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29 novembre, 2015

Gran finale dell’Idomeneo in laguna

 

Ieri pomeriggio si sono concluse alla Fenice le recite dell’opera che ha inaugurato la stagione 15-16: Idomeneo. Come al solito pregevolissimo, oltre che puntuale nella disponibilità online, il programma di sala.

Dirò subito che il finale sarebbe magari stato grandissimo se l’opera fosse stata data in forma di concerto! Sì, perché la messinscena ha proprio fatto piangere (o ridere, a seconda dei gusti).
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Si descrive di solito Idomeneo come persona di gran nobiltà d’animo, ma a me pare che nel libretto di Giambattista Varesco (mutuato a sua volta da altre opere, oltre che dalla mitologia) il nostro non ci faccia propriamente una gran figura. Sarà pure un sovrano amato dal suo popolo, sarà pure un valoroso combattente, addirittura una testa di cuoio salito a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso si ca.. sotto e per cercare misericordia dal manovratore-di-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). E di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio! Pare Renzi quando proclama di mettere la mano – di Guerini – sul fuoco!

Beh, che il malcapitato si sia rivelato proprio come il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) E a poco serve che, una volta in salvo, si mostri quasi pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E cerchi poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro). Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a casa in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima).  
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra forse il suo più bel lascito per la musica di tutti i tempi.

E questa produzione della Fenice ce lo ha riproposto – sul piano musicale – in modo davvero convincente. A partire dalla splendida prestazione dell’Orchestra, che evidentemente ha risposto al meglio alle sollecitazioni di Jeffrey Tate, praticamente perfetto nel tradurre in suoni quell’autentico scrigno di tesori che è l’immensa partitura mozartiana. E da quella del Coro di Claudio Marino Moretti, che nell’opera ha un ruolo fondamentale, di protagonista attivo, oltre che di testimone (alla greca) degli avvenimenti.

Su un livello più che soddisfacente il cast delle voci, tutte egualmente meritevoli di apprezzamento: a partire dal protagonista, un autorevole Brenden Gunnell, che pur non essendo chiamato ad acuti stratosferici (non va, la sua parte, sopra il SOL) sa ben destreggiarsi con gli impegnativi vocalizzi in cui Mozart lo impegna, culminanti nella famosa Fuor dal mar. Più che discreta la prestazione di Anicio Zorzi Giustiniani, un Arbace cui Mozart affida due arie magari non ispiratissime, ma di discreta difficoltà virtuosistica, che il nostro sa rendere al meglio: voce sottile ma penetrante e intonazione sempre corretta. Completano degnamente la parte maschile della compagnia le figure del Gran Sacerdote (Krystian Adam) e della Voce di Michail Leibundgut, che mi è parso (potrei sbagliare) arrivasse in sala diffusa da amplificatori (in uno con i suoni dei tromboni che la accompagnano).

Sul fronte delle interpreti femminili, benissimo Monica Bacelli, che si districa agevolmente in una parte originariamente scritta per castrato e spesso interpretata da tenori. Bene la Elettra di Michaela Kaune (che magari sforza fin troppo il suo carattere spigoloso) e discreta anche se non trascinante la prova della Ilia di Ekaterina Sadovnikova.

Per tutti grandi applausi finali da parte di un pubblico assai numeroso (anche se non c’era l’esaurito).                 
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Ed ora le note dolenti, legate all’allestimento. Il sudafricano dal nome italico di Alessandro Talevi mette su uno spettacolo tanto velleitario quanto inconsistente e persino travisante lo spirito, oltre che la lettera, di libretto e musica. Ci troviamo riferimenti alla lotta di classe (magari non quella di Marx) fra i cretesi-bene (lascivi, dissoluti e depravati) e quelli che lavorano (i marinai, proletari); poi ai conflitti di cui soffre la nostra civiltà attuale (i migranti, che vengano dall’interno – Argo – o dalla periferia – Troia – trattati come sub-umani); infine ecco le pratiche oggi apostrofate come rottamazione, culminanti nell’ingloriosa e umiliante fine di cui viene gratificato il povero Idomeneo. In compenso, il rottamatore Idamante, ormai in età da… trono, mostra la sua preoccupazione per le sorti del padre stringendo al petto la barchetta-giocattolo avuta in regalo da bambino: ecco un bell’esempio di caratterizzazione dei personaggi! Insomma, un Konzept (come lo chiamano i crucchi) piuttosto deludente.

Le scene di Justin Arienti sono un misto di bambinesca ingenuità e di kitsch che sfiora il ridicolo. Due esempi: il mare fatto di grossolani rulli, e lo studio di Idomeneo, ingombro di statue di Nettuno, modellini di navi, volumi impolverati, fauci di squali, candelieri sullo scrittoio… Da far proprio pena.

Anche i costumi e le acconciature (Manuel Pedretti) sono in linea con tutto il resto: un put-pourri di… stili (!) davvero indecoroso: per dire, Arbace nel second’atto pare… Mefistofele, poi Elettra si prepara a partire con tanto di valigetta di metallo; insomma, trovate gratuite e ridicole. Ci sarebbero anche movimenti coreografici (Nikos Lagousakos) sui quali mi limito a sorvolare. Delle luci di Giuseppe Calabrò mi son rimaste impresse soltanto le due circostanze in cui la luce… si spegne, per far subito posto a scoppi e lampi (che alla prima avevano indotto la direzione del teatro ad emanare un preventivo avvertimento al pubblico, in senso tranquillizzante, stanti i precedenti al Bataclan…)    

Non parliamo delle scene di massa, fra le quali citerei solo quella dei festeggiamenti a fine primo atto, una pantagruelica tavolata gigante con enormi vassoi di spaghetti-allo-scoglio, aragoste, pesce spada e polipone lesso, il tutto annaffiato con abbondante prosecco (resinato?); e quella di fine del second’atto, dove compare un lombricone nero che avvolge nelle sue spire il popolo terrorizzato. Ma come dimenticare l’orripilante sfondo (a sipario chiuso, tutto avviene al proscenio) che accompagna le prime scene dell’atto terzo: tre fili per stendere biancheria, che attraversano in larghezza l’intero palcoscenico, ai quali sono appesi brandelli di indumenti lordi e macchiati di sangue, evidente risultato delle scorribande del lombricone. Mamma mia!
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Ripeto: data in forma di concerto, sarebbe stata un’edizione da incorniciare.  

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