allibratori all'opera

bonifacio o donaldo?
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11 dicembre, 2022

Scala: il Boris live.

Scala non proprio esaurita per questa prima recita vera del Boris Godunov, il che pare confermare che il gigantesco sforzo mediatico-mondano del SantAmbrogio non basta da solo a fare moltitudini di proseliti per il teatro musicale.

Liquido brevemente la parte registica, chè lo spettacolo in teatro ormai si apprezza assai meno che dalle riprese televisive, assai più ricche di dettagli e particolari di quanto non colga l’occhio che osserva da lontano e da angolazione fissa (a qualcosa, ma poco, serve un binocolo, che consente allo spettatore almeno di farsi lui i primi-piani che crede). Spettacolo godibile e frutto di sincretismo stilistico per accontentare tutti (tradizionalisti e non) che lascia il dubbio sull’efficacia del rapporto costi-benefici: appunto, fatto per illustrare il SantAmbrogio, più che il titolo in cartellone.

Il fronte musicale mi sento invece di promuoverlo (magari senza lode e bacio-in-fronte) a partire dai cori (di Malazzi e Casoni) veri protagonisti (giustamente ovazionati) della serata. Ottima l’Orchestra, capace di supportare al meglio la scena (e in questo Musorgski la cosa non è per nulla scontata, data la siderale distanza rispetto alle opere più di repertorio). Orchestra che ovviamente ha goduto dell’amorevole cura messa – come sempre, del resto – dal Direttore nell’interpretare al meglio ogni dettaglio – le dinamiche, in particolare - della difficile partitura. Ribadisco la mia personalissima perplessità soltanto riguardo l’agogica, che avrei preferito meno sostenuta: Chailly chiude a 145’ contro, ad esempio, i 130’ di Gergiev-1997 e i 126’ di Nagano-2019…  

Ildar Abdrazakov merita l’eccellenza per presenza scenica, recitazione e capacità di esternare tutta la varietà di sentimenti e angosce che contraddistinguono il personaggio: qualcuno gli imputa la voce più baritonale che da basso profondo, ma non è detto che il Boris più moderno sia ancora quello di Scialiapin! I due monologhi, in particolare, sono proprio da manuale dell’interpretazione, oltre che di espressività del canto. Strameritato quindi il suo trionfo.

Ain Anger è un Pimen che dal vivo ha quasi del tutto riscattato le perplessità che mi aveva lasciato l’ascolto tv: forse la voce sarà un filino usurata, ma in teatro fa ancora una gran figura.

Sicuro e tronfio il Varlaam di Stanislav Trofimov, autorevole interprete della sua truce ballata al confine lituano, inneggiante Ivan il Terribile.

Bella figura ha fatto anche Dmitry Golovnin, calatosi apprezzabilmente nella parte del… suo falso: certo per lui sarebbe ben altro impegno cantare il Boris-2!

Efficace anche l’altro tenore, Yaroslav Abaimov, nella parte dello Yurodivi, piccola ma estremamente significativa nell’economia del dramma.   

Alexei Markov è stato un passabile Scelkalov, mentre devo ritirare in parte il giudizio positivo su Norbert Ernst (Šujskij) che dal vivo ha mostrato evidenti limiti vocali.

Delle tre parti femminili quella più rilevante è la Xenia di Anna Denisova, che ha sfoggiato voce ben impostata e passante, e un portamento consono a quello della giovine in pena per il lutto che l’ha colpita. Han fatto il loro dovere l’ostessa Maria Barakova e la nutrice Agnieszka Rehlis (anche per loro vale il discorso fatto per Grigori-Dimitri).

Il piccolo Feodor è stato ben impersonato – en-travesti - da Lilly Jørstad.

Oneste le prestazioni degli altri quattro comprimari.

Alla fine, successo pieno e indiscusso per tutti.

07 dicembre, 2022

SantAmbrogio: il Boris in TV.

Beh, è già qualcosa aver constatato – in corpore vili – che ciò che viene presentato è effettivamente il Boris-1 del 1869 (ovviamente nell’ipotesi di dar credito a due studiosi seri come Lamm e Lloyd-Jones) e non un libero collage di pezzi del meccano-Boris, tipico passatempo di svariati direttori e registi in cerca di facile quanto caduca notorietà. (Alle mie orecchie grida tuttora vendetta la scellerata produzione del Regio di Torino del 2010, targata Noseda-Konchalovsky, tanto per dire…)  

Sulla prestazione sonora mi astengo dal dare giudizi inappellabili, date le circostanze (la ripresa non mi è parsa impeccabile, ecco). Abdrazakov ha riscosso un prevedibile trionfo, per la fama che gode anche qui in Scala e per l’oggettiva autorevolezza con la quale si è calato nel ruolo. Buona impressione, salvo verifiche dal vivo, per Norbert Ernst (Šujskij) e Stanislav Trofimov (Varlaam). Ovviamente da apprezzare i cori, se non altro perché avran dovuto sudare per via della lingua.

Chailly mi è parso un filino troppo sostenuto con i tempi, ma è questione di gusti. Orchestra apparentemente in buona salute, ma da giudicare dal vivo.  
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Quel furbacchione di Kasper Holten si è inventato un approccio originale alla messinscena: né quello iper-tradizionalista e talebanamente rispettoso della lettera dell’opera (1598-1605); né quello di portarci all’epoca della creazione del lavoro (1869); né quello di ambientare la vicenda ai nostri giorni. Ecco: lui ce li ha messi tutti e tre in una volta (ad esempio coprendo con mantelli seicenteschi giacche e cravatte moderne…) Sperando così di accontentare un po’ tutti i gusti (o di non scontentarne alcuno). Certo: si può intuire che questa compresenza di costumi (anche di suppellettili, per la verità…) di epoche diverse stia a significare che usanze (e prepotenze!) umane non tramontano mai (della serie Putin=Stalin=Nicola=Pietro=Boris=Ivan=…)

Da vecchio responsabile dell’opera alla ROH, Holten si è anche permesso (senza pagarne i diritti?) di scopiazzare dalla produzione di Richard Jones del 2016 il vecchio Pimen che dipinge le sue storie a mo’ di affresco su una parete bianca. Ha invece fatto un doveroso omaggio all’Autore mostrando, mentre si ascolta la breve introduzione strumentale, gli ottusi critici del Marinski che strappano platealmente copie della partitura che ci viene presentata.

