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13 ottobre, 2010

L’ur(ca)-Boris a Torino



 
Ieri pomeriggio sesta rappresentazione, al Regio di Torino, del Boris Godunov di Modest Musorgski per la regìa di Andrei Konchalovsky. Sul podio Gianandrea Noseda.

 
Come già ampiamente desumibile dalla presentazione dell'Opera da parte del Teatro, si tratta di una sedicente versione (ma meglio sarebbe chiamarla collage) della prima stesura (1869) del capolavoro di Musorgski. Riprendo – con qualche dettaglio in più, e lo metto in appendice, così chi non vuole annoiarsi lo può ignorare più comodamente – il discorso sulle fonti e sulla struttura del Boris di Konchalovsky-Noseda, già sommariamente fatto qualche giorno fa, e passo direttamente alle mie impressioni sulla recita, interpretata ieri dal cosiddetto secondo cast.

 
Che vedeva nel ruolo principale il venerabile Vladimir Matorin, ultrasessantenne già protagonista di innumerevoli Boris, che rimpiazzava il giovine Orlin Anastassov, ricoprendo invece accanto a lui il ruolo – non proprio secondario - di Varlaam nelle recite col primo cast. Orbene, senza poter fare confronti, mi pare di poter dire che la sua interpretazione sia stata di buon livello vocale, ma di livello attoriale non meno che straordinario. Un Boris davvero grande: nell'imponenza, anche fisica, della sua figura, come nella tragica schizofrenia che emana dal suo animo esacerbato. Da notare qui un particolare: il famoso monologo Ho il potere supremo era quello della seconda versione (1872) del Boris! (Ma qui siamo nel pieno bailamme delle fonti, e quindi per il  momento non insisto).

 
Sergej Aleksaškin è stato un efficacissimo Pimen, una parte che sembra in certi momenti precorrere nientemeno che il wagneriano Gurnemanz. Detto di passaggio, in effetti fra Musorgski e Wagner ci sono innumerevoli punti di contatto, anche se i due conobbero assai poco delle rispettive opere. Ricordava il compianto Teodoro Celli che proprio la scena del convento dei Miracoli, dove appare Pimen per la prima volta, si apre con misteriose quartine delle viole che richiamano in modo stupefacente le sestine del mormorìo della foresta del Siegfried (io ci aggiungo anche l'introduzione mahleriana al Der Einsame im Herbst). E che la melodia che sostiene l'ultima parte del duetto fra Marina e Grigorij-Dimitri (che qui a Torino ovviamente non si è ascoltato) ha una incredibile rassomiglianza con lo starnberg-iano tema della Pace, sempre dal Siegfried, atto terzo!
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Grigorij (poi falso Dimitri) è Ian Storey. Al solito, come in Tristan, grande presenza scenica – però nessuno gli potrebbe dare solo 19 anni, smile! - accompagnata da una prestazione vocale non più che discreta.
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La coppia Misail-Varlaam è interpretata da Luca Casalin (la parte meno in vista) e da Vladimir Baykov il quale ultimo rimpiazza qui il Matorin del primo cast e devo dire che ci fa un'ottima figura, soprattutto nella sua aria (lo so che Musorgski si arrabbierebbe moltissimo a chiamarla così…) nella quale descrive con realismo misto a compiacimento il simpatico scherzetto – costato 43mila vite, una bazzecola - che il terribile Ivan fece agli sbifidi Tatari di Kazan.
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Evgenij Akimov è l'Idiota (in termine politically correct, l'Innocente). Direi più che buono sia sul piano della gestualità che su quello del suo canto lamentoso e strappalacrime, che nella sua cantilenante languidezza esprime il fatalismo di un intero popolo.
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Ščelkalov è impersonato da Juri Laptev (2° cast). Imponente la sua figura fisica ed efficaci i suoi interventi (nei due quadri estremi). L'inaffidabile Šujskij è affidato (smile!) ad un dignitoso Peter Brondy, voce chiara e sottile (come il carattere del personaggio).

 
Tutti gli altri su uno standard più che onorevole. Un'ultima e doverosa citazione per Pavel Zubov, il ragazzo che recita, e canta benissimo, la parte del giovinetto Fëdor, rampollo di Boris.

