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13 ottobre, 2024

Il Rosenkavalier di Salzburg (2014) per la seconda volta alla Scala.

Ieri l’argenteo cavaliere straussiano, come originariamente prodotto a Salzburg nell’ormai lontano 2014, è tornato per la seconda volta a far visita al Piermarini, dopo la prima apparizione del 2016. Allora, teatro semideserto, ieri pieno come un uovo! Che sia perchè sul podio c’era il grande Kirill Petrenko?

Alla regìa, scomparso nel 2019 l’ideatore Harry Kupfer, Derek Gimpel. Superstiti delle recite del 2016 la Marescialla Krassimira Stoyanova e il buzzurro Ochs di Gunther Groissbock.

Non sto quindi a commentare la regìa, ennesima e discutibile ri-ambientazione del soggetto al tempo della composizione dell’opera o giù di lì, cosa che non condivido per varie ragioni, già in passato riassunte in queste mie considerazioni, ehm, filosofiche.

Il trionfatore della serata è stato (ma si poteva tranquillamente prevederlo) il Direttore russo, subissato da applausi e ovazioni ai due ritorni sul podio e al termine della recita

Ovviamente i suoi meriti sono squisitamente di natura musicale: non una battuta di Strauss è andata persa o manomessa, o deturpata: tutta l’opera è corsa via con quel carattere fluido che proprio l’Autore riconosceva essere nel DNA di questa musica. Nel saggio pubblicato sul programma di sala, Quirino Principe definisce il Rosenkavalier come opera dominata né da Apollo, né da Dioniso, ma da Hermes, il dio della musica. Ecco, mi verrebbe da dire che Petrenko abbia proprio interpretato così questo capolavoro.   

Di lui va celebrata la modestia e il riserbo: alle tre entrate sul podio ha dato solo un fugace saluto al pubblico; alla fine ha ringraziato ripetutamente l’orchestra, che ha sfoderato una prestazione davvero impeccabile, quasi senza neanche guardare la sala, che lo stava letteralmente sommergendo di ovazioni da stadio! E anche all’ultimissima uscita singola si è rivolto più alla buca che al pubblico.

Detto dell’onorevole prestazione del coro di Alberto Malazzi, rinforzato dai piccoli di Marco De Gaspari, resta da spendere poche parole sulle voci.

I due cugini più maturi non solo non hanno perso nulla rispetto alle loro prestazioni di 8 anni fa, ma mi sento di dire che abbiano acquistato (la Stoyanova in particolare) spessore sia vocalmente che scenicamente.

Kate Lindsey è stata un’ottima Octavian, e una superlativa Mariandel. Con qualche decibel in più di proiezione della voce le avrei assegnato la lode.

Johannes Martin Kränzle ha ben meritato come Faninal: anche per lui il Piermarini è forse troppo vasto!

Benissimo Sabine Devieilhe come Sophie, voce appropriata al personaggio, acuta (qui ha già fatto Zerbinetta!) ma rotonda, e soprattutto ben proiettata.  

Accomuno tutti gli altri (Gerhard Siegel, Valzacchi; Tanja Ariane Baumgartner, Annina; Caroline Wenborne, Jungfer Marianne Leitmetzerin; Bastian-Thomas Kohl, Notaio-Commissario e Jörg Schneider, Maggiordomo di Faninal – Oste) in un generale apprezzamento, ma con menzione per la Wenborne.

Per ultimo (italianità…) lascio Piero Pretti, interprete del Tenore, che deve cantare la famosa arietta di Molière (più… metà) nella sala dei ricevimenti del primo atto. Per dire che non se l’è cavata per niente male… salvo che anche lui, come il 90% dei tenori, non canta tutte le note di Strauss!

Si osservi il brano incriminato:

Il verso in un baleno viene cantato due volte, a breve distanza. La prima volta le parole in un ba… salgono dalla dominante LAb alla sesta SIb percorrendo croma, semiminima, semiminima, croma. Nella ripetizione quelle parole compiono lo stesso balzo in alto, ma con semiminima puntata più sei semicrome.

Della ventina almeno di esempi disponibili in rete, con i tenori più famosi di oggi e di ieri, io ho trovato ad eseguire precisamente il secondo passaggio solo Ben Heppner (59”), Fritz Wunderlich (1’53”) e Josef Traxel (1’25”). Gli altri al massimo, eseguono 4 o 5 delle sei semicrome.

