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09 marzo, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.15

Tutta America nel Concerto di questa settimana, e giustamente è un’americana di nascita (non di origine) Alondra de la Parra, a dirigerlo, tornando qui dopo la sua ultima apparizione risalente ad una data davvero disgraziata per l’Umanità: lo scorso 7 ottobre!

La serata è aperta da Aaron Copland con la sua Appalachian Spring Suite, precisamente il brano con cui la Direttora aveva esordito qui in Auditorium nel 2021, alla ripresa post-Covid (rimando quindi ad alcune note scritte in quella circostanza).
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Ecco poi Leonard Bernstein e le sue Danze Sinfoniche da West Side Story.

Il famoso musical è una moderna ambientazione (a NewYork) di Romeo&Juliet, con Jets e Sharks ad impersonare Montecchi e Capuleti e Tony e Maria nei ruoli dei protagonisti. La suite, intitolata Symphonic dances, presenta i principali motivi del musical raccolti in nove numeri. (Qui l’Autore in una sua esecuzione del 1985, che possiamo seguire nei dettagli in Appendice.)

Bernstein rappresentò musicalmente l'incompatibilità fra le due gang facendo ampio uso dello sbifido tritono, anche nei momenti più lirici, come il celeberrimo Maria (ne sentiamo il motivo nel 5° e 6° numero, ma con sfumature diverse anche al 2° e 7°) che sale da tonica a dominante passando appunto per la quarta aumentata. Ma nell'Adagio finale (che chiude sia l'Opera che la Suite) troviamo nientemeno che una reminiscenza (nello stesso REb!) del wagneriano tema della Redenzione!

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La serata si è chiusa con George Gershwin e il suo An American in Paris.

Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza: è il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all'insù e le orecchie tese.

Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi.

Ora, stanco per la lunga camminata, l'americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo, su un motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana.

Un'ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l'ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
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La simpatica Alondra – ieri il suo fisico da modella abbigliato da moderna sacerdotessa maya - ha saputo cogliere e restituirci il meglio delle tre composizioni: la sognante e arcadica atmosfera dei pionieri di Copland; i ritmi indiavolati della leggendaria Broadway di Bernstein e il multicolore affresco parigino (con ricordi yankee) di Gershwin.

Il suo è stato quindi un gran trionfo con ovazioni e urletti proprio americani di un pubblico entusiasta. Lei ha voluto simpaticamente elogiare e ringraziare l’Orchestra, alla quale (oltre che al pubblico!) ha concesso un meritato bis con il numero di Mambo da WSS.

Dal pubblico le sono stati recapitati mazzi di fiori e mimosa e pure una bandiera tricolore del suo Mexixo, con il quale si è decorata il petto. Insomma, un’autentica fiesta de la Parra
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Appendice. Danze da West Side Story.

1. (10”) Prologue (Allegro moderato). Crescente rivalità fra le due bande (Jets e Sharks).

2. (4’12”) Somewhere (Adagio). Visione onirica della fratellanza fra le due bande. (7’13”) Prima vaga apparizione del tema wagneriano della Redenzione.

3. (8’32”) Scherzo (Vivace e leggiero). Il sogno continua fuori dall’oppressiva città, all’aria aperta e al sole.

4. (10’18”) Mambo (Meno Presto). Si torna al mondo reale e le due gang tornano a fronteggiarsi.

5. (12’37”) Cha-cha (Andantino con grazia). Primo incontro danzante fra i futuri amanti, Tony e Maria (della quale si affaccia, danzante, il tema).

6. (13’37”) Meeting Scene (Meno mosso). Primo scambio di parole fra i due, sul tema di Maria.

7. (14’18”) Cool Fugue (Allegretto). Sempre sul tema di Maria, danza dei Jets per caricarsi alla battaglia contro gli Sharks.

8. (18’02”) Rumble (Molto allegro). Battaglia, in cui restano uccisi i due capi, Riff e Bernard. (19’33”) Cadenza del flauto.

9. (20’10”) Finale (Adagio). Maria introduce una processione che sembra rifarsi al sogno di Somewhere. Tema wagneriano della Redenzione (Götterdämmerung).

01 giugno, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°29

                                           
Il terz’ultimo concerto della stagione principale ci porta in America attraverso un programma incentrato su due dei massimi compositori del ‘900 statunitense: George Gershwin e uno dei suoi più titolati interpreti, Lenny Bernstein. A proporcelo è una premiata coppia di (ancor) giovani ma già collaudatissimi musicisti italici: Jader Bignamini sul podio e Roberto Cominati alla tastiera. Auditorium piacevolmente affollato.

Si apre con il Divertimento for Orchestra, commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein, che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell’opera, suddivisa in 8 brani, infarciti di citazioni più o meno scoperte di musiche famose e/o dello stesso Autore.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria, oltre ad una reminiscenza straussiana (il Till).

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall’andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski nella Patetica aveva usato lo sghembo 5/4).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l’oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni, mentre reminiscenze di musical dell’Autore si fanno distintamente riconoscere.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile, che rimanda allo schumanniano Carnaval.

VII – Blues prolunga l’atmosfera pensosa del brano precedente, su stilemi chiaramente jazzistici.