 
Non ci sarebbe quasi bisogno di elevare peana ai Cori di Gabbiani e Fenoglio, tanto superbi nel canto, quanto efficaci nei movimenti in scena.

 
Noseda, si sa, ha un feeling particolare con i russi. Forse già innato, ma di certo irrobustito dal suo lungo sodalizio con il Mariinskij. Direzione di assoluto rilievo la sua; che – a mio sentire – si è sempre mantenuta entro limiti di sobrietà, pur non celando tutte le spigolosità e le ruvidezze dell'orchestrazione di Musorgski.

 
Konchalovsky ha chiesto a Graziano Gregori delle scene spartane e minimaliste (in pratica un piano inclinato in sei sezioni che si possono unire o separare in modo da farle alzare ed abbassare alla bisogna. Quindi uno scenario monotono dove, tanto per fare un esempio, non si nota alcuna differenza fra i due monasteri: Novodevici, che era più che altro un rifugio in cui si ritiravano a meditare (o una specie di prigione in cui venivano di fatto rinchiusi) dei personaggi scomodi o complessati, e Chudov, che era invece un classico e rinomato centro di studi e di cultura e – trovandosi proprio dentro il Cremlino – era meta di frequenti visite degli zar, Ivan in primo luogo, come ricorda il vecchio Pimen a Grigorij. Scenario ravvivato però dalle irruzioni delle masse. I cui costumi (di Carla Teti) sono invece di una grande ricchezza (anche gli stracci della povera gente, smile!) e verosimiglianza. Il regista ha fatto muovere bene i personaggi, prendendosi qualche libertà (per giustificare la parcella, al solito): come il figlioletto che, all'incoronazione di Boris, invece di seguirlo, come da copione, gli si abbarbica ad un fianco e viene poi preso in braccio; o come il feroce accoltellamento delle guardie da parte di Grigorij, al momento di scappare dalla bettola. Discutibile anche il cambio di scena, a sipario alzato, fra SanBasilio e Kromy, che in pratica ci mostra un teletrasporto della stessa gente da un luogo all'altro, cosa abbastanza in contrasto con la logica (la seconda folla era appena stata descritta dalla prima) oltre che con il libretto. Di effetto notevole, e pure pacchiano, lo scivolone del trono sul piano inclinato, al momento del redde-rationem per lo zar. Nel complesso, una regìa dignitosa, che come minimo non crea scandalo (ed è già qualcosa).

 
Quindi uno spettacolo sicuramente all'altezza di un importante Teatro, quale il Regio è. Peraltro non destinato – credo io – a fare storia, anche per le ragioni che spiego nel tormentone che segue.
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Musorgski lasciò due versioni, assolutamente compiute e precisamente strutturate, del Boris. Va però notato che la prima (1869) non venne mai eseguita, vivente l'Autore, essendo stata bocciata dai censori estetico-politici del Mariinskij, quindi rimase in uno stato teoricamente modificabile e perfettibile, poiché l'Autore - avesse avuto la possibilità di metterla in scena - di certo vi avrebbe apportato ritocchi e cambiamenti piccoli e grandi, cose che già aveva in mente, o addirittura già scritto, e che utilizzò nella costruzione della seconda versione (1872, che per sua fortuna potè vedere autorizzata e rappresentata) in cui impiegò gran parte dei componenti della prima.

 
Ma allora una domanda viene subito spontanea: se la seconda versione è un passo avanti rispetto alla prima, e a differenza di questa potè essere curata nei dettagli da Musorgski, che cosa cavolo ce ne facciamo oggi della prima, se è solo un abbozzo di quella definitiva?

 
La risposta è semplice: le due versioni non sono affatto una l'abbozzo dell'altra, ma – pur avendo, com'è comprensibile, molte parti in comune – sono nondimeno strutturalmente, drammaturgicamente ed esteticamente assai diverse fra loro. E non solo per i tre quadri aggiunti (e uno tolto) ai sette della prima per costruire la seconda, ma per il diverso focus drammaturgico (e quindi anche musicale) che le due versioni presentano: la prima prevalentemente incentrata sulla complessa figura e sui drammi esistenziali dello zar; la seconda che mette in primo piano il popolo russo, all'interno del cui perenne e quasi disperato fatalismo si inquadra la tormentata figura di Boris. Ecco perché è (ma devo purtroppo dire sarebbe) oggi così interessante poter ascoltare, e vedere in scena, anche la prima versione: perché è di fatto un'opera diversa – pur se con lo stesso soggetto e molto materiale in comune – dalla versione definitiva.