Per il resto regìa innocua e velleitariamente didascalica, col rischio di rendere ancor più incomprensibile l’intreccio, vedi la costante presenza del piccolo Dimitri coperto di sangue o la riproduzione per partenogenesi di personaggi nella scena finale. Nella quale riappare il simpatico Grigori-Dimitri per assistere con sprezzante sogghigno alla morte (mica naturale, ma per mano di un suo sicario!) dell’odiato zar. (Poi, se si volesse proseguire nel racconto delle vicende storiche, allora lui avrebbe poco da ridere, visto che dopo un anno verrà letteralmente fatto a fettine, poi impastate in polvere da sparo, da quelli stessi che si erano serviti di lui per combattere Boris…)   

All-in-all: una produzione che – personalmente – avrei collocato (tipo Chovanščina) a febbraio…  
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Curiosità: Il sogno di Grigori 1872-1869

                   Gergiev – 1977                                            Nagano - 2019

04 dicembre, 2022

Oggi è in arrivo a Milano Бори́с Фёдорович Годуно́в

Questa sera i diversamente anziani terranno a battesimo il contestato Boris Godunov, fatto oggetto settimane fa dell’operazione-culturale-speciale di Kyiv, fortunatamente sventata sul nascere dagli eroici resistenti scaligeri.

Poi ci sarà la kermesse di SantAmbrogio e, dal 10, si comincerà a… fare sul serio. Quindi prepariamoci a dovere, cercando intanto di chiarirci su che cosa andremo a vedere e ascoltare.

Sì, perchè è facile dire Boris Godunov, ma è come dire formaggio-grana: ma sarà grana-padano o parmigiano-reggiano? O per caso una mescolanza dei due, ottenuta in laboratorio dalle abili mani di qualcuno che – magari in perfetta buona fede – pretende di migliorare le innate qualità dei due prodotti originali? 

La domanda non ha come scopo di stilare la classifica fra i famosi prodotti (genuini o manipolati) delle nostre premiate e ben foraggiate vacche (ciascuno ha il diritto di stilarne una sua propria…) ma semplicemente di sapere in anticipo – per approfondirne i contenuti allo scopo di goderne al meglio - quale delle leccornie ci apprestiamo ad assaporare, avendo ciascuna di esse (naturali o manipolate che siano) caratteristiche peculiari e inconfondibili.

In sostanza: in circolazione – escludendo elaborazioni più o meno cervellotiche di sedicenti addetti-ai-lavori – troviamo tre diverse versioni dell’opera: due di propria mano di Musorsgki (chiamiamole Boris-1 e Boris-2, rispettivamente datate 1869 e 1872) e una terza, ottenuta dalla rielaborazione del Boris-2, di Rimski-Korsakov (perfezionata nel 1908). Per gran parte del ‘900 è stata proprio la versione-Rimski l’unica ad essere rappresentata, in attesa che qualche solerte studioso riportasse alla luce le due versioni originali dell’Autore. (Un mio modesto contributo a chi voglia raccapezzarsi nel ginepraio delle versioni e delle loro differenti impostazioni è leggibile qui.)

Nel 2002 - precedente presenza dell’opera alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) - fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quel pericoloso putiniano che risponde al nome di Valery Gergiev, allora reduce dall’aver messo per primo sul mercato le due versioni originali (1869-1872) del formaggio-grana Boris, ricostruite a partire dalle edizioni critiche di Lamm (1929) e Lloyd-Jones (1975).

E, come allora, anche oggi è la prima versione dell’opera (Boris-1, del 1869) ad essere rappresentata, a cura della premiata coppia Chailly-Holten. A chi vuol apprezzare entrambe le versioni dirette da Gergiev senza spendere un centesimo basterà entrare in rete e mettersi comodo. E sempre in rete si trovano diverse registrazioni della versione spuria di Rimski.

Dato però che anche il Boris-1 di Gergiev presenta qualche deviazione rispetto all’originale di Musorsgki, consiglio ai puristi questa edizione svedese (diretta da Kent Nagano) che mi pare del tutto fedele alla lettera, oltre che allo spirito, dell’originale.  
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Questa immagine, invero assai cruda, che accompagna la locandina dello spettacolo e sta facendo un certo scalpore, ritrae il piccolo Dimitri, fatto uccidere per sgozzamento da Boris – così lo storico Karamzin cui si ispirò, via Puškin, Musorgski - alla tenera età di 7 anni, allo scopo di toglier di mezzo un potenziale concorrente nella corsa al trono.

È precisamente il personaggio invisibile (ma che il regista renderà visibilissimo, a scanso di equivoci) che occupa in permanenza la mente dello zar, fino a condurlo sulla soglia della pazzia e, in definitiva, alla morte. È proprio la tormentata figura dello zar alle prese con il governo di una realtà sociale caratterizzata da disperazione e fatalismo autodistruttivo che sta al cuore di questa prima versione del Boris. (La seconda farà invece emergere, in contrasto con l’incurabile crisi dello zar, un ruolo più consapevole e determinato del popolo russo, alla confusa ricerca di riscatto e libertà.)