VIII – In Memoriam; March “The BSO forever”. Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico che ricorda parodisticamente... Radetzky, ma sembra anche portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

LaVerdi ha ripreso questo brano dopo più di otto anni (allora con l’apprezzato Marshall) e Bignamini ce lo ha riproposto con immutata verve e totale coinvolgimento.  
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Ora è la volta di Roberto Cominati a cimentarsi con il Concerto in FA di Gershwin. Tenendo prudentemente lo spartito nella cassa del pianoforte (ne girerà le pagine tre volte in tutto) il nostro pianista volante ne dà una lettura asciutta, forse poco appariscente, ma il risultato alla fine è sempre di tutto rispetto, come certificano le ripetute chiamate del pubblico per solista e direttore.
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Dopo la pausa Cominati (sempre con spartito a portata d’occhio) è ancora protagonista con la celebre Rhapsody in Blue, che è dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Strepitosa l’esecuzione di solista e orchestra (forse Bignamini ha esagerato con i decibel, coprendo talvolta il suono della tastiera) che trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Entusiasmo che sfocia quasi in delirio dopo l’esecuzione della Suite da Porgy and Bess, predisposta da Robert Russell Bennett. È un brano puramente strumentale, mentre tempo fa avevamo ascoltato l’altra Suite, quella più corposa, che include anche le voci (solisti e coro).

I più celebri motivi dell’opera - dall’iniziale Summertime al conclusivo Oh Lawd, I’m on my way - sono qui sapientemente impacchettati in un mirabile bigino che Bignamini (ha diretto tutto il concerto a memoria!) ha valorizzato al massimo, con sincopati e rubati mozzafiato.

Cosa pretendere di più... visto che nel frattempo a Roma qualcuno si degnava di darci un Governo, per il quale proporrei proprio la rassegnata filosofia dello sfigato Porgy: I got plenty o' nuttin', an' nuttin's plenty fo' me.

09 giugno, 2017

2017 con laVerdi – 23


Programma USA con intermezzo svedese(-western) per il ritorno di Jader Bignamini sul podio dell’Auditorium. Il Direttore residente è reduce guarda caso da un lungo giro negli States e quindi questo programma gli cade proprio a... fagiolo.

Si apre con Lenny Bernstein e l’Ouverture del suo Candide, meno di 5 minuti di musica inebriante, che sapientemente assembla alcuni dei motivi caratteristici dell’operetta del 1957. È il classico brano fatto per mettere il pubblico a suo agio e predisporlo a gustarsi il resto del programma: missione pienamente compiuta da Bignamini e dai ragazzi.
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Ora arriva Giuliano Rizzotto, storico primo trombone de laVerdi, per misurarsi con The return of Kit Bones, concerto sceneggiato per trombone e orchestra dello svedese Fredrik Högberg. Esilaranti i risultati della ricerca fatta con le chiavi “kit bones rizzotto” e il motore google: diverse risposte propongono ossibuchi con risotto (!!!)

Composto e presentato per la prima volta nel 2001, è il settimo di una ventina di pezzi di vario genere, ambientati in un immaginario far-west dove fucili, pistole e carabine sono rimpiazzati da trombe, tromboni, tube e bombardini, ed hanno come protagonista il pistolero trombonero Kit Bones. Ecco qui il sesto episodio, il cortometraggio Brass-bones, chiaramente ispirato a Sergio Leone e interpretato nella parte del protagonista da Christian Lindberg, trombonista e compositore svedese.

Il concerto (qui un succinto trailer, sempre con Lindberg che interpreta entrambi i ruoli previsti dal testo) si articola nei classici tre movimenti, corrispondenti a tre diverse scene di film western. 
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Nella prima parte abbiamo una specie di ouverture bipartita, con una prima sezione rapida e (1’32”) una seconda più lenta e contemplativa. A 2’19” un narratore entra e recita una prima strofa della ballata di Kit, poi (2’34”) canta le due strofe (libera traduzione mia, un po’ diversa da quella ascoltata nell’occasione) che si erano udite anche a 12’25” nel citato filmetto, dove viene presentato il protagonista del concerto:

Librarian
This is the story of Kit Bones.
He ruled the west with a slide trombone.
All alone without a home,
He played his plated bone.

He never missed a brassbone fight.
Fastest slide in the west alright.
Blowed them down, standing alone,
with his slide trombone...

Kit Bones with his slide trombone...
Bibliotecario
Questa è la storia di Kit Bones.
Che dominava il west con un trombone.
Tutto solo senza magione,
lui suonava il suo laccato trombone.

Mai mancò di trombonate una lite.
Il più veloce tiro nel west, che dite!
Li soffiava giù, come un pallone,
col tiro del suo trombone...

Kit Bones col tiro del suo trombone...

Ecco che (3’11”) Kit Bones arriva in scena e subito spara ad un trombettista: ne nasce un duello di... ottoni, con interventi di Kit e versacci assortiti:

Kit
Is that a dagger or what?
(...)
(...)
(...)
You’ve got to ask yourself:
Do I feel lucky today?
Kit
É un coltello quello, o cos’altro?
(...)
(...)
(...)
Forse sarà meglio che ti domandi:
sento che mi andrà bene oggi?

A 4’41” il duello prosegue fino alla vittoria del nostro eroe. Del quale ora il narratore (6’15”) ci descrive le qualità amatorie (beh... per la verità le sue sembrerebbero essere, più che delle trombate, delle trombonate!):

Librarian
Quite attractive to the girls,
Always got them a lot of pearls.
Played them tunes they’ve heard before,
They always wanted more.

But when it came to intimacy,
Kit was not what they believed.
Got undressed, then he caressed
With his slide trombone.

Kit Bones with his slide trombone...
Bibliotecario
Molto attraente per le damigelle,
le copriva sempre di mucchi di perle.
Suonava melodie sentite alla tivù,
e loro ne chiedevano ancor di più.  

Ma quando si finiva a letto,
Kit non era come avevan detto.
Spogliatosi, accarezzava le bellone
con il tiro del suo trombone.

Kit Bones col tiro del suo trombone...

A questo punto (6’49”) il primo trombone dell’orchestra si alza e prende di mira il solista. Ne nasce un nuovo duello nel quale il povero Kit (7’29”) rimane seriamente ferito.  