 
Dal punto di vista della struttura del dramma, nella prima versione del 1869 (7 quadri) abbiamo una serie di zoom sulla figura dello zar (Quadro-2, all'incoronazione; Quadro-5 nella dimora di Boris e Quadro-7, al Cremlino) alternata a scene di popolo (Quadro-1, al monastero di Novodevici e Quadro-6, sul sagrato di SanBasilio) e alla presentazione del monaco Pimen e di Grigorij, che diverrà il falso Dimitri (Quadro-3, nel monastero dei Miracoli di Chudov e Quadro-4, in una bettola al confine lituano); e non a caso l'opera si chiude con la morte di Boris, estremo culmine della sofferta esistenza dell'uomo.

 
La versione messa definitivamente in partitura nel 1872 è in 9 quadri, organizzati in un prologo e 4 atti: quelli della prima più tre (i due polacchi e l'ultimo della seconda, di Kromy) meno il penultimo della prima (SanBasilio). Quindi la nuova versione ha una struttura assolutamente (e mirabilmente) simmetrica: agli estremi due scene di popolo (Prologo-scena-1, a Novodevici e Atto4-scena-2, a Kromy); subito all'interno di queste, due quadri con monologhi di Boris (Prologo-scena2, all'incoronazione e Atto4-scena-1, quello della sua morte, al Cremlino); all'interno ancora due coppie di scene – per così dire - di contorno (Atto1, Pimen, Grigorij e i monaci al confine lituano e Atto3, quello polacco, con Marina, il gesuita Rangoni e Dimitri-Grigorij); perfettamente al centro (Atto2) il quadro famigliare dello zar.

 
Si noti che in entrambe le versioni Musorgski segue quasi pedestremente – pur con sue aggiunte o variazioni – la sequenza dei fatti come esce dalla tragedia di Pushkin, che ispirò direttamente la composizione. Si noti anche che, elaborando la seconda versione, oltre ai macro-interventi (aggiunte ed espunzioni di scene) Musorgski operò anche una miriade di modifiche (come detto le aveva già in buona parte in testa o anche scritte) ad almeno 4 dei 6 quadri superstiti: ad esempio espunse dal terzo il racconto di Pimen sull'uccisione, a Uglich, del piccolo Dimitri, erede al trono; aggiunse la canzone dell'anatroccolo all'inizio del quarto quadro (la scena nella bettola al confine lituano); in quella di Terem, gli appartamenti dello zar (quinto quadro, divenuto secondo atto) modificò ampiamente il celebre monologo di Boris Ho il potere supremo; sempre lì, cambiò parecchio le parti dei figli di Boris, in particolare ampliando quelle del piccolo Fëdor e della nutrice; riprese dal sesto quadro (di SanBasilio, espunto nella seconda versione) la scenetta dell'Idiota schernito e derubato dai monelli e la infilò nel nuovo quadro (l'ultimo, presso Kromy) aggiunto come conclusione dell'opera (quadro sulla cui più opportuna collocazione - se cioè non dovesse precedere la morte di Boris - ebbe inizialmente più di un dubbio, accogliendo alla fine i consigli di suoi zelanti amici e propendendo quindi per la collocazione estrema, simmetrica). Insomma, la versione seconda è proprio un'opera diversa.