Ecco, staremo a vedere e sentire, prima dalla TV e poi dal vivo.

14 novembre, 2022

Il Boris alla Scala: a vuoto le sanzioni ukraine.

Allora, pare che al simpatico Console di Kyiv a Milano ancora non vengano riconosciute sufficienti prerogative che gli consentano di cambiare in corsa la stagione della Scala, decidendo lui quando – bontà sua - concederci il malsano privilegio di tornare ad ascoltare musica russa.

Caso mai fanno discutere certe motivazioni (come questa, oppure questa e anche questa del maestro Chailly) al rifiuto di assecondare le richieste del Console: si sostiene che il Boris sia un’opera che non si presta a strumentalizzazioni da parte di uno zar moderno (Putin) poiché in essa è rappresentato precisamente un popolo vessato dal potere dello zar, e che piange sul suo disgraziato destino, mentre lo zar medesimo è schiacciato dalle sue colpe e muore in preda agli incubi che gli ricordano le sue malefatte. Quindi, un’opera che caso mai dovrebbe essere proprio il Console a voler rappresentata e Putin a voler cancellare dal cartellone…

Ok, ma allora, se l’opera in programma fosse, che so, Evgeni Onegin di Ciajkovski, dove si rappresentano scene liriche (con omicidio sì, ma per ragioni sentimentali) in un mondo che vive felicemente all’ombra dello zar, che succederebbe? Si darebbe ragione al Console?

Mah… 

11 novembre, 2022

Uno Zar minaccioso si profila all’orizzonte

No, Putin purtroppo è già qui fra noi, ne avvertiamo la nefasta presenza in molti momenti della nostra vita quotidiana. No, parliamo di quel Boris Godunov che dopo soli 20 anni (Putin si era da poco affacciato sulla scena, con il biglietto da visita della carneficina di Grozny, peraltro subito perdonatagli da tutti) tornerà a tener banco alla Scala per inaugurare la stagione 22-23.

A meno che lo stupido autolesionismo del Console di Kyiv a Milano non abbia il sopravvento sull’universalità della cultura, sortendo così il brillante effetto di far aumentare dal 60 all’80% il numero degli italiani contrari all’ulteriore invio di armi a Zelensky… 

Quanto al Presidente e al Sovrintendente della Fondazione (Sala e Meyer) oggi si trovano in evidente imbarazzo a dare risposta al Console, a causa del loro stesso zelo con cui, allo scoppio della guerra, decretarono l’ostracismo agli artisti russi che non prendessero formalmente posizione contro Putin: per coerenza con quella passata decisione dovrebbero – ma proprio come minimo – chiedere la stessa cosa ad Abdrazakov, Denisova e agli altri artisti russi del cast del Boris. (Della serie: allora gli hai offerto un dito, oggi pretendono il braccio…) Non parliamo poi di come si sentirà il Presidente Mattarella ad affacciarsi in mondovisione dal Palco Reale il pomeriggio del 7 dicembre e di come fatalmente si noterà l’assenza del Console (di cui nessuno altrimenti si curerebbe).

Un’idea per salvare capra-e-cavoli potrebbe essere quella già praticata da Andrey Boreyko in Auditorium il 25 febbraio scorso: dopo Fratelli d’Italia, eseguire Šče ne vmerla Ukraïny.

Per ironia della sorte, l’ultima apparizione del Boris alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) risale al 2002 quando fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quello che oggi è bollato quale bieco propagandista dello zar Vladimir, tale Valery Gergiev.

Domani pomeriggio, nel foyer-Toscanini del teatro, si terrà una pubblica conferenza su questa prima. Moderata da Raffaele Mellace, recentemente nominato collaboratore scientifico della Fondazione, la tavola rotonda avrà come protagonisti il Direttore Riccardo Chailly, gli insigni musicologi Franco Pulcini ed Elisabetta Fava, e il russologo per eccellenza Fausto Malcovati (autore della traduzione italiana del libretto). Vedremo se la politica e le armi faranno capolino anche lì…

13 ottobre, 2010

L’ur(ca)-Boris a Torino



 
Ieri pomeriggio sesta rappresentazione, al Regio di Torino, del Boris Godunov di Modest Musorgski per la regìa di Andrei Konchalovsky. Sul podio Gianandrea Noseda.

 
Come già ampiamente desumibile dalla presentazione dell'Opera da parte del Teatro, si tratta di una sedicente versione (ma meglio sarebbe chiamarla collage) della prima stesura (1869) del capolavoro di Musorgski. Riprendo – con qualche dettaglio in più, e lo metto in appendice, così chi non vuole annoiarsi lo può ignorare più comodamente – il discorso sulle fonti e sulla struttura del Boris di Konchalovsky-Noseda, già sommariamente fatto qualche giorno fa, e passo direttamente alle mie impressioni sulla recita, interpretata ieri dal cosiddetto secondo cast.

 
Che vedeva nel ruolo principale il venerabile Vladimir Matorin, ultrasessantenne già protagonista di innumerevoli Boris, che rimpiazzava il giovine Orlin Anastassov, ricoprendo invece accanto a lui il ruolo – non proprio secondario - di Varlaam nelle recite col primo cast. Orbene, senza poter fare confronti, mi pare di poter dire che la sua interpretazione sia stata di buon livello vocale, ma di livello attoriale non meno che straordinario. Un Boris davvero grande: nell'imponenza, anche fisica, della sua figura, come nella tragica schizofrenia che emana dal suo animo esacerbato. Da notare qui un particolare: il famoso monologo Ho il potere supremo era quello della seconda versione (1872) del Boris! (Ma qui siamo nel pieno bailamme delle fonti, e quindi per il  momento non insisto).

 
Sergej Aleksaškin è stato un efficacissimo Pimen, una parte che sembra in certi momenti precorrere nientemeno che il wagneriano Gurnemanz. Detto di passaggio, in effetti fra Musorgski e Wagner ci sono innumerevoli punti di contatto, anche se i due conobbero assai poco delle rispettive opere. Ricordava il compianto Teodoro Celli che proprio la scena del convento dei Miracoli, dove appare Pimen per la prima volta, si apre con misteriose quartine delle viole che richiamano in modo stupefacente le sestine del mormorìo della foresta del Siegfried (io ci aggiungo anche l'introduzione mahleriana al Der Einsame im Herbst). E che la melodia che sostiene l'ultima parte del duetto fra Marina e Grigorij-Dimitri (che qui a Torino ovviamente non si è ascoltato) ha una incredibile rassomiglianza con lo starnberg-iano tema della Pace, sempre dal Siegfried, atto terzo!
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Grigorij (poi falso Dimitri) è Ian Storey. Al solito, come in Tristan, grande presenza scenica – però nessuno gli potrebbe dare solo 19 anni, smile! - accompagnata da una prestazione vocale non più che discreta.
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La coppia Misail-Varlaam è interpretata da Luca Casalin (la parte meno in vista) e da Vladimir Baykov il quale ultimo rimpiazza qui il Matorin del primo cast e devo dire che ci fa un'ottima figura, soprattutto nella sua aria (lo so che Musorgski si arrabbierebbe moltissimo a chiamarla così…) nella quale descrive con realismo misto a compiacimento il simpatico scherzetto – costato 43mila vite, una bazzecola - che il terribile Ivan fece agli sbifidi Tatari di Kazan.
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Evgenij Akimov è l'Idiota (in termine politically correct, l'Innocente). Direi più che buono sia sul piano della gestualità che su quello del suo canto lamentoso e strappalacrime, che nella sua cantilenante languidezza esprime il fatalismo di un intero popolo.
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Ščelkalov è impersonato da Juri Laptev (2° cast). Imponente la sua figura fisica ed efficaci i suoi interventi (nei due quadri estremi). L'inaffidabile Šujskij è affidato (smile!) ad un dignitoso Peter Brondy, voce chiara e sottile (come il carattere del personaggio).

 
Tutti gli altri su uno standard più che onorevole. Un'ultima e doverosa citazione per Pavel Zubov, il ragazzo che recita, e canta benissimo, la parte del giovinetto Fëdor, rampollo di Boris.

 
Non ci sarebbe quasi bisogno di elevare peana ai Cori di Gabbiani e Fenoglio, tanto superbi nel canto, quanto efficaci nei movimenti in scena.

 
Noseda, si sa, ha un feeling particolare con i russi. Forse già innato, ma di certo irrobustito dal suo lungo sodalizio con il Mariinskij. Direzione di assoluto rilievo la sua; che – a mio sentire – si è sempre mantenuta entro limiti di sobrietà, pur non celando tutte le spigolosità e le ruvidezze dell'orchestrazione di Musorgski.

 
Konchalovsky ha chiesto a Graziano Gregori delle scene spartane e minimaliste (in pratica un piano inclinato in sei sezioni che si possono unire o separare in modo da farle alzare ed abbassare alla bisogna. Quindi uno scenario monotono dove, tanto per fare un esempio, non si nota alcuna differenza fra i due monasteri: Novodevici, che era più che altro un rifugio in cui si ritiravano a meditare (o una specie di prigione in cui venivano di fatto rinchiusi) dei personaggi scomodi o complessati, e Chudov, che era invece un classico e rinomato centro di studi e di cultura e – trovandosi proprio dentro il Cremlino – era meta di frequenti visite degli zar, Ivan in primo luogo, come ricorda il vecchio Pimen a Grigorij. Scenario ravvivato però dalle irruzioni delle masse. I cui costumi (di Carla Teti) sono invece di una grande ricchezza (anche gli stracci della povera gente, smile!) e verosimiglianza. Il regista ha fatto muovere bene i personaggi, prendendosi qualche libertà (per giustificare la parcella, al solito): come il figlioletto che, all'incoronazione di Boris, invece di seguirlo, come da copione, gli si abbarbica ad un fianco e viene poi preso in braccio; o come il feroce accoltellamento delle guardie da parte di Grigorij, al momento di scappare dalla bettola. Discutibile anche il cambio di scena, a sipario alzato, fra SanBasilio e Kromy, che in pratica ci mostra un teletrasporto della stessa gente da un luogo all'altro, cosa abbastanza in contrasto con la logica (la seconda folla era appena stata descritta dalla prima) oltre che con il libretto. Di effetto notevole, e pure pacchiano, lo scivolone del trono sul piano inclinato, al momento del redde-rationem per lo zar. Nel complesso, una regìa dignitosa, che come minimo non crea scandalo (ed è già qualcosa).

 
Quindi uno spettacolo sicuramente all'altezza di un importante Teatro, quale il Regio è. Peraltro non destinato – credo io – a fare storia, anche per le ragioni che spiego nel tormentone che segue.
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Musorgski lasciò due versioni, assolutamente compiute e precisamente strutturate, del Boris. Va però notato che la prima (1869) non venne mai eseguita, vivente l'Autore, essendo stata bocciata dai censori estetico-politici del Mariinskij, quindi rimase in uno stato teoricamente modificabile e perfettibile, poiché l'Autore - avesse avuto la possibilità di metterla in scena - di certo vi avrebbe apportato ritocchi e cambiamenti piccoli e grandi, cose che già aveva in mente, o addirittura già scritto, e che utilizzò nella costruzione della seconda versione (1872, che per sua fortuna potè vedere autorizzata e rappresentata) in cui impiegò gran parte dei componenti della prima.