Seconda parte (movimento lento, secondo tradizione classica): Kit Bones è stramazzato al suolo; cerca lentamente di risollevarsi, ma il dolore è troppo forte. Annaspa sul pavimento, in cerca del bocchino del suo trombone. Tutto sembra perduto, pare quasi di assistere al suo funerale, ma alla fine (1’57”) Kit ritrova il bocchino e ricomincia a suonare, rizzandosi in ginocchio, una lunga e triste melopea, che si chiude perdendosi in lontananza.

Terza parte: lentamente la ferita si rimargina e Kit Bones (48”) ritrova l’abituale baldanza, esercitandosi nientemeno che in vista di un’autentica carneficina: così (3’30”) comincia a sparare in tutte le direzioni, prendendo di mira un orchestrale dopo l’altro. Alla fine (4’01”) colpisce anche il Direttore, che si accascia al suolo:

Kit
Oh no, I shot the maestro...
Talk to me, maestro.
Are you OK, maestro?

Maestro
Aahh...

Kit
Quickly! Hand me the stick
And I’ll finish the piece for you!
Kit
Oh no, ho sparato al maestro...
Parlami, maestro.
È tutto OK, maestro?

Maestro
Aahh...

Kit
Presto! Dammi la bacchetta
e finirò il pezzo al tuo posto!

E così è lui (4’26”) a chiudere il concerto installandosi sul podio!
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Trattandosi della prima italiana di quest’opera bizzarra, per l’occasione l’Autore è presente in sala (e nel foyer a firmare i suoi CD) e al termine sale sul palco a condividere con tutti il grande successo della sua invenzione.

Rizzotto interpreta da par suo i ruoli del narratore e di Kit, abbigliato come un moderno cow-boy (il suo fisico imponente è l’ideale per questo tipo di personaggio). Alex Ghidotti e Giacomo Ceresani (rispettivamente prima tromba e trombone dell’orchestra) ricoprono i ruoli dei due comprimari che duellano a trombettate-trombonate con Kit, sistemati al proscenio sulla destra e muniti di cappellacci western, mentre Rizzotto entra da sinistra e suona davanti al podio (nel movimento centrale si sposta dietro i violini). Bignamini nel movimento finale si cala in testa un gran cappellaccio bianco e cade eroicamente sotto i colpi del trombone di Rizzotto, che lo trascina fuori, aiutato da uno degli addetti al palco.

Esecuzione davvero strepitosa di tutti, e così Rizzotto ricambia le ovazioni del pubblico con una languida My funny Valentine, accompagnato da pianoforte, contrabbasso e batteria.

Insomma, un successone che dà lustro a laVerdi, confermandone la vitalità e la propensione al moderno e all’innovazione, innestata sulla ormai solidissima base del repertorio di tradizione.
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La seconda parte del concerto è monopolizzata da George Gershwin, con due composizioni scritte a cavallo del 1930 e ispirate in entrambi i casi ad esperienze di viaggio: si tratta della Cuban Overture (1932) composta dopo una gita ai caraibi e del celeberrimo An American in Paris, che 4 anni prima aveva tradotto in note le sensazioni provate dall’Autore a contatto con la Ville lumièrè.

L’Overture è un brano tripartito, con le due sezioni esterne in tempo vivace che presentano i due temi brillanti, di origine cubana; e quella interna in tempo sostenuto, che ospita un motivo più riflessivo e malinconico. Le percussioni vi hanno un ruolo assai prominente e a loro è riservata (contrariamentee allo standard) anche una posizione molto avanzata nell’orchestra. Seguiamola come interpretata da Lorin Maazel.
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Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (14”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (39”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (44”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (51”) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’58”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’34”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’09”) a piena orchestra, seguito (3’20”) dal secondo.

A 3’43” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’52”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un tema (4’44”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, il famoso motivo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’28”. Poi, a 6’05” i violini entrano con un motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’45”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (8’01”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’17”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’23”) il secondo negli strumentini. I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’53”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.
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Bignamini (che ha disposto le percussioni caraibiche in alto a destra) affronta il brano col giusto cipiglio, mettendone in risalto tutta la freschezza e la latinità. Cura che poi mette anche nell’Americano, trascinando il pubblico all’entusiasmo. Ricambiato, per omaggiare gli archi dopo una serata quasi monopolizzata da fiati e percussioni, con un Gershwin poco più che studente!

18 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°38


L’ultimo concerto della stagione 2016 vede sul podio un altro uscente (dopo la Xian) dai ranghi de laVERDI: John Axelrod è qui per l’ultima volta in veste di Direttore Principale Ospite. Ciò non significa però che abbandoni di brutto l’Orchestra, che già nella prossima stagione dirigerà in due concerti (dei quali uno in particolare si annuncia assai interessante, con lo Schicchi in forma semiscenica).

Per questo addio-arrivederci il Maestro texano ha scelto musiche del suo Paese, anzi del massimo compositore americano: George Gershwin.

Di cui ascoltiamo subito la Rhapsody in Blue, interpretata al pianoforte da Giuseppe Albanese, ritornato qui in Auditorium dopo due anni e mezzo dalla sua prima apparizione (e ancora con le scarpe bicolori!) È dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Il bravissimo Giuseppe sciorina tutta la sua maestria tecnica, ben coadiuvato dall’Orchestra in cui spicca - ça va sans dire – il clarinetto magico di Fausto Ghiazza. Accoglienza trionfale da parte di un foltissimo pubblico, gratificato addirittura di due encore, sempre di musica yankee: The man I love nella elaborazione di Earl Wild e il bellissimo Hesitation Tango di Samuel Barber.  
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Dopo la pausa ecco Porgy and Bess, di cui ascoltiamo la versione da concerto predisposta da Robert Russell Bennett. Si tratta di 14 numeri dell’opera, l’introduzione e 13 song interpretate da soprano (Adina Aaron) e baritono (Michael Redding). Ma dato che ci sono un paio di numeri per il tenore (Sportin’Life) ecco che nel primo di questi (It Ain’t necessarily so) si esibisce dal podio lo stesso Axelrod, che dimostra così di avere una carriera... di riserva, sai mai che torni utile! È questa l’occasione per impegnare a dovere anche il Coro di Erina Gambarini.