 
Rimsky rimaneggiò (splendidamente e per due volte, 1896 e 1906) questa seconda versione. Oltre ad apportarvi alcuni tagli (parzialmente ripristinati nel 1906) in parti più o meno secondarie (tolse dei brani, come l'appello di Ščelkalov all'inizio del quadro della morte di Boris) Rimsky fece un primo proditorio attentato alla struttura dell'Opera, scambiando gli ultimi due quadri (dando quindi credito all'idea primitiva, ma successivamente scartata, di Musorgski) e con ciò distruggendo la perfetta simmetria dell'originale; e distorcendone anche il significato complessivo, col riportare in primissimo piano la figura di Boris, la cui morte - e non il perenne e fatalista fluire della vita del popolo russo - torna a chiudere l'opera, come nella prima versione. E questo surrogato di Rimsky, come spesso accade (vedansi Carmen e Medea) è quello che ha fatto la fortuna del Boris per più di 50 anni. Poi arrivò anche Shostakovich a trastullarsi col giocattolo, ri-orchestrandolo, ma in pochi ne hanno fatto un punto di riferimento; stessa fine han fatto per fortuna altre velleitarie revisioni.

 
Quanto alle edizioni critiche, Pavel Lamm a fine anni '20 e – 50 anni dopo – David Lloyd-Jones, ne pubblicarono due di entrambe le versioni, ma in effetti strutturate come una versione che accorpa tutti i quadri (10) delle due originali, contenendo di fatto tutto ciò che Musorgski produsse sul Boris: in sostanza prendendo la seconda versione del 1872 e re-inserendovi tutti i tagli operativi dal compositore, incluso l'intero quadro (il penultimo della prima versione, quello ambientato davanti a SanBasilio) che l'Autore aveva espunto dalla seconda. Dovendo però a questo punto fare i conti con l'Idiota: il quale compare nel quadro di SanBasilio della prima versione (dove incrocia anche Boris) e poi ancora – proprio con le stesse parole e con la stessa musica - nell'ultimo, che lo sostituì, della seconda (a Kromy, dove ovviamente non può incontrare Boris, principalmente perché lo zar a quel momento è già defunto, ma anche perché un Boris che passeggia laggiù farebbe ridere). In queste versioni sedicenti complete, in 10 quadri, l'Idiota compare dapprima nel quadro di SanBasilio, mentre in quello di Kromy si limita ad apparire alla fine, e solo per ripetere il suo lamento fatalista sulle tristi sorti della Russia. Ma – dato che questa versione non è autografa, ma è invenzione di Lamm e Jones – è chiaro che chiunque può decidere e nella realtà ha deciso (ma è solo un esempio fra le tante possibilità combinatorie) di presentare prima Kromy (con/senza l'Idiota) e poi SanBasilio (senza/con l'Idiota) eccetera, eccetera.

 
Come si vede, una storia intricata e infinita. Oggi addirittura si teorizza (lo ha fatto lo stesso Jones, forse per vendere meglio la sua edizione critica) che il Boris sia un'opera aperta, una specie di gioco del meccano da cui registi e direttori possono liberamente divertirsi a prelevare pezzi da montare e smontare a loro piacimento! E, conoscendo la smania di protagonismo di registi e direttori (e aggiungiamoci pure i cantanti) non ci si può meravigliare che tutto questo guazzabuglio di fonti abbia immancabilmente dato la stura a innumerevoli colpi di mano e ad invenzioni più o meno strampalate. Presentate trincerandosi dietro l'alibi che tutta la musica del Boris è grande e che quindi, comunque confezionata, l'Opera farà sempre un gran figurone. (Come quello che immagino farebbe la Nona di Mahler eseguita con l'Andante in testa, i movimenti lenti al centro e il Rondò-Burleske come finale… o no?)

 
Invece ci sarebbe un punto (almeno uno) da tenere ben fermo, poiché di una chiarezza incontestabile: l'incompatibilità fra SanBasilio e Kromy. Certificata proprio dal procedimento tecnico che Musorgski impiegò per costruire la sua seconda versione: eliminare SanBasilio e recuperare da esso ciò che gli tornava utile (la scenetta dell'Idiota) nella costruzione di Kromy. Ciò è la più chiara e convincente dimostrazione dell'impossibilità di coesistenza dei due quadri. E il bello è che – in teoria – ciò viene riconosciuto anche da eminenti studiosi. Come il prof. Richard Taruskin, un cui scritto apre il volumetto del programma di sala del Regio. Peccato che, subito dopo aver riconosciuto la validità dell'assunto logico, il nostro si affretta a dichiararsi entusiasta della convivenza fra i due quadri. E in base a quale ragionamento? Che la cosa piace al pubblico! Grandiosa davvero, questa affermazione, pari alla sua bizzarrìa. Chè allora, visto che sicuramente al pubblico piacerebbero, si potrebbero presentare infinite versioni delle sinfonie di Beethoven, costruite recuperando la montagna di schizzi, appunti e idee che il genio di Bonn ci ha lasciato in eredità. Rob de matt, bisogna avere una cattedra a Berkeley per sfornare simili idee…