 
Ma allora una domanda viene subito spontanea: se la seconda versione è un passo avanti rispetto alla prima, e a differenza di questa potè essere curata nei dettagli da Musorgski, che cosa cavolo ce ne facciamo oggi della prima, se è solo un abbozzo di quella definitiva?

 
La risposta è semplice: le due versioni non sono affatto una l'abbozzo dell'altra, ma – pur avendo, com'è comprensibile, molte parti in comune – sono nondimeno strutturalmente, drammaturgicamente ed esteticamente assai diverse fra loro. E non solo per i tre quadri aggiunti (e uno tolto) ai sette della prima per costruire la seconda, ma per il diverso focus drammaturgico (e quindi anche musicale) che le due versioni presentano: la prima prevalentemente incentrata sulla complessa figura e sui drammi esistenziali dello zar; la seconda che mette in primo piano il popolo russo, all'interno del cui perenne e quasi disperato fatalismo si inquadra la tormentata figura di Boris. Ecco perché è (ma devo purtroppo dire sarebbe) oggi così interessante poter ascoltare, e vedere in scena, anche la prima versione: perché è di fatto un'opera diversa – pur se con lo stesso soggetto e molto materiale in comune – dalla versione definitiva.

 
Dal punto di vista della struttura del dramma, nella prima versione del 1869 (7 quadri) abbiamo una serie di zoom sulla figura dello zar (Quadro-2, all'incoronazione; Quadro-5 nella dimora di Boris e Quadro-7, al Cremlino) alternata a scene di popolo (Quadro-1, al monastero di Novodevici e Quadro-6, sul sagrato di SanBasilio) e alla presentazione del monaco Pimen e di Grigorij, che diverrà il falso Dimitri (Quadro-3, nel monastero dei Miracoli di Chudov e Quadro-4, in una bettola al confine lituano); e non a caso l'opera si chiude con la morte di Boris, estremo culmine della sofferta esistenza dell'uomo.

 
La versione messa definitivamente in partitura nel 1872 è in 9 quadri, organizzati in un prologo e 4 atti: quelli della prima più tre (i due polacchi e l'ultimo della seconda, di Kromy) meno il penultimo della prima (SanBasilio). Quindi la nuova versione ha una struttura assolutamente (e mirabilmente) simmetrica: agli estremi due scene di popolo (Prologo-scena-1, a Novodevici e Atto4-scena-2, a Kromy); subito all'interno di queste, due quadri con monologhi di Boris (Prologo-scena2, all'incoronazione e Atto4-scena-1, quello della sua morte, al Cremlino); all'interno ancora due coppie di scene – per così dire - di contorno (Atto1, Pimen, Grigorij e i monaci al confine lituano e Atto3, quello polacco, con Marina, il gesuita Rangoni e Dimitri-Grigorij); perfettamente al centro (Atto2) il quadro famigliare dello zar.

 
Si noti che in entrambe le versioni Musorgski segue quasi pedestremente – pur con sue aggiunte o variazioni – la sequenza dei fatti come esce dalla tragedia di Pushkin, che ispirò direttamente la composizione. Si noti anche che, elaborando la seconda versione, oltre ai macro-interventi (aggiunte ed espunzioni di scene) Musorgski operò anche una miriade di modifiche (come detto le aveva già in buona parte in testa o anche scritte) ad almeno 4 dei 6 quadri superstiti: ad esempio espunse dal terzo il racconto di Pimen sull'uccisione, a Uglich, del piccolo Dimitri, erede al trono; aggiunse la canzone dell'anatroccolo all'inizio del quarto quadro (la scena nella bettola al confine lituano); in quella di Terem, gli appartamenti dello zar (quinto quadro, divenuto secondo atto) modificò ampiamente il celebre monologo di Boris Ho il potere supremo; sempre lì, cambiò parecchio le parti dei figli di Boris, in particolare ampliando quelle del piccolo Fëdor e della nutrice; riprese dal sesto quadro (di SanBasilio, espunto nella seconda versione) la scenetta dell'Idiota schernito e derubato dai monelli e la infilò nel nuovo quadro (l'ultimo, presso Kromy) aggiunto come conclusione dell'opera (quadro sulla cui più opportuna collocazione - se cioè non dovesse precedere la morte di Boris - ebbe inizialmente più di un dubbio, accogliendo alla fine i consigli di suoi zelanti amici e propendendo quindi per la collocazione estrema, simmetrica). Insomma, la versione seconda è proprio un'opera diversa.

 
Rimsky rimaneggiò (splendidamente e per due volte, 1896 e 1906) questa seconda versione. Oltre ad apportarvi alcuni tagli (parzialmente ripristinati nel 1906) in parti più o meno secondarie (tolse dei brani, come l'appello di Ščelkalov all'inizio del quadro della morte di Boris) Rimsky fece un primo proditorio attentato alla struttura dell'Opera, scambiando gli ultimi due quadri (dando quindi credito all'idea primitiva, ma successivamente scartata, di Musorgski) e con ciò distruggendo la perfetta simmetria dell'originale; e distorcendone anche il significato complessivo, col riportare in primissimo piano la figura di Boris, la cui morte - e non il perenne e fatalista fluire della vita del popolo russo - torna a chiudere l'opera, come nella prima versione. E questo surrogato di Rimsky, come spesso accade (vedansi Carmen e Medea) è quello che ha fatto la fortuna del Boris per più di 50 anni. Poi arrivò anche Shostakovich a trastullarsi col giocattolo, ri-orchestrandolo, ma in pochi ne hanno fatto un punto di riferimento; stessa fine han fatto per fortuna altre velleitarie revisioni.