Sono 40 minuti di splendida musica, e la concentrazione di queste particolari arie rischia di provocare quasi un’indigestione (invece, diluite sapientemente nelle 3 ore dell’opera si possono meglio... metabolizzare!)

In ogni caso, ben vengano indigestioni di tal fatta! Bravi tutti e successo enorme, con replica del finale strappalacrime (oltre che applausi) Oh Lawd, I’m on my way.
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Adesso solo una settimana di pausa e poi, il 29/12 con l’immancabile Nona, inizia la nuova avventura 2017, 34 concerti che ci accompagneranno fino a metà dicembre.  

18 novembre, 2016

Porgy&Bess alla Scala

 

Per rimpiazzare la reiteratamente differita Fin de partie (chissà se Kurtag ce la farà mai a completarla...) agli abbonati alla stagione operistica è stata gentilmente offerta la possibilità di assistere a Porgy and Bess, tornata alla Scala dopo 20 anni suonati.

Il rispetto delle disposizioni (piuttosto ottuse e/o ipocrite) degli eredi di Gershwin (o cantano solo persone di colore, o l’opera non si può fare in forma scenica) ha indotto Philipp Harnoncourt (figlio del compianto Nikolaus, il quale diresse l’opera nel 2009 a Graz) ad optare per una rappresentazione cosiddetta semi-scenica.  

Il che ha comportato in sostanza la rinuncia a tradizionali scenografie (sostituite da foto o filmati – di Charleston? - proiettati sullo sfondo) e ad un impiego quasi-statico ed oratoriale del coro della Scala (che non è di colore...) sistemato prevalentemente su una tribunetta. Altre trovate sceniche più o meno intelligenti prevedono l’impiego del palco di barcaccia di destra come abitazione di Porgy, una scaletta che collega palco e buca per farvi transitare qualche personaggio che entra ed esce da CatfishRow e le passeggiate in platea (second’atto) dei due venditori ambulanti, a mo’ di maschere che vendevano nei cinema caramelle e gomme americane. Ecco, qualcosa quindi più vicino (ma solo scenograficamente!) ad un musical.   

Quanto al contenuto musicale, Harnoncourt-jr e il Direttore Alan Gilbert hanno seguito evidentemente le scelte di Harnoncourt-sr, che optò per una versione dell’opera basata sulla revisione fatta dall’autore dopo la prima di Boston del 1935. Per limitare ad uno solo gli intervalli, si è spezzato in due – dopo la prima scena - il second’atto (che da solo durerebbe ben più di un’ora) in modo da equilibrare lo spettacolo in due parti di 80 e 90 minuti rispettivamente.

In fin dei conti il risultato complessivo mi è parso di tutto livello. E proprio il coro di Casoni (compresi i piccoli di Marco De Gaspari nella loro fugace apparizione) merita un incondizionato elogio, per la brillantezza e la straordinaria verve che ha messo nel creare le atmosfere, vuoi allegre, vuoi tragiche, della comunità dei negri della South-Carolina. Rimarchevole anche la prestazione dell’orchestra - che Gilbert ha diretto con piglio ma anche con sobrietà di gesto – sempre efficace nelle esuberanti macchie di colore come nei passaggi più intimistici e strappalacrime della partitura. Davide Laura si è distinto nelle diverse apparizioni con il banjo.

Del cast vocale non potrei dire altro che bene: tutti autentici specialisti, tra i quali spiccano Morris Robinson, uno splendido Porgy e Chauncey Packer, brillante Sportin’Life. Bess era l’unica faccia... conosciuta qui da noi (Kristin Lewis) e se l’è cavata discretamente, salvo qualche bercio eccessivo. Ma tutti, proprio tutti hanno dato il massimo contributo alla piena riuscita dello spettacolo, che il pubblico (non foltissimo, ad essere onesti) ha accolto con crescente calore e applausi finali per tutti.

18 marzo, 2014

L’Orchestraverdi ancora alla Scala contro i tumori

 

Ieri sera laVerdi è stata ospite del Piermarini per un concerto a sostegno delle benemerite attività della LILT.

Il programma ricalcava in parte quello dell’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra, ed anche i protagonisti erano gli stessi: Wayne Marshall ed Emanuele Arciuli. La prima parte della serata era infatti occupata dal Concerto di Grieg. Le tre repliche all’Auditorium dei giorni immediatamente precedenti devono aver fatto bene a tutti, così ieri abbiamo assistito ad una performance di alto livello, sia dal lato solistico (ma qui Arciuli aveva poco da migliorare…) che da quello del ripieno orchestrale. Che mi è parso assai più equilibrato, quanto meno rispetto alla prima di giovedì scorso in Largo Mahler.