Peccato, perché questa è una delle tante piccole ma preziose perle che Strauss ha disseminato nella sua straordinaria partitura, per evocare la consuetudine - tutta settecentesca - di lasciare all’interprete la libertà di variare le ripetizioni con propri abbellimenti.

Chiudo confermando comunque un voto di eccellenza a questa produzione, di cui il merito preponderante va al piccolo, grande… Cirillo!  

29 gennaio, 2023

La Scala celebra i Vespri d’oggi.

Tornano alla Scala dopo più di 30 anni i Vespri… modernizzati. Nel senso che il soggetto messo in scena (oggi dal visionario Hugo De Ana) è un’attualizzazione plausibile – a livello concettuale – del testo originale di Scribe con la conseguente musica del Giuseppe.

Cioè ci vediamo due ben distinte parti in causa: un regime invasore/oppressore (rappresentato da tale Monforte) e un popolo ribelle/resistente (guidato da tale Procida). Quindi, per stare alle più attuali delle attualità: Russia-Ukraina, oppure Ayatollah-popolo, o anche Turchia-Kurdi, Talebani-popolo e così via elencando piacevolezze simili disseminate sull’intero pianeta. Pertanto nessuno si scandalizzi se in scena si vedono i Leopard e le squadre speciali antisommossa: mutatis-mutandis, è sempre l’eterno scenario che si ripete, nel 2023 come 741 anni addietro.

Nulla a che vedere perciò – tanto per citare un clamoroso caso contrario, cioè di assoluta inconsistenza fra l’attualizzazione registica e il soggetto originale – con la visione lunatica presentataci da Livermore a Torino nel 2011 in occasione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.

Tuttavia il regista argentino si è beccato una nutrita salva di buh all’uscita finale, il che dimostra che il non stravolgimento dei contenuti del soggetto originale non sia condizione sufficiente a garantire il successo della messinscena.

Di cui probabilmente il pubblico (e il sottoscritto fra questi) non ha gradito l’eccessiva insistenza sugli aspetti crudi, cruenti e nichilisti della repressione e delle umiliazioni che il potere infligge al popolo vessato. Insomma, nel Vespri di Scribe-Verdi ci sono anche squarci di luce e di serenità, che sono dal regista totalmente ignorati. Quindi: cannoni e tank fin dall’inizio, poi scene di continua desolazione: Procida approda sui resti di una battaglia, non in una ridente valle, con colline fiorite di cedri e aranci; sulle note della barcarola vediamo (in luogo di donne adagiate su molli cuscini sul battello) donne a terra prive di sensi (forse stuprate dai biechi invasori?); e il carcere dell’atto IV nulla ha da invidiare a Guantanamo

E sempre incombe in scena la morte: quella del Settimo sigillo! Che fin dall’inizio gioca a scacchi con il soldato crociato: ??? Si, vabbe’, Federico II era stato alla quinta crociata 60 anni prima del Vespri… o il regista aveva in mente qualche altro nesso con il soggetto da rappresentare?

Ecco, a questo punto si può inserire il discorso sui balletti. A parte quella sulla lingua (in Italia ormai è raro - e forse avrebbe poco senso - dare l’opera in quella originale francese) la domanda che sempre ci si pone di fronte all’annuncio della messa in scena di Vespri è proprio questa: ma i balletti? Ebbene, proprio nella precedente comparsa al Piermarini (Muti, 1989, con Pizzi) vennero tutti eseguiti, mentre oggi si è deciso per il no. Quindi: niente Quattro Stagioni (Atto III, Scena V) e niente Sposalizio (Atto V, Scena I).  Resta un minimo di coreografia per la sola Scena VI dell’Atto II, il ratto delle siciliane da parte della soldataglia francese aizzata da Procida.

Di sicuro c’è che, con la regìa di De Ana, le danze (35 minuti di grande musica!) ci sarebbero state come i cavoli a merenda, quindi viene spontanea la domanda sul nesso causa-effetto fra messinscena e balletti: è la rinuncia preventiva del Teatro a presentarli (causa) ad avere consentito a De Ana questa messinscena (effetto) o è l’impostazione registica (causa) che ha imposto al Teatro di rinunciare ai balletti (effetto)? Si accettano scommesse in merito…
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Molto meglio le cose sono andate per fortuna sul piano musicale, grazie alla perizia del concertatore: Fabio Luisi ha dato, fin dall’impeccabile esecuzione della grande Sinfonia, una lettura convincente della partitura verdiana, cogliendone sia la tinta generale che i minimi dettagli e sfumature. Massima precisione nel gestire il palco, con attacchi a voci e coro sempre precisi e con dosaggi delle dinamiche che mai hanno penalizzato le voci.

