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22 novembre, 2015

Dopo mezzo secolo a Bologna una “solita” Elektra

 

Ieri pomeriggio la sala del Bibiena (con parecchie poltrone vuote…) ha ospitato la penultima recita di Elektra, un allestimento originale ispano-belga firmato da Guy Joosten, già passato – con altri cast - da Barcelona (2009) e Bruxelles (2010). Ecco (finchè ci resta…) una registrazione di assai mediocre qualità della rappresentazione del 17 con il cast (le due sorelle) alternativo.


Domanda: ma perché definirla solita? Semplice, perché chi ha avuto la responsabilità della parte musicale si è solitamente (e pure stolidamente, aggiungo io) attenuto alla poco onorevole tradizione che contempla di inferire alla partitura alcuni barbari tagli. E che ciò sia divenuto ormai uno standard universale è soltanto segno di incultura, perché qui non si tratta di saltare la ripetizione di una strofa in una cabaletta di Rossini o – nel sinfonico – di ignorare i due punti posti al termine di un’esposizione. No no, qui i tagli (che ho già in precedenza elencato, analizzato e stigmatizzato) costituiscono vere e proprie ferite al corpus dell’opera, ai suoi contenuti musicali e soprattutto alla caratterizzazione dei personaggi (in particolare della protagonista, ma non solo) che a fronte di questi tagli perdono buona parte delle peculiarità di cui proprio Hofmannsthal e Strauss li avevano arricchiti, rispetto al testo ispiratore di Sofocle.

Lo scarso rispetto per l’opera e per il pubblico è certificato dal fatto che il programma di sala (che contiene peraltro due pregevoli saggi di Franco Serpa e Guido Paduano) riporta il libretto in versione integrale senza però avvertire in alcun modo dei 6 tagli praticati nell’esecuzione. (Per fare un esempio, nel programma della Scala per l’edizione dello scorso anno erano chiaramente indicati i 5 tagli operati in quella produzione.)  

Le interpreti di Elektra - e i loro premurosi direttori - regolarmente adducono a giustificazione di quei tagli la pretesa sovrumanità degli sforzi che sarebbero richiesti per cantare l’opera nella sua interezza (per cui non si peritano nemmeno di studiarli, i passi incriminati, condizionando così già a-priori l’esecuzione). Al che non posso non ricordare quanto disse e fece il solido e coraggioso Gustav Kuhn che, anni fa - con un cast tutt’altro che da star-system e con la sua Haydn – portò con gran successo l’integrale in giro per il norditalia! 
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Lothar Zagrosek è un vecchio marpione che probabilmente applica il comodo adagio il meglio è nemico del bene, e così la sfanga (per me) con una risicata sufficienza. Lui sembra dar credito a quanto si dice di Strauss che durante una prova dell’opera avrebbe gridato agli ottoni di suonare ancor più forte, poiché continuava a sentire la voce di Elektra (!) Così chiede all’orchestra di darci dentro a più non posso e spesso e volentieri copre alla grande le voci.

Viene il sospetto che lo faccia di proposito, per coprirne anche le manchevolezze. E a proposito di voci e di tagli: Elena Nebera, la protagonista, è la dimostrazione lampante che non basta accorciare la parte per uscirne indenne! Anche tagliando altri 10 minuti di musica, il risultato sarebbe stato comunque deludente, poiché il difetto – ahilei – sta proprio nel… manico: ottava bassa inudibile, zona centrale dal timbro sgradevolmente vetroso, acuti spesso urlati (Elektra sarà pure nevrastenica, ma dovrebbe pur sempre cantare).

Anna Gabler è la sorellina per bene, ma è solo di pochissimo meno peggio di Elektra: anche lei soffre di afonia in basso e quando sale agli acuti la voce perde di rotondità.   

Natascha Petrinsky veste i panni della madre assassina-adultera e – pur senza toccare vette eccelse - per lo meno sa cantare con proprietà e discreto portamento.    

I due maschi hanno parti decisamente secondarie e se la cavano allabellemeglio, meglio comunque il vendicatore Thomas Hall (voce profonda e ben impostata) dell’usurpatore-assassino, impersonato da un vociferante Jan Vacik.

Tutti gli altri interpreti fanno il loro dovere come da contratto sindacale, a partire dalle cinque ancelle che devono aprire l’opera con i loro cicalecci. Il coro di Andrea Faidutti si fa udire nel finale schiamazzando come da partitura per portare Orest in trionfo.

Insomma, una prestazione musicale che fatica (sempre secondo me) a guadagnarsi la sufficienza. Non così per il pubblico, che applaude indistintamente tutti (non saprei dire se un paio di ululati verso la Nebera fossero di disapprovazione).
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Il regista Joosten non manca di impiegare triti e ritriti stereotipi del Regietheater, cominciando dalla trasposizione dell’azione negli anni di Hitler, con le ancelle trasformate in secondine armate di mitraglietta e Aegisth travestito da dittatore ubriacone.

Alcune invenzioni di Joosten sono del tutto perdonabili, come il far ricomparire due volte – ovviamente senza aprir bocca! - la quinta ancella (l’ammiratrice di Elektra): dapprima durante lo scontro fra Elektra e la madre e poi a felicitarsi con lei dopo il compimento della vendetta. O come nel mostrarci Orest che arriva (visto solo dal… pubblico) proprio durante la scena madre fra le due donne. O ancora la smaccata ostensione dell’ascia, che mai e poi mai si dovrebbe vedere, secondo il libretto.

Ma l’invenzione più strampalata riguarda la scena che fa seguito all’agnizione Elektra-Orest. Manco a farlo apposta, proprio laddove viene praticato il taglio dei versi sui quali Elektra ricorda il suo equivoco rapporto con il padre, ecco che il regista ce la mostra in rapporto equivoco (stile Maddalena-Cristo) con il fratellino!

Tuttavia l’impostazione generale di Joosten (grazie anche alle scene e ai costumi di Patrick Kinmonth e alle luci di Manfred Voss) non fa eccessivi danni, anzi direi che la guida degli interpreti sul piano attoriale sia senz’altro da apprezzare. Con qualche riserva sugli eccessi riservati all’usurpatore, trasformato in macchietta da avanspettacolo, mentre assai centrata (perché equilibrata) mi è parsa la resa della figura (spesso eccessivamente bistrattata o indebitamente nobilitata) di Klytämnestra.

Alla fine, che dire: ascoltare quest’opera ti dà sempre una grande emozione (grazie a Strauss) a dispetto delle mutilazioni di cui è vittima e delle mende degli interpreti.

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