A meno che la differenza non l’abbia fatta l’enorme spazio del teatro, che tende ad ovattare i suoni, rispetto all’acustica fortemente amplificatrice dell’Auditorium. Fatto sta che mi è parso di udire un Grieg più nordico e… algido di quello di giovedi scorso. E chissà che quest’atmosfera più fredda non abbia contagiato anche il pubblico, che dopo il primo ritorno sul palco dei due protagonisti si è subito azzittito, al che Luca Santaniello non ha potuto far altro che alzarsi e salutare, privandoci di un possibile bis.  
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Marshall ha poi proposto il suo amato Gershwin, ad iniziare dalla simpatica Ouverture da Of Thee I SingSono meno di 5 minuti di musica allegra e scanzonata, proprio come irridente è l’intero musical (del 1931) che satireggia il modo yankee di far politica, ma con una morale positiva (l’amore trionfa su ogni altro interesse e lobby). 
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Ha chiuso degnamente la serata An American in Paris. Riporto qui alcune note di presentazione, scritte quasi 3 anni orsono, allorquando fu Zhang Xian ad eseguirlo in Auditorium.
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Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:

È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all’insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:
Ora, stanco per la lunga camminata, l’americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:


(Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro.?

Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un’ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l’ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
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Alla fine il pubblico si era evidentemente riscaldato e ha quasi preteso il bis: che è arrivato ed è stato poi ancora… bissato, protagonisti la tromba di Caruana e soprattutto il clarinetto di Ghiazza. Un bel regalo per uno come me che ha un quadrupede da custodire… Qui lo ascoltiamo dai PROMS e così scopriamo anche da dove è uscito fuori il nostro attuale PM (mega-smile!)

09 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 23



Dopo una sola settimana torna sul podio Wayne Marshall con un programma tutto americano. Che (purtroppo) è stato modificato rispetto alla locandina originale, che prevedeva la recente Swing Symphony di Wynton Marsalis, rimpiazzata da più tradizionali e familiari opere di George Gershwin

Resta per fortuna l'interessante proposta di The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Una composizione (del 1949, dedicata al mentore Koussevitsky, poi rivista nel 1965 con aggiunte alla parte pianistica del finale) che assomma in sé diverse caratteristiche (o nessuna di esse?) È intitolata Sinfonia e prevede un pianoforte solista, ma non è un concerto… È fornita di un preciso programma letterario, eppure il suo autore sostiene di aver voluto comporre musica pura, che quel programma ha semplicemente evocato, musica nella quale egli avrebbe introdotto quasi inconsciamente riferimenti diretti al programma medesimo. Mah… personalmente credo che qualunque ascoltatore, anche il più musicalmente preparato, fatichi assai a raccapezzarsi in quest'opera se non ne conosce – e pure dettagliatamente – il programma esterno. 
Peraltro, con un minimo di conoscenza dello stesso, l’opera si lascia apprezzare… pur non potendosi chiamare un capolavoro.

Il programma letterario è un lungo poema di pari titolo – scritto fra il 1944 e il 1947 - di Wystan Hugh Auden, poeta britannico trasferitosi in USA nel 1939, in pratica disertando proprio alla vigilia della guerra. Poema scritto in arcaica rima allitterativa, che risente degli effetti traumatici degli eventi bellici e descrive lo stato di straniamento, di sradicamento e di impotenza di tanta parte dell'umanità, vittima di meccanismi e di forze cui non si può opporre. È strutturato – come precisamente sarà la Sinfonia di Lenny – in sei parti: il prologo, in cui tre maschi (Malin, ufficiale dell'intelligence medica dell'aviazione canadese, Quant, impiegato in un ufficio di spedizioni, nauseato dal mondo ed Emble, una recluta della Marina) e una femmina (Rosetta, impiegata all'ufficio acquisti di un supermercato) – nessuno di loro originario di NewYork, quindi tutti a loro modo piuttosto sradicati - si incontrano per caso in un bar di Manhattan in piena guerra; le sette età, in cui i quattro si raccontano le proprie esperienze di vita, suddivisa appunto in sette fasi, dall'infanzia alla morte; i sette stadi, in cui i quattro immaginano (senza peraltro cavare un ragno dal buco) come ritrovare, attraverso viaggi in onirici paesaggi, una vita serena, lo stadio preistorico di felicità e la fede in Dio; il lamento per la mancanza di un grande condottiero che indichi loro la via da percorrere; la mascherata, che si svolge nell'appartamento di Rosetta, dove tutti (i maschi soprattutto) si ubriacano definitivamente, finchè i due più anziani se ne vanno a casa e il giovane Emble finisce spossato… nel letto di Rosetta; l'epilogo, in cui l'alba riporta ciascuno al proprio quotidiano tran-tran, in cerca di… una fede che pare impossibile da mettere in pratica.

Ma che secondo Bernstein è raggiungibile, nel suo finale, in cui pare di sentire nobili echi mahleriani. La Sinfonia è suddivisa in due parti, di tre sezioni ciascuna: la prima consta delle tre scene nel bar di Manhattan; la seconda contiene la sezione del lamento (mentre i quattro sono su un taxi che li porta verso l'appartamento di Rosetta) e le due sezioni conclusive. Tutta la prima parte potrebbe vagamente essere considerata il primo tempo di una sinfonia (tema e variazioni); poi c'è il movimento lento, ancora una cosa simile ad uno scherzo e quindi il finale.

Nella sua prefazione alla partitura Bernstein, dopo aver ammesso di essere rimasto letteralmente affascinato dal poema di Auden (che invece considerò la Sinfonia una cosa estranea ad esso!) spiega come la parte pianistica rappresenti autobiograficamente se stesso, totalmente immedesimatosi nel poema, che si specchia nell'orchestra (indifferente, se non proprio ostile) come nel mondo circostante. Seguiamo le sue concise note didascaliche per orizzontarci nel gran ginepraio della partitura, aiutati da una minuziosa analisi fatta da una musicofila presso l'Università di Rochester.