 
Quanto alle edizioni critiche, Pavel Lamm a fine anni '20 e – 50 anni dopo – David Lloyd-Jones, ne pubblicarono due di entrambe le versioni, ma in effetti strutturate come una versione che accorpa tutti i quadri (10) delle due originali, contenendo di fatto tutto ciò che Musorgski produsse sul Boris: in sostanza prendendo la seconda versione del 1872 e re-inserendovi tutti i tagli operativi dal compositore, incluso l'intero quadro (il penultimo della prima versione, quello ambientato davanti a SanBasilio) che l'Autore aveva espunto dalla seconda. Dovendo però a questo punto fare i conti con l'Idiota: il quale compare nel quadro di SanBasilio della prima versione (dove incrocia anche Boris) e poi ancora – proprio con le stesse parole e con la stessa musica - nell'ultimo, che lo sostituì, della seconda (a Kromy, dove ovviamente non può incontrare Boris, principalmente perché lo zar a quel momento è già defunto, ma anche perché un Boris che passeggia laggiù farebbe ridere). In queste versioni sedicenti complete, in 10 quadri, l'Idiota compare dapprima nel quadro di SanBasilio, mentre in quello di Kromy si limita ad apparire alla fine, e solo per ripetere il suo lamento fatalista sulle tristi sorti della Russia. Ma – dato che questa versione non è autografa, ma è invenzione di Lamm e Jones – è chiaro che chiunque può decidere e nella realtà ha deciso (ma è solo un esempio fra le tante possibilità combinatorie) di presentare prima Kromy (con/senza l'Idiota) e poi SanBasilio (senza/con l'Idiota) eccetera, eccetera.

 
Come si vede, una storia intricata e infinita. Oggi addirittura si teorizza (lo ha fatto lo stesso Jones, forse per vendere meglio la sua edizione critica) che il Boris sia un'opera aperta, una specie di gioco del meccano da cui registi e direttori possono liberamente divertirsi a prelevare pezzi da montare e smontare a loro piacimento! E, conoscendo la smania di protagonismo di registi e direttori (e aggiungiamoci pure i cantanti) non ci si può meravigliare che tutto questo guazzabuglio di fonti abbia immancabilmente dato la stura a innumerevoli colpi di mano e ad invenzioni più o meno strampalate. Presentate trincerandosi dietro l'alibi che tutta la musica del Boris è grande e che quindi, comunque confezionata, l'Opera farà sempre un gran figurone. (Come quello che immagino farebbe la Nona di Mahler eseguita con l'Andante in testa, i movimenti lenti al centro e il Rondò-Burleske come finale… o no?)

 
Invece ci sarebbe un punto (almeno uno) da tenere ben fermo, poiché di una chiarezza incontestabile: l'incompatibilità fra SanBasilio e Kromy. Certificata proprio dal procedimento tecnico che Musorgski impiegò per costruire la sua seconda versione: eliminare SanBasilio e recuperare da esso ciò che gli tornava utile (la scenetta dell'Idiota) nella costruzione di Kromy. Ciò è la più chiara e convincente dimostrazione dell'impossibilità di coesistenza dei due quadri. E il bello è che – in teoria – ciò viene riconosciuto anche da eminenti studiosi. Come il prof. Richard Taruskin, un cui scritto apre il volumetto del programma di sala del Regio. Peccato che, subito dopo aver riconosciuto la validità dell'assunto logico, il nostro si affretta a dichiararsi entusiasta della convivenza fra i due quadri. E in base a quale ragionamento? Che la cosa piace al pubblico! Grandiosa davvero, questa affermazione, pari alla sua bizzarrìa. Chè allora, visto che sicuramente al pubblico piacerebbero, si potrebbero presentare infinite versioni delle sinfonie di Beethoven, costruite recuperando la montagna di schizzi, appunti e idee che il genio di Bonn ci ha lasciato in eredità. Rob de matt, bisogna avere una cattedra a Berkeley per sfornare simili idee…

 
Apro una piccola e irriverente parentesi, a proposito di professori. L'oggetto è la diatriba riguardo la morte del piccolo Dimitri (figlio di Ivan) che è all'origine di tutti i problemi esistenziali di Boris: morte accidentale, come sentenziò l'inchiesta ufficiale (addomesticata da Boris?) o assassinio commissionato proprio da Boris? Il citato Taruskin scrive che, per Pushkin, la colpa di Boris nell'uccisione dell'erede al trono era un dato di fatto: cosa che oggi nessuno storico crede. Tre pagine dopo la professoressa Caprioglio dell'Università di Torino sostiene che la versione della colpevolezza di Boris è ancor oggi la più accreditata, anche se non mancano gli storici (ndr: i colleghi di Taruskin? smile!) che sostengono la morte accidentale.

 
Tornando a bomba, si fosse coerenti con l'elementare assunto dell'incompatibilità fra quei due quadri, automaticamente le versioni del Boris si ridurrebbero a 3: le due originali dell'Autore più quella, che possiamo tranquillamente – per tutta una serie di buone ragioni - aggettivare come authoritative, di Rimsky. La quale oltretutto accontenta allo stesso tempo gli amanti della bella musica e quelli del finale in REb maggiore (una specie di Götterdämmerung ante-litteram).
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Adesso torno al Regio per chiedermi: cosa hanno combinato Konchalovsky-Noseda? Ecco: come altri, un pasticcio che non è né carne, né pesce, ma è un minestrone cucinato mettendo insieme ingredienti delle due versioni originali, e buttandoli in pentola e sul fuoco con una sequenza diversa da entrambe. Hanno preso come base la versione del 1869, ma poi l'hanno smontata e ricostruita a loro discrezione (vedi il citato arioso di Boris al Terem). Non contenti, strada facendo hanno pure cambiato idea – cosa di cui è bene rallegrarsi, come delle conseguenti modifiche apportate al riassunto dell'opera sul sito del Teatro e parzialmente sul programma di sala (ma non sulle locandine cartacee distribuite gratis) - rinunciando ad un paio di cervellotiche trovate. Sulle quali è comunque utile fare qualche considerazione, sia pure a reato non consumato.