 
Apro una piccola e irriverente parentesi, a proposito di professori. L'oggetto è la diatriba riguardo la morte del piccolo Dimitri (figlio di Ivan) che è all'origine di tutti i problemi esistenziali di Boris: morte accidentale, come sentenziò l'inchiesta ufficiale (addomesticata da Boris?) o assassinio commissionato proprio da Boris? Il citato Taruskin scrive che, per Pushkin, la colpa di Boris nell'uccisione dell'erede al trono era un dato di fatto: cosa che oggi nessuno storico crede. Tre pagine dopo la professoressa Caprioglio dell'Università di Torino sostiene che la versione della colpevolezza di Boris è ancor oggi la più accreditata, anche se non mancano gli storici (ndr: i colleghi di Taruskin? smile!) che sostengono la morte accidentale.

 
Tornando a bomba, si fosse coerenti con l'elementare assunto dell'incompatibilità fra quei due quadri, automaticamente le versioni del Boris si ridurrebbero a 3: le due originali dell'Autore più quella, che possiamo tranquillamente – per tutta una serie di buone ragioni - aggettivare come authoritative, di Rimsky. La quale oltretutto accontenta allo stesso tempo gli amanti della bella musica e quelli del finale in REb maggiore (una specie di Götterdämmerung ante-litteram).
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Adesso torno al Regio per chiedermi: cosa hanno combinato Konchalovsky-Noseda? Ecco: come altri, un pasticcio che non è né carne, né pesce, ma è un minestrone cucinato mettendo insieme ingredienti delle due versioni originali, e buttandoli in pentola e sul fuoco con una sequenza diversa da entrambe. Hanno preso come base la versione del 1869, ma poi l'hanno smontata e ricostruita a loro discrezione (vedi il citato arioso di Boris al Terem). Non contenti, strada facendo hanno pure cambiato idea – cosa di cui è bene rallegrarsi, come delle conseguenti modifiche apportate al riassunto dell'opera sul sito del Teatro e parzialmente sul programma di sala (ma non sulle locandine cartacee distribuite gratis) - rinunciando ad un paio di cervellotiche trovate. Sulle quali è comunque utile fare qualche considerazione, sia pure a reato non consumato.

 
La prima idea, falsamente innovativa e sufficientemente strampalata, era l'inversione della sequenza dei quadri 2 e 3. Che avrebbe creato due artificiose fratture all'interno del corpo della prima parte (i primi 4 quadri) oltretutto sovvertendo la cronologia degli avvenimenti: il Quadro-3 (Pimen e Grigorij nel monastero di Chudov) è chiaramente datato (da Pushkin, fonte diretta di Musorgski) nel 1603, quindi con Boris imperante da ben 5 anni, mentre il Quadro-2 è proprio quello che ci mostra Boris appena incoronato, nell'autunno del 1598. Invertirli avrebbe fatto cambiare non poco, o addirittura perdere del tutto, il senso dell'intera vicenda, chè la gravissima ed aperta accusa - abbiamo accettato quale sovrano l'assassino di uno Zar! - che Pimen muove a Boris (di aver soppresso il piccolo Dimitri, erede al trono) perderebbe parecchio di consistenza, se mossa ad un Boris che ancora sovrano non è, ed anzi – da ciò che si è appena udito nel Quadro-1 (Il Boiardo è irremovibile) - sembrerebbe riluttante a diventarlo! E attenzione: Pimen non sta facendo quattro chiacchiere al bar, ma sta scrivendo la Storia della Russia!