Part I

a. Prologue. Presenta l'incontro dei quattro personaggi nel bar della Terza Avenue, dove cercano scampo, bevendo, dai loro quotidiani problemi esistenziali. È una sezione assai breve, che consiste nella malinconica improvvisazione di due clarinetti (in echotone) seguita da una scala discendente che fa da ponte verso l'inconscio in cui si svolge poi il resto della storia.

Sono soltanto 28 battute (Lento moderato, poi Poco più andante) in cui i due clarinetti, con suono appena udibile 
(l’echotone in pratica fa assomigliare il suono a quello di uno zufolo, forse in omaggio al carattere di egloga del poema di Auden) ci introducono un'atmosfera di tristezza, e pure di inquietudine, come testimonia il tritono (RE-LAb) già nella prima battuta:

seguiti dal primo flauto che – su un sottofondo di timpani, con arpa e violoncelli che suonano accordi di quarte sovrapposte - intona una lunga scala discendente (dal RE# acuto a quello due ottave sotto) alla fine della quale il secondo flauto ricorda il primo tema:


Questi motivi torneranno poi nel seguito ed anche nel finale della sinfonia.

b. The Seven Ages (Variations I-VII). Bernstein spiega che quelle che seguono non sono classiche variazioni su un tema predeterminato, bensì ciascuna varia la (e/o risponde alla) precedente, analogamente al flusso dei discorsi dei quattro personaggi che raccontano le loro esperienze. 

È il pianoforte solo ad aprire la prima variazione (sole 15 battute) che rappresenta l'infanzia e ricorda dapprima il tema discendente e subito dopo l'incipit del tema dei clarinetti nel prologo. Poi entra l'arpa ed espone, raddoppiate all'ottava, su un tremolo delle quarte dei violoncelli con sordina divisi in tre parti, le sedici note discendenti udite dal flauto poco prima:

La seconda variazione (l'adolescenza) è più corposa e vi è protagonista il pianoforte, che suona continuamente e sviluppa un frammento del tema discendente udito in precedenza: 

Gli strumentini espongono un nuovo motivo – due quarte ascendenti seguite da una terza minore discendente - che verrà impiegato nelle successive variazioni:
Questa variazione (Più mosso, rubato, come si addice alla turbolenza adolescenziale) è composta da due sezioni (la seconda in effetti è una… variazione della prima) con frequenti esplosioni di semicrome, fino ad adagiarsi (Quasi lento) sulla…

Terza variazione (Largamente) che rappresenta la prima maturità, dove il pianoforte tace e sono violini e corno inglese ad esporre maestosamente il motivo degli strumentini nella precedente variazione:

Si noti il frammento di seconda maggiore ascendente seguito da una quinta giusta discendente, poiché darà l'appiglio alla variazione successiva. Il motivo principale è ripetuto dai corni, con flauto e oboe, prima che il violino solo, in una nuova breve sezione, ne esponga uno specchio:
L’arpa e gli archi accompagnano il tema, ripetuto due volte, più la terza variata, con un ritmo quasi marziale, a sottolineare la determinazione, caratteristica di questa età dello sviluppo umano.

Nella quarta variazione si manifesta l'accettazione della dura realtà della vita. Sul tempo sghembo di 5/8, è dominata dal pianoforte, che ne espone l'idea principale, derivata dall'inciso della variazione precedente (qui è una seconda minore seguita da una quinta discendente):

Negli archi (e terza tromba) torna il motivo esposto originariamente nella seconda variazione:
La prima tromba vi espone infine un motivo da cui germinerà la quinta variazione:
Il tempo mosso e le agitate semicrome del pianoforte accentuano il senso di smarrimento e depressione di questo stato dell'esistenza.

La quinta variazione evoca l'improvviso arrivo del successo e l'apparente raggiungimento del benessere esistenziale. Il tempo è agitato, misterioso ed il clarinetto attacca con semicrome che ripetono il motivo della tromba della precedente variazione:
I legni e poi gli archi espongono un secondo motivo:

Dopo una transizione, affidata al pianoforte con intrusioni dell'orchestra - con i corni che letteralmente urlano - i motivi vengono ripresi, sempre con un ritmo che dà l'idea di una vita che procede da un successo all'altro, fino a… spegnersi su un nuovo motivo del flauto, che caratterizzerà la successiva variazione:
La sesta variazione (poco meno mosso) rappresenta l'invecchiamento e la constatazione della fallacia del successo e l'idea che la felicità si possa trovare solo tornando all'innocenza della fanciullezza. È piuttosto breve (solo 26 battute) ed è il solo pianoforte ad esporla, inizialmente con un motivo derivato da quello appena suonato dal flauto nella variazione precedente, indi richiamando fugacemente il primo motivo del prologo, poi esponendo un nuovo motivo, sempre derivato dal primo, che verrà impiegato nella settima variazione:

La settima variazione rappresenta l'estrema vecchiaia e… la morte. L'oboe espone un motivo derivato dalla variazione precedente, quindi sempre oboe e poi clarinetti espongono il motivo iniziale del prologo:
Infine il pianoforte – con i violoncelli sempre ad accompagnare con quarte sovrapposte - la chiude esponendone il motivo discendente (cui sovrappone il primo) che parte sempre dal RE#, ma questa volta percorre ben quattro ottave discendenti, anzi di più, fino al DO# e finalmente al DO (da cui ripartirà la prossima sezione) come a dipingere il lento cadere della vita nell'abisso del nulla:
Si notino in particolare le quarte dei violoncelli in accompagnamento, poiché sarà da lì che sgorgherà il tema principale della successiva variazione. Flauti e clarinetti accompagnano mestamente la cerimonia…

c. The Seven Stages (Variations VIII-XIV). Sono altre sette variazioni che evocano gli immaginari viaggi dei protagonisti, singolarmente o a coppie, alla ricerca della perduta e irraggiungibile felicità. Al termine dei quali viaggi (per quanto infruttuosi) i quattro si sentono uniti dall'esperienza comune e cominciano ad agire come un unico organismo.

Il primo stadio (ottava variazione
si riferisce alla constatazione, fatta dai quattro protagonisti dopo aver percorso tutti i panorami, dalla preistoria ad oggi, della costante presenza del dolore nella vita dell'uomo, in tutte le epoche della nostra civiltà. Il tema principale (quarte ascendenti SOL-DO) è esposto inizialmente da corno inglese e viole, mentre il pianoforte presenta un motivo ostinato, che verrà ripreso anche dagli archi, caratterizzando l'intera variazione:
Poco più avanti il pianoforte espone un'altra idea:

Tutta la variazione è sostenuta dall'ostinato (il cui incipit pare il dies-irae) su cui si innestano i due motivi principali, ripetuti due volte: il tutto crea – fedelmente al soggetto letterario - un'atmosfera di tristezza e rassegnazione.

Nel secondo stadio (nona variazionei quattro si dividono a coppie (i due giovani, Rosetta ed Emble e i due attempati, Quant e Malin) e partono per un cammino di analisi dei valori della società. 
Sono le note dell’ostinato a costituire il nerbo della variazione, esposte inizialmente dai violini e poi variate in continuazione (l’ultima figurazione servirà poi a sostenere la variazione successiva):

Una seconda idea è presentata dal pianoforte e poi si ripete in altri strumenti durante questa variazione:

Infine vediamo riapparire nell’oboe (alterata nel ritmo) l’idea iniziale della variazione precedente:


La variazione è divisa in due sezioni (separate da una lunga pausa): la prima molto pesante (forte e fortissimo) e la seconda molto tenue e dolce, forse a rappresentare l’atteggiamento delle due coppie (gli attempati e i giovani); poi alla fine il ritmo accelera per arrivare ad una conclusione tutt’altro che serena.

Nel terzo stadio (decima variazionei quattro si ritrovano davanti all'oceano e meditano sulla piccolezza dell'uomo. Formano due nuove coppie (Rosetta-Quant e Malin-Emble) e si mettono alla ricerca della possibilità di rendere il mondo meno insicuro e terribile. Vanno in città e scoprono la tendenza che molti hanno a farsi assorbire dalla sua vita tumultuosa perché timorosi per la propria stessa libertà. 

L’idea principale deriva dall’inciso di seconda minore ascendente seguita da una quinta discendente, che avevamo già incontrato nella quarta variazione e che era tornato anche in chiusura della nona. È il pianoforte ad esporla inizialmente, su un tempo che alterna battute in 4/4 alla breve e in 3/4:


Essa viene poi ripresa a canone dai fiati, mentre il pianoforte si sbizzarrisce in veloci semicrome. In aggiunta al ritmo claudicante, la chiusura improvvisa e sospesa della variazione lascia proprio un senso di insicurezza! 

Il quarto stadio (undicesima variazione) vede i quattro in una moderna città, dalla quale si allontanano avendone toccato con mano la superficialità della cultura e l'infelicità che ne deriva. Il pianoforte espone il primo motivo, una vaga derivazione da quello con cui era iniziata la precedente variazione e subito dopo un suo controsoggetto e ancora un altro motivo, usato poi come accompagnamento:

Il trattamento fugato della variazione è l’unico labile appiglio al testo letterario (la fuga dalla città). 

Nel quinto stadio (dodicesima variazione) i quattro fanno una gara nella speranza di scoprire che l'uomo può vivere felice: vi è rappresentata una grande casa, in cui Rosetta crede di trovare la risposta alle sue aspirazioni (ma ne uscirà profondamente delusa). 

È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:


Nel sesto stadio (tredicesima variazione) i quattro capitano in un camposanto e meditano sulla morte e sulle impurità che albergano nei propri cuori. Il motivo principale proviene dalla precedente variazione ed è esposto dal pianoforte, contrappuntato dall’ostinato di tromboni, tube e controfagotto:


Il pianoforte poi improvvisamente tace per il resto della variazione, dove prevale il tema – molto espanso, fino a diventare quello iniziale della variazione precedente, su 15 note – dell’ostinato:


Il quale viene esposto ripetutamente dalle diverse sezioni dell’orchestra, che forse rappresentano i sentimenti dei diversi personaggi del poema. 

Il settimo ed ultimo stadio (quattordicesima variazione) vede l'illusione dei quattro, nel giardino ermetico, che credono di sapere come raggiungere il loro obiettivo, ma vengono ricondotti alla triste realtà da cui cercavano di distaccarsi.  

Il pianoforte riespone le 15 note del motivo allargato dell’ostinato, poi gli strumentini rispondono con il motivo principale della variazione precedente:
Più avanti i clarinetti espongono un nuovo motivo che verrà ripreso dai primi violini, in contrappunto con le ultime sette note del motivo allargato dell’ostinato
 
Prima della cadenza conclusiva udiamo un ultimo martellante motivo, esposto a piena orchestra: 
 
La cui conclusione è secca e pare lasciare poche speranze… 

Part II

a. The Dirge. I Quattro – in un taxi – piangono la perdita del colossal Dad (il colossale papà). La sezione impiega armonicamente una serie di 12 note da cui evolve il tema principale. Con esso contrasta una sezione centrale, caratterizzata da romanticismo brahmsiano (sic!) 

È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:


Il tema principale, che evolve dalle note 8-10 della serie, viene dapprima esposto dall’ottavino:

Poi il pianoforte ripete più volte, variata, la serie iniziale, contrappuntato dagli archi che suonano il tema principale. Ora tutta l’orchestra espone il motivo ostinato finchè gli archi (violini esclusi) chiudono la prima sezione con una parte del tema principale. 

Nella sezione interna (brahmsiana, stando a Bernstein) è protagonista il pianoforte, che espone un nuovo motivo:

 
Il quale viene successivamente variato, prima per terze, poi per ottave, e su un tempo che continuamente accelera e decelera, allargandosi alla fine, per introdurre la sezione conclusiva, aperta dal pianoforte accompagnato dall’intera orchestra con la serie iniziale (una battuta), dopodiché il pianoforte tace, mentre l’orchestra ripropone l’ostinato; indi il clarinetto e i primi violini tornano sul tema principale, seguiti dal pianoforte, che ricompare con un’ultima reminiscenza del tema con cui aveva aperto la sezione centrale, prima che il lamento termini con le dodici note verticalmente sovrapposte:

 

b. The Masque. I Quattro sono nell'appartamento di Rosetta, decisi a fare un party, ma canzonandosi a vicenda. È uno scherzo per pianoforte e percussioni a base di piano-jazz. Il party si chiude con la partenza dei due più anziani, lasciando il pianoforte-protagonista traumatizzato. 

Per 11 battute l’accordone che ha chiuso Dirge permane negli archi, mentre (a misura 3) il pianoforte, supportato da buona parte delle percussioni, presenta un motto che introduce lo spunto e il ritmo poi impiegato nel primo tema:
 
Il quale tema è esposto sempre dal pianoforte:


 Tema che viene ripetuto più volte, variato e interpolato con altre idee, come questa:
E come quest’altra:

 
Poi sempre il pianoforte espone un quarto motivo, in ritmo rag
 
L’intera sezione è costituita dalla reiterazione di questi quattro motivi, sempre nel pianoforte, con un’eccezione costituita dall’intervento congiunto di celesta, arpa, glockenspiel, xilofono, percussioni e contrabbassi (una jazz-band davvero inusuale!) ad esporre la terza idea. Poi il pianoforte riprende l’iniziativa, ma la celesta lo sfida letteralmente, con velocissime semicrome, seguita poi anche da arpa e percussioni, prima che l’iniziale motto porti alla conclusione, cui si collega senza pause il finale

c. The Epilogue. È il pianino in orchestra che continua al posto del pianoforte solista la musica della mascherata, rappresentando la separazione del protagonista medesimo dal colpevole disertore, e consentendogli di ragionare su ciò che resta dietro tutto il vuoto e l'inconsistenza in cui ha vissuto. E, secondo Bernstein, ciò che resta è la fede. La tromba ne interpreta il concetto con un motivo che Bernstein chiama something pure (qualcosa di puro). Dapprima gli archi rispondono con una malinconica reminiscenza del motivo del Prologue. E abbiamo una specie di prova di forza fra i due motivi, finchè, improvvisamente, anche gli archi cedono a quel qualcosa di puro, nel segno della fede ritrovata. 

Nell'Epilogo il protagonista (pianoforte) - nella versione del 1949 - rimaneva silenzioso, semplicemente osservando  i fatti dall'esterno e limitandosi ad un accordo... di accordo (!) nella quart'ultima battuta. Bernstein revisionò il finale nel 1965, introducendovi la parte del pianoforte, che prende il posto del violino e che ha una cadenza tutta per sè.

Il pianoforte tace alla chiusa della Masque, ma per 4 battute tutta l’orchestra continua a martellarne il ritmo. Al posto del pianoforte le risponde per 22 battute il pianino (in orchestra) che la tromba contrappunta con un motivo (dolcissimo e nobile) per quarte discendenti e ascendenti, che rappresenta la prima idea tematica:

Ora segue un Adagio dove i violini primi espongono un tema che è reminiscenza del Prologue:
Poi ricompare il pianoforte – nella versione del 1965, prima era il violino - che reitera quella reminiscenza, arricchendola ulteriormente e facendone scaturire una nuova idea:
Queste tre idee tematiche vengono presentate alternativamente, prima della Quasi cadenza in cui il pianoforte rievoca motivi del Prologue e delle Seven Ages, mentre il pianino si aggiunge alla fine con una reminiscenza del ritmo della Masque.

Ora il pianoforte tace e l’orchestra (con serenità) espone il tema something pure, in 7/4 (4+3):
Sono le quarte, discendenti e ascendenti, a caratterizzarlo. Anche il tema ostinato dell'ottava variazione torna, ma depurato della sua sinistra somiglianza col Dies-irae, e conduce alla conclusiva perorazione, cui il pianoforte si associa – ma distinguendosi, da solo - con una semiminima, prima delle tre luminose battute dell'intera orchestra, sull’accordo di DO#:


Un finale che, con tutte quelle quarte (dominante-tonica) pare richiamarsi, ad esempio, alla Terza di Mahler, che non per nulla racconta l’amore… 
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Eccellente la prestazione al pianoforte di Emanuele Arciuli (che per sicurezza, non si sa mai… ha tenuto lo spartito nella cassa del pianoforte) ben coadiuvato da Marshall e dall’orchestra, dove la band delle percussioni ha fatto faville, insieme alla brava Carlotta Lusa, che si è letteralmente sdoppiata fra celesta e pianino, facendo per due volte la spola fra la prima (posta al proscenio, sulla destra) e il secondo, dislocato dietro la quinta, per meglio rendere l’effetto di distanza (o per mancanza di spazio sul palco, smile!

Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels). 

Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra. 

Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili. 

Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni. 

Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa. 

Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.   

Prossimamente avremo il ritorno di XianZhang con un corposissimo programma e un Mahler poco conosciuto.