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine
si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa,
manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette
di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito
alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza,
offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.
E il motivo
stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in
Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la
rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha
in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi
e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di
Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata,
provocandone così il suicidio.
Qualcuno
sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche:
Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri
cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della
protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della
fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non
certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero
arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.
In compenso c’è
una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece
inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne
impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro
stati. Ciò andrebbe
d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a
pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia
Tate-Purcell…
Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti
politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica
sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi,
ma anche degli Charpentier e dei Lully.
Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas
ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di
dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale
libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per
celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al
1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.
Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà
dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai
meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad
esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di
rappresentazioni singole (cioè dove
l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare
il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di
altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così
ha fatto anche il bravissimo Federico
Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa
produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve
intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.
L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più
flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo
(cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è
opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del
suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio
da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.
La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è
curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc
Gingold) e proviene originariamente da Rouen.
È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con
interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione,
evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la
parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un
tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto
sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella
stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che
sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza
nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare;
lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!
Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del
mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura
rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi.
C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza,
facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto,
scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!
Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che
contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le
diverse atmosfere del dramma.
Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da
interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da
encomiare) che sulla scena. Roberta
Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e
languida che diventa però una furia (Away!
Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse
(per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce
squillante e sempre ben intonata.
Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per
dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente
portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare
il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.
Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma
poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per
le altre interpreti (Kate Fruchterman,
Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano
egregiamente il cast.
Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la
compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida,
ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le
diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da
risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli
stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino,
complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e
ti risolleva anche il fisico!
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