 
L'altra trovata – poi rientrata, forse dopo le prove in scena, quindi tuttora presente sul programma di sala - di Konchalovsky-Noseda era la ricomparsa del personaggio dell'Idiota proprio alla fine dell'opera, a lanciare il suo lamento. Col che si sarebbe scimmiottato – non certo ripristinato nella sua valenza drammatica - l'epilogo della seconda versione originale!

 
Delle trovate di regista-direttore è quindi rimasto in piedi l'inserimento (tanto caro a Taruskin) dopo SanBasilio e prima dell'ultimo quadro (morte di Boris) del quadro di Kromy, prelevato dalla versione 1872, recupero giustificato dal regista con la motivazione di voler mostrare al pubblico – soddisfacendone la morbosa curiosità? - dov'era finito Grigorij dopo la fuga in Lituania! Trattasi in verità di motivazione assai labile – pur se addotta già in origine da qualche zelante consigliere dell'Autore - dal momento che ciò è già stato spiegato a josa – poco prima - dai discorsi che la gente fa sul sagrato di SanBasilio e dall'anatema urlato dal pingue diacono contro Grigorij Otrepyev (poi anche dall'oggetto della riunione di Boiari al Cremlino) senza che ci sia bisogno di mostrare Grigorij/Dimitri in carne ed ossa (cosa invece necessaria – si badi bene - a Musorgski nella versione 1872, in conseguenza dell'espunzione di SanBasilio!) E come hanno risolto, regista e direttore, il problema dell'Idiota? Secondo l'approccio della versione di Lamm/Jones in 10 quadri, presentandocelo per il 90% a SanBasilio (scena con i monelli e incontro con Boris, senza il lamento) e per il restante 10% spedendolo in gita-premio a Kromy, solo per esalarvi il suo lamento fatalista sulle misere sorti e regressive della povera madre Russia.

 
Peraltro, dal recuperato quadro di Kromy sono spariti (anche se permangono sulla carta del programma di sala) oltre al 90% dell'Idiota (per i motivi già spiegati) anche i due gesuiti polacchi, quelli che se ne vanno in giro, quasi fossero un'avanscoperta del falso Dimitri, recitando litanie in lingua latina e inneggiando al pretendente-zar. Trovandosi quindi in una imbarazzante situazione, che rischia di fargli fare una brutta fine, poi evitata dal provvidenziale arrivo dello stesso Dimitri: essere dalla parte della folla anti-Boris, ma contemporaneamente invisi, in quanto cattolici, a quella medesima folla di ortodossi, che li tratta come fastidiosi pipistrelli da impiccare. Regista (e direttore?) devono essersi accorti (un po' tardi!) che la presenza a Kromy dei due gesuiti polacchi è una diretta conseguenza (logica, drammatica ed estetica) dell'inserimento nell'opera dell'atto polacco! Quindi si attaglia perfettamente alla versione 1872, mentre ci sta come i cavoli a merenda in quella del 1869, dove di tutte le vicende polacco-gesuitiche di Grigorij-Dimitri nulla viene presentato! Ci voleva proprio quest'altra dimostrazione dell'incompatibilità di Kromy con la versione 1869? Mamma mia…

 
In definitiva: Konchalovsky-Noseda, forse - e senza forse - presi dalla smania di strafare, o illudendosi addirittura di passare alla storia, hanno scelto il peggio degli approcci – già di per sé discutibili - di molti loro predecessori: compiendo quindi un'operazione cervellotica e falsamente innovativa. Il risultato è che lo spettatore non assiste a nessuna delle due – splendide, nella loro diversità – versioni di Musorgski, né a quella musicalmente eccelsa di Rimsky, ma ad un pasticcio che certo accontenterà gli spettatori à-la-Taruskin, ma che lascia un po' di amaro in bocca a chi ha un minimo-minimo di conoscenza degli originali (fatta ad esempio ascoltando le due versioni registrate da Gergiev negli anni '90, che pure avranno qualche pecca, ma sono di certo il meno-peggio in circolazione, in fatto di rispetto dell'Autore). In definitiva, a me pare trattarsi di una – ennesima, e ahinoi non sicuramente ultima - versione-usa-e-getta, non certo destinata a proporsi come pietra miliare nella storia dell'interpretazione del Boris.
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