 
La prima idea, falsamente innovativa e sufficientemente strampalata, era l'inversione della sequenza dei quadri 2 e 3. Che avrebbe creato due artificiose fratture all'interno del corpo della prima parte (i primi 4 quadri) oltretutto sovvertendo la cronologia degli avvenimenti: il Quadro-3 (Pimen e Grigorij nel monastero di Chudov) è chiaramente datato (da Pushkin, fonte diretta di Musorgski) nel 1603, quindi con Boris imperante da ben 5 anni, mentre il Quadro-2 è proprio quello che ci mostra Boris appena incoronato, nell'autunno del 1598. Invertirli avrebbe fatto cambiare non poco, o addirittura perdere del tutto, il senso dell'intera vicenda, chè la gravissima ed aperta accusa - abbiamo accettato quale sovrano l'assassino di uno Zar! - che Pimen muove a Boris (di aver soppresso il piccolo Dimitri, erede al trono) perderebbe parecchio di consistenza, se mossa ad un Boris che ancora sovrano non è, ed anzi – da ciò che si è appena udito nel Quadro-1 (Il Boiardo è irremovibile) - sembrerebbe riluttante a diventarlo! E attenzione: Pimen non sta facendo quattro chiacchiere al bar, ma sta scrivendo la Storia della Russia!

 
L'altra trovata – poi rientrata, forse dopo le prove in scena, quindi tuttora presente sul programma di sala - di Konchalovsky-Noseda era la ricomparsa del personaggio dell'Idiota proprio alla fine dell'opera, a lanciare il suo lamento. Col che si sarebbe scimmiottato – non certo ripristinato nella sua valenza drammatica - l'epilogo della seconda versione originale!

 
Delle trovate di regista-direttore è quindi rimasto in piedi l'inserimento (tanto caro a Taruskin) dopo SanBasilio e prima dell'ultimo quadro (morte di Boris) del quadro di Kromy, prelevato dalla versione 1872, recupero giustificato dal regista con la motivazione di voler mostrare al pubblico – soddisfacendone la morbosa curiosità? - dov'era finito Grigorij dopo la fuga in Lituania! Trattasi in verità di motivazione assai labile – pur se addotta già in origine da qualche zelante consigliere dell'Autore - dal momento che ciò è già stato spiegato a josa – poco prima - dai discorsi che la gente fa sul sagrato di SanBasilio e dall'anatema urlato dal pingue diacono contro Grigorij Otrepyev (poi anche dall'oggetto della riunione di Boiari al Cremlino) senza che ci sia bisogno di mostrare Grigorij/Dimitri in carne ed ossa (cosa invece necessaria – si badi bene - a Musorgski nella versione 1872, in conseguenza dell'espunzione di SanBasilio!) E come hanno risolto, regista e direttore, il problema dell'Idiota? Secondo l'approccio della versione di Lamm/Jones in 10 quadri, presentandocelo per il 90% a SanBasilio (scena con i monelli e incontro con Boris, senza il lamento) e per il restante 10% spedendolo in gita-premio a Kromy, solo per esalarvi il suo lamento fatalista sulle misere sorti e regressive della povera madre Russia.

 
Peraltro, dal recuperato quadro di Kromy sono spariti (anche se permangono sulla carta del programma di sala) oltre al 90% dell'Idiota (per i motivi già spiegati) anche i due gesuiti polacchi, quelli che se ne vanno in giro, quasi fossero un'avanscoperta del falso Dimitri, recitando litanie in lingua latina e inneggiando al pretendente-zar. Trovandosi quindi in una imbarazzante situazione, che rischia di fargli fare una brutta fine, poi evitata dal provvidenziale arrivo dello stesso Dimitri: essere dalla parte della folla anti-Boris, ma contemporaneamente invisi, in quanto cattolici, a quella medesima folla di ortodossi, che li tratta come fastidiosi pipistrelli da impiccare. Regista (e direttore?) devono essersi accorti (un po' tardi!) che la presenza a Kromy dei due gesuiti polacchi è una diretta conseguenza (logica, drammatica ed estetica) dell'inserimento nell'opera dell'atto polacco! Quindi si attaglia perfettamente alla versione 1872, mentre ci sta come i cavoli a merenda in quella del 1869, dove di tutte le vicende polacco-gesuitiche di Grigorij-Dimitri nulla viene presentato! Ci voleva proprio quest'altra dimostrazione dell'incompatibilità di Kromy con la versione 1869? Mamma mia…

 
In definitiva: Konchalovsky-Noseda, forse - e senza forse - presi dalla smania di strafare, o illudendosi addirittura di passare alla storia, hanno scelto il peggio degli approcci – già di per sé discutibili - di molti loro predecessori: compiendo quindi un'operazione cervellotica e falsamente innovativa. Il risultato è che lo spettatore non assiste a nessuna delle due – splendide, nella loro diversità – versioni di Musorgski, né a quella musicalmente eccelsa di Rimsky, ma ad un pasticcio che certo accontenterà gli spettatori à-la-Taruskin, ma che lascia un po' di amaro in bocca a chi ha un minimo-minimo di conoscenza degli originali (fatta ad esempio ascoltando le due versioni registrate da Gergiev negli anni '90, che pure avranno qualche pecca, ma sono di certo il meno-peggio in circolazione, in fatto di rispetto dell'Autore). In definitiva, a me pare trattarsi di una – ennesima, e ahinoi non sicuramente ultima - versione-usa-e-getta, non certo destinata a proporsi come pietra miliare nella storia dell'interpretazione del Boris.
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27 settembre, 2010

