Ieri pomeriggio la sala del Bibiena (con parecchie poltrone vuote…) ha ospitato la penultima recita di Elektra, un allestimento originale ispano-belga firmato da Guy Joosten, già passato – con altri cast - da Barcelona (2009) e Bruxelles (2010). Ecco (finchè ci resta…) una registrazione di assai mediocre qualità della rappresentazione del 17 con il cast (le due sorelle) alternativo.
Domanda: ma
perché definirla solita? Semplice,
perché chi ha avuto la responsabilità della parte musicale si è solitamente (e
pure stolidamente, aggiungo io) attenuto
alla poco onorevole tradizione che contempla di inferire alla partitura alcuni
barbari tagli. E che ciò sia divenuto
ormai uno standard universale è
soltanto segno di incultura, perché qui non si tratta di saltare la ripetizione
di una strofa in una cabaletta di Rossini o – nel sinfonico – di ignorare i due punti posti al termine di un’esposizione. No no, qui i tagli (che ho già
in precedenza elencato, analizzato e stigmatizzato) costituiscono
vere e proprie ferite al corpus
dell’opera, ai suoi contenuti musicali e soprattutto alla caratterizzazione dei
personaggi (in particolare della protagonista, ma non solo) che a fronte di
questi tagli perdono buona parte delle peculiarità di cui proprio Hofmannsthal e Strauss li avevano arricchiti, rispetto al testo ispiratore di Sofocle.
Lo scarso rispetto
per l’opera e per il pubblico è certificato dal fatto che il programma di sala (che contiene peraltro
due pregevoli saggi di Franco Serpa e
Guido Paduano) riporta il libretto in
versione integrale senza però avvertire in alcun modo dei 6 tagli praticati
nell’esecuzione. (Per fare un esempio, nel programma della Scala per l’edizione dello scorso anno erano chiaramente indicati i
5 tagli operati in quella produzione.)
Le interpreti di
Elektra - e i loro premurosi direttori - regolarmente adducono a
giustificazione di quei tagli la pretesa sovrumanità degli sforzi che sarebbero richiesti per cantare
l’opera nella sua interezza (per cui non si peritano
nemmeno di studiarli, i passi incriminati, condizionando così già a-priori l’esecuzione). Al che non posso non ricordare quanto disse
e fece il solido e coraggioso Gustav Kuhn
che, anni fa - con un cast tutt’altro
che da star-system e con la sua Haydn – portò con gran successo l’integrale in giro per il norditalia!
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Lothar Zagrosek è un vecchio
marpione che probabilmente applica il comodo adagio il meglio è nemico del bene, e così la sfanga (per me) con una
risicata sufficienza. Lui sembra dar credito a quanto si dice di Strauss che
durante una prova dell’opera avrebbe gridato agli ottoni di suonare ancor più
forte, poiché continuava a sentire la voce di Elektra (!) Così chiede all’orchestra
di darci dentro a più non posso e spesso e volentieri copre alla grande le voci.
Viene il
sospetto che lo faccia di proposito, per coprirne anche le manchevolezze. E a
proposito di voci e di tagli: Elena
Nebera, la protagonista, è la dimostrazione lampante che non basta
accorciare la parte per uscirne indenne! Anche tagliando altri 10 minuti di
musica, il risultato sarebbe stato comunque deludente, poiché il difetto –
ahilei – sta proprio nel… manico: ottava bassa inudibile, zona centrale dal
timbro sgradevolmente vetroso, acuti spesso urlati (Elektra sarà pure
nevrastenica, ma dovrebbe pur sempre cantare).
Anna Gabler è la sorellina
per bene, ma è solo di pochissimo meno peggio di Elektra: anche lei soffre di
afonia in basso e quando sale agli acuti la voce perde di rotondità.
Natascha Petrinsky veste i
panni della madre assassina-adultera e – pur senza toccare vette eccelse - per
lo meno sa cantare con proprietà e discreto portamento.
I due maschi
hanno parti decisamente secondarie e se la cavano allabellemeglio, meglio
comunque il vendicatore Thomas Hall (voce
profonda e ben impostata) dell’usurpatore-assassino, impersonato da un
vociferante Jan Vacik.
Tutti gli altri
interpreti fanno il loro dovere come da contratto sindacale, a partire dalle
cinque ancelle che devono aprire l’opera con i loro cicalecci. Il coro di Andrea Faidutti si fa udire nel finale schiamazzando
come da partitura per portare Orest in trionfo.
Insomma, una
prestazione musicale che fatica (sempre secondo me) a guadagnarsi la sufficienza.
Non così per il pubblico, che applaude indistintamente tutti (non saprei dire
se un paio di ululati verso la Nebera fossero di disapprovazione).
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Il regista Joosten non manca di impiegare triti e
ritriti stereotipi del Regietheater,
cominciando dalla trasposizione dell’azione negli anni di Hitler, con le ancelle trasformate in secondine armate di
mitraglietta e Aegisth travestito da dittatore ubriacone.
Alcune
invenzioni di Joosten sono del tutto perdonabili, come il far ricomparire due
volte – ovviamente senza aprir bocca! - la quinta
ancella (l’ammiratrice di Elektra): dapprima durante lo scontro fra Elektra
e la madre e poi a felicitarsi con lei dopo il compimento della vendetta. O come
nel mostrarci Orest che arriva (visto solo dal… pubblico) proprio durante la
scena madre fra le due donne. O ancora la smaccata ostensione dell’ascia, che
mai e poi mai si dovrebbe vedere,
secondo il libretto.
Ma l’invenzione
più strampalata riguarda la scena che fa seguito all’agnizione Elektra-Orest. Manco
a farlo apposta, proprio laddove viene praticato il taglio dei versi sui quali Elektra
ricorda il suo equivoco rapporto con il padre, ecco che il regista ce la mostra
in rapporto equivoco (stile Maddalena-Cristo) con il fratellino!
Tuttavia l’impostazione
generale di Joosten (grazie anche alle scene e ai costumi di Patrick Kinmonth e alle luci di Manfred Voss) non fa eccessivi danni,
anzi direi che la guida degli interpreti sul piano attoriale sia senz’altro da
apprezzare. Con qualche riserva sugli eccessi riservati all’usurpatore,
trasformato in macchietta da avanspettacolo, mentre assai centrata (perché equilibrata)
mi è parsa la resa della figura (spesso eccessivamente bistrattata o
indebitamente nobilitata) di Klytämnestra.
Alla fine, che
dire: ascoltare quest’opera ti dà sempre una grande emozione (grazie a Strauss)
a dispetto delle mutilazioni di cui è vittima e delle mende degli interpreti.
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