Dati i giusti meriti, ma è quasi scontato, al Coro di Malazzi, va elogiato in blocco il cast delle voci: a cominciare da quelle dei due personaggi rappresentativi delle due parti in causa: Luca Micheletti, un Monforte di grande spessore, nei suoi atteggiamenti da dittatore come in quelli del padre che inopinatamente ritrova il figlio perduto; e Simon Lim (cresciuto in passato all’Accademia scaligera) che è stato un Procida tanto più meritevole in quanto arrivato sulla scena quasi all’ultimo momento.

Piero Pretti è un convincente Arrigo, voce squillante, acuti ben tenuti ed efficace resa di questo tormentato personaggio, vittima del… destino cinico e baro.

Vengo ora alla Elena di Marina Rebeka: tutto bene per lei fino alla seconda scena dall’atto IV (il duetto con Arrigo, dopo la scoperta dell’identità dell’amato, al termine del quale ha avuto un meritato applauso a scena aperta). Poi il patatrac: alla fine della Siciliana (che poi sarebbe una… Polacca) dell’atto conclusivo, una sonora salva di buh dal secondo loggione si è mescolata ai prevalenti applausi del resto del pubblico! Per me, davvero incomprensibile. E le contestazioni, più o meno isolate, sono poi proseguite alle diverse uscite finali. Mah…

Bene tutte le altre voci maschili (bassi e tenori) che hanno dignitosamente e meritoriamente dato il loro contributo al successo della parte musicale dello spettacolo.

21 giugno, 2022

Il nuovo Rigoletto di Martone-Gamba piace a metà

Dopo 28 anni, è arrivata al Piermarini una nuova produzione di Rigoletto. Che la metà abbondante del folto pubblico ha accolto con calore (non calor-rosso, per la verità) ma che una robusta minoranza ha invece mostrato di non gradire, prendendosela proprio con i due artefici della proposta, sonoramente buati (più il regista) alle uscite finali.

Personalmente sarei più accomodante con Michele Gamba, che il suo compitino lo ha svolto con diligenza, forse con eccessivo distacco e con venature veriste mutuate dall’approccio interpretativo (il famigerato Konzept) di Mario Martone.

Il quale regista, volendo a tutti i costi attualizzare ai tempi nostri il soggetto, e non trovando esempi calzanti, ha fatto la facile scelta (per lui non nuova, ergo recidiva – vedansi i suoi Oberto e Cena delle beffe scaligeri) di ricorrere al trito riferimento alla malavita organizzata. Cioè dal Palazzo del Louvre (Hugo) e dal Palazzo ducale di Mantova (Piave) che sono – a dispetto delle malefatte dei loro inquilini – sedi del potere costituito, lui ci ha portato dai… Casamonica! E notoriamente alle feste dei Casamonica si balla il perigordino (! mamma mia!) E Monterone è evidentemente il capo di una cosca rivale cui il Duca ha fatto le scarpe riducendolo in miseria, e per di più sottraendogli (per ingropparsela) la figlia… Ben si spiega quindi la scena sulla quale cala l’ultimo sipario: l’irruzione dai Casamonica di una banda rivale che mette tutto a ferro e fuoco!

II lato-b della scena girevole (il cui lato-a è la villa dei Casamonica) dove dimora Rigoletto, è quindi il più orripilante quartiere degradato della più degradata periferia dei nostri tempi; nell’atto terzo si trasforma nel bordello gestito da Sparafucile e soreta: puro verismo!

Al Duca Verdi riserva uno squarcio di umanità (Ella mi fu rapita…) che Martone gli nega proditoriamente mostrandocelo mentre si dispera tracannando un whisky dietro l’altro… Gilda da parte sua non pare proprio una Maria Goretti sinceramente innamorata, ma piuttosto una ragazza moderna insofferente ai divieti che le impone un padre-padrone.

Insomma, una concezione francamente lunatica, quindi (per me) deludente, ecco.
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Il fronte dei suoni ha risollevato abbastanza la media. Detto della concertazione poco… emozionante di Gamba, vanno elogiati il Coro di Malazzi (sempre una sicurezza) e le voci dei due bassi Fabrizio Beggi e Gianluca Buratto, davvero all’altezza dei due ruoli comprimari (Monterone e Sparafucile).