Il Boris (ma quale?) inaugura la stagione del Regio-TO


Martedi 5 ottobre Gianandrea Noseda dirigerà – per l'apertura della stagione del Regio di Torino - Boris Godunov di Modest Musorgski (ore 20, diretta su Radio3).
Che il Boris – inizialmente per mano dello stesso Musorgski e successivamente di Rimsky e altri, Shostakovich incluso – sia stato visto, rivisto, mutato, trasmutato, avvolto e stravolto infinite volte, è un dato di fatto, e forse nemmeno esiste un elenco esaustivo di tutte le versioni impiegate, da 130 e più anni in qua, per le rappresentazioni dell'Opera.
Però al melomane medio, quello che legge qualche libro, va qualche volta a teatro e compra qualche CD o DVD, risultano fondamentalmente: le due versioni originali dell'Autore (1869, in 7 quadri, e 1872, in 9 quadri accorpati in un prologo e 4 atti); la splendida (checché se ne dica) seconda versione di Rimsky (1908, che rimaneggia l'originale del 1872, e ne inverte i due quadri finali) e i pastiche di Pavel Lamm e poi di David Lloyd-Jones, che praticarono la fusione fredda delle due versioni, aggiungendo alla seconda il quadro espunto dall'Autore, all'inizio del quarto atto, per un totale quindi di 10 quadri.
Ma adesso arriva il creativo Andrei Konchalovsky che si inventa – in combutta con Noseda - un nuovo, ennesimo Boris, sommariamente descritto sul sito del Regio: è la prima versione, del 1869, ma rivoltata come un calzino (ordine invertito fra i quadri 2 e 3) e con aggiunta di ingredienti di quella del 1872 (il quadro di Kromy, infilato fra gli ultimi due). In tutto: 8 quadri più un …epilogo. Effettivamente può darsi che sia quindi una vera e propria prima mondiale!
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Riporto dal sito del teatro (sottolineatura mia): Gianandrea Noseda e Andrei Konchalovsky propongono una versione originale frutto di interventi drammaturgici sull'Ur-Boris con una nuova successione di scene che rispettano la cronologia degli accadimenti storici. Ecco, l'ultima frase è proprio da incorniciare, perché fa sorgere una domandina da nulla: da quando in qua il compito di un regista e di un direttore non è più quello di portare in scena un'opera come l'ha concepita il suo Autore, ma di fare della divulgazione storico-scientifica? Che il Boris (anzi, il doppio Boris) di Musorgski ci racconti vicende storiche è scontato, ma a noi che cosa importa? Vedere ed ascoltare l'Opera originale, o andare ad una lezione di storia, dove l'Opera viene stravolta? Chè, se fosse quest'ultimo il nostro obiettivo, allora dovremmo accettare, anzi reclamare, ristrutturazioni delle scene del Don Carlos, dei Vespri, dei Puritani, della Bolena e financo dell'Andrea Chénier!
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Nel caso specifico, la cronologia degli accadimenti storici – che ha determinato la struttura drammatico-musicale dei due Boris (pur tra loro così diversi) - è quella che Musorgski ha mutuato dal Boris di Pushkin, il quale a sua volta la mutuò dalla Storia dello stato russo di Nikolaj Michajlovich Karamzin. E i Boris di Musorgski dovrebbero restare quindi come furono composti, indipendentemente da qualunque ri-scoperta storica sia stata fatta in tempi successivi. Quindi sappiamo senza ombra di dubbio che l'incoronazione di Boris (quadro 2) avviene pochi mesi dopo le manifestazioni a Novodevici (febbraio 1598, secondo Pushkin, quadro 1) mentre la vicenda di Pimen e Grigori (quadro 3) è collocata da Pushkin cinque anni dopo (1603)! Orbene, come si possa ristabilire una cronologia di accadimenti storici invertendo l'ordine dei quadri 2 e 3, cioè facendo precedere il 1598 dal 1603, è cosa davvero stupefacente! Così come lo è l'inserimento del quadro di Kromy fra i due quadri finali e quindi - proprio à la Rimsky – non dopo, ma prima della morte di Boris; salvo poi spostare l'imprecazione dell'Idiota alla fine, come epilogo del dramma. Tutti questi interventi equivalgono ad un vero e proprio inquinamento (e quindi snaturamento) della versione del 1869 – quella che si dichiara di voler mettere in scena - con quella del 1872, che sappiamo essere radicalmente diversa come spirito, focus e struttura drammaturgica (hai detto niente!) Insomma, si scimmiotta Rimsky proprio mentre si dichiara di volersi rifare all'originale di Musorgski.
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Dopodichè, per carità, possiamo ben sperare che lo spettacolo regga ed abbia successo; anche se resta l'impressione di essere di fronte alla solita manìa di protagonismo di un famoso regista cinematografico – cui regge bordone, duole dirlo, Noseda – che deve per forza stupire (e giustificare la parcella) con idee intelligenti ed innovative. Mentre invece Konchalovsky-Noseda non inventano nulla che chiunque di noi non possa realizzare – o aver già realizzato – a casa propria. Un Boris che inizia con l'arioso Ho il potere supremo, e poi va in flash-back a Novodevici? Un altro che principia dall'incontro di Marina e Grigori, poi salta a Kromy, quindi in Lituania e da lì al Cremlino? No-problem: c'è iTunes che ci consente di sequenziare gli MP3 a nostro sentimento. Anzi, una interessante feature del gadget di Steve Jobs risiede nella possibilità di riproduzione random dei diversi brani: così si possono realizzare migliaia, che dico, milioni di nuovi Boris! Pane e companatico assicurati per almeno tre generazioni di registi e direttori. E del resto – taluno ragiona - se il compositore per primo ha fatto una volta strame della sua creatura, perché vietare ad altri di seguirne le orme?
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