I protagonisti: apprezzata assai la Gilda di Nadine Sierra (fu già parte del cast della ripresa del 2016): bella voce calda, penetrante ed espressiva, che le ha meritato applausi a scena aperta (Caro nome) ed ovazioni finali.

Anche Piero Pretti (praticamente un veterano del ruolo qui alla Scala, avendolo cantato nel 2012 e 2016) si è ben distinto, anche se la sua emissione mi è parsa un tantino, come dire, vetrosa, soprattutto nella zona di passaggio.

Il Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat ha un portentoso vocione da far tremare la struttura del teatro: troppo spesso peraltro tende a declamare invece che cantare e ad emettere urla belluine che poco hanno a che fare con i requisiti estetici del ruolo (non lo vedrei male spostato sul Wagner di ceffi tipo Fafner o Hagen o Hunding…) Ma è sperabile, se non certo, che possa crescere ancora… insomma è uno che merita la fiducia che gli ha espresso il pubblico di ieri. Da notare il rispetto filologico della partitura: il follia lo ha cantato sul MI e non (come tradizionalmente si fa) sullo stentoreo/eroico SOL.

Fra i personaggi di contorno cito la Maddalena di Marina Viotti, che spero non me ne voglia se dico di aver apprezzato il suo (castigato) spogliarello quanto la sua calda voce contraltile. Agli altri sette (vedi locandina) va un doveroso riconoscimento di aver fatto ciò che loro è richiesto.
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Che dire, in conclusione? Voto complessivamente discreto, ma fatto di un quasi-buono ai suoni mediato da un mediocre alla regìa.

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
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Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
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Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
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La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.

21 aprile, 2017

Alla Scala ultime cartucce di una Bolena non poi così derelitta

 

Ieri penultima recita della bistrattata Anna Bolena che la Scala ha importato dalla Francia, dove non era certo stata accolta con entusiasmi nelle sue apparizioni da 4 anni a questa parte. Così alla prima al Piermarini aveva finalmente collezionato sul suo libretto anche il riprovato del pubblico scaligero. 

L’altro giorno, a proposito di Rossini e della Gazza, avevo espresso un mio personale convincimento che riapplico qui a Donizetti e alla sua Bolena: basta una proposta artistica appena appena decente per farmene (farcene?) apprezzare la grandezza. Ho ancora nelle orecchie quella incredibile rappresentazione del 19 marzo 2012 al Comunale di Firenze dove l’opera venne data – causa sciopero - senza l’orchestra, rimpiazzata da un solo pianoforte: beh, fu un autentico trionfo! Dovuto sul piano musicale al duo Devia-Ganassi e su quello scenico alla regia di Vick.

Ebbene, la proposta artistica di questa Bolena mi sembra che galleggi tranquillamente sopra il livello di sufficienza; quindi, a meno che non sia straordinariamente migliorata nelle quattro precedenti repliche, non mi pare si meritasse le stroncature senza appello della prima. Certo, dalla Scala ci si aspetterebbe assai di più, ma in senso assoluto non mi sentirei di usare il pollice verso.

Ampia sufficienza darei alla parte musicale, con la piacevolissima (per me) sorpresa costituita da Federica Lombardi, che deve avere doti naturali di livello assoluto: voce dal timbro caldo e corposo, in particolare nei centri e negli acuti (certo lei non è la Devia e i MIb gratuiti li lascia perdere) e sensibilità interpretativa già più che convincente. Insomma, una bella realtà che – se ben coltivata -ha davanti un futuro luminoso.

Con lei Sonia Ganassi, che viene da un passato luminoso, ma che ancora sa imporre la sua personalità: splendido in particolare il duettone del second’atto con la Lombardi. Buone notizie anche da Piero Pretti, bella voce squillante e ben impostata, capace di salire senza affanni ai DO. Su un piano dignitoso le prestazioni di Mattia Denti e della (travestita) Martina Belli (meglio l’aria della canzone d’esordio). Onesto e promettente l’accademico Giovanni Sebastiano Sala.

Discorso a parte per Carlo Colombara, uscito malconcio dalla prima e purtroppo buato (unico nel cast) anche ieri sera. Certo non mi ha entusiasmato, tuttavia non è incorso in svarioni o topiche clamorose: una prestazione che definirei incolore, e quindi la contestazione mi è parsa un po’ troppo severa (personalmente mi sarei limitato a non applaudire, ecco).

Sarà anche etichettabile come routine, ma la direzione di Ion Marin non mi ha per nulla deluso, così come il coro di Casoni, sempre all’altezza della sua fama. In sostanza, una performance musicale non strepitosa, ma più che passabile, sottolineata da molti applausi a scena aperta e calorosa accoglienza (Colombara escluso) alla fine.
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La regìa di Marie-Louise Bischofberger è di quelle che non suscitano entusiasmi: le scene di Erich Wonder sono di un minimalismo assoluto che si può spiegare (insieme con la cupa ambientazione delle luci di Bertrand Couderc) con l’obiettivo di concentrare tutta l’attenzione sullo scavo psicologico dei personaggi. E qui la regista qualcosa di buono ha in effetti proposto. Passabili i costumi di Kaspar Glarner, con qualche cappottone di troppo.

In conclusione, una proposta debole rispetto alle aspettative che sempre un teatro come la Scala suscita, ma complessivamente dignitosa: insomma, ciò che si può discutere, al solito, è il rapporto price/performance...

18 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 3

 

Ieri pomeriggio al Regio torinese seconda de La donna serpente di Alfredo Casella. Teatro piacevolmente affollato, con buona presenza di ragazzi, che già avevano mostrato interesse per l’altra favola in musica programmata a inizio anno, La piccola volpe astuta.    

La positiva impressione suscitata (per quanto mi riguarda, perlomeno) dalla visione in TV della prima di giovedi scorso è stata confermata in pieno. A partire dall’allestimento di Arturo Cirillo, che ha optato per scene (di Dario Gessati) assai stilizzate e minimaliste, quindi poco rispettose, se si vuole, delle favolistiche didascalie del librettista Lodovici, ma concentrando i caratteri fiabeschi del soggetto nei bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e nelle luci assai efficaci di Giuseppe Calabrò.

A proposito di costumi, intelligente è aver rivestito le quattro maschere con quelli della tradizione veneziana (Pantalone, Brighella, Truffaldino e Tartaglia) anche se Lodovici, per accentuare l’ambientazione caucasica del racconto di Gozzi ne ha islamizzato i nomi in Pantul, Albrigor, Alditruf e Tartagil (i primi due in Gozzi parlano in dialetto veneto, oltretutto...)        

Cirillo opta per una totale glasnost (trasparenza) consistente nel mettere in mostra, davanti agli occhi dello spettatore, anche scene o personaggi che il libretto prescriverebbe di celare agli sguardi del pubblico. Ciò accade in special modo nell’atto conclusivo, a partire proprio dall’inizio, preludio strumentale e aria di Miranda (la leopardiana Vaghe stelle dell’Orsa): che si dovrebbero ascoltare a sipario chiuso e nella più totale oscurità, per evidenti ragioni di ambientazione (l’impenetrabile dimora di un rettile) e per non dover mostrare un serpente che canta! Invece Cirillo fa esibire durante il preludio la bravissima e sinuosa danzatrice Vilma Trevisan e poi ci mostra Carmela Remigio che canta la sua struggente aria mirabilmente abbigliata con uno dei costumi di Falaschi.

Più avanti, mentre si prepara la tenzone fra Re Altidor e i tre mostri, è previsto un breve siparietto di cui sono protagonisti il Re delle fate (Demogorgon, padre di Miranda) e il mago Geonca (protettore di Altidor). Il libretto prevede espressamente che i due non si vedano, ma cantino stando dietro le quinte; non solo, ma la loro voce dovrebbe arrivare in sala attraverso forti altoparlanti elettrodinamici (da qui l’indicazione: duetto degli altoparlanti!) È una più o meno voluta imitazione del vocione di Fafner che nel Siegfried si deve udire attraverso un megafono, per dare l’impressione di cavernosità e lontananza delle voci. Ecco, Cirillo fa invece entrare sul palco i due personaggi e li fa cantare al naturale, senza megafoni di sorta.

Infine, anche l’ingresso di Togrul con i due figlioletti di Altidor dovrebbe avvenire dopo che la voce del Visir si è udita da dietro le quinte: qui invece lui canta dopo essere ben entrato in scena. Beh, non mi sentirei francamente di censurare più di tanto queste scelte del regista (che ci ha anche risparmiato il passaggio della distruzione del sepolcro del serpente-Miranda e della sua riduzione in cenere).

Casella ha infarcito l’opera di passaggi puramente strumentali - formalmente motivati dalla necessità di coprire complicati cambi di scena - ma che a lui risultavano oltremodo congeniali, date le sue attitudini di musicista puro. Qualche esempio: il lungo interludio che separa il Prologo dall’inizio dell’Atto I (e che ha quasi una funzione di ouverture) dovrebbe permettere di sostituire la lussureggiante scenografia iniziale del mondo delle Fate con quella orrida e selvaggia del deserto in cui troveremo Albrigor e Alditruf. Oppure, nell’Atto I, la scena del sonno di Altidor, con la bellissima berceuse. O ancora, nell’Atto II, la transizione verso la scena IV (a Teflis) con la marcia delle amazzoni. Ecco, avendo Cirillo di fatto eliminato la necessità di complicati cambi di scena, ha avuto l’idea vincente di riempire gli spazi puramente sonori della partitura con le coreografie di Riccardo Olivier e i quattro danzatori della Fattoria Vittadini, più 10 mimi impiegati in funzione di... fate-maschio (= fati!) in ciò rifacendosi alla tradizione dell’opera barocca, tanto cara al compositore.

A proposito di mimi, Intelligente (e didascalico) anche l’impiego di due di loro in veste di marionette manovrate dalle due maschere per rappresentare i travestimenti Pantul-Checsaia e Togrul-Altamuc nella quarta scena dell’Atto I. Simpatica anche la resa dell’inizio della scena magica (terza dell’Atto I) dove Togrul e Tartagil invece che calare dall’alto in groppa a due grosse libellule arrivano su due trabiccoli multicolori spinti da due mimi.
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Ma il tutto è assai funzionale alla narrazione musicale di Casella, della quale si fanno carico Gianandrea Noseda, gli orchestrali e le voci. Il Maestro sciorina la sua grande dimestichezza con la musica di Casella e non lascia mai cadere la tensione (perdonabile qualche eccesso di decibel) e mette benissimo in risalto tutte le scoppiettanti idee musicali che costellano la partitura, benissimo assecondato da un’Orchestra in stato di grazia.

Sul fronte voci, un encomio si merita subito il coro di Claudio Fenoglio, impegnato a pieno organico in passaggi di notevole difficoltà ed effetto (Atto III) ma anche a piccoli gruppi in scene di grande lirismo (ad esempio: le Nutrici...)

Tutto il cast mi è parso offrire una prestazione rimarchevole, a partire dalla protagonista Carmela Remigio, perfettamente calatasi nella parte di Miranda: prestazione che ha avuto ovviamente il suo apice nella difficile quanto commovente aria del serpente.

Accanto a lei, ottimo Piero Pretti, voce squillante e sempre ben intonata, capace di sovrastare anche i fracassi orchestrali, ma efficace anche nelle tante espressioni di puro lirismo che caratterizzano la parte.

Le due guerriere Armilla e Canzade sono splendidamente impersonate da Erika Grimaldi, che ha esibito una bellissima voce da soprano drammatico, e da Anna Maria Chiuri, autorevole in tutta la non facile tessitura. Metterei appena un filino sotto la prestazione di Francesca Sassu (la sbifida fata Farzana) che ha esibito qualche urlo di troppo sugli acuti.

Bravi tutti i quattro interpreti delle maschere, Francesco Marsiglia, Marco Filippo Romano, Fabrizio Paesano e Roberto de Candia. A quest’ultimo darei la palma di primus-inter-pares... Ottimo mi è parso Fabrizio Beggi, in specie nelle accorate esternazioni verso i due pargoletti di Miranda. Sebastian Catana ed Emilio Marcucci hanno avuto, come detto, il privilegio di cantare al naturale e senza amplificazione, il che gli ha consentito di esibire voci robuste e ben adatte ai ruoli (Demogorgon e Geonca).

Ma bene hanno operato anche tutti gli altri interpreti minori, dando il loro valido contributo alla notevole resa complessiva dello spettacolo.    
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Interessante la mostra allestita nel foyer Toro del Teatro, che ripercorre la vita di Casella attraverso preziosi reperti fotografici e testuali che testimoniano dell’apprezzamento che l’intero mondo musicale della prima metà del ‘900 mostrò per questo musicista autenticamente europeo. Apprezzabile anche l’iniziativa del teatro di allegare (senza sovrapprezzo) al programma di sala un doppio CD con interpretazioni caselliane di Noseda (le 3 sinfonie e frammenti sinfonici da La donna serpente) con i suoi ex- della BBC Philharmonic. Insomma, direi che questo revival di Casella sia da applaudire – come ha fatto ieri il pubblico - senza condizioni.

(3. fine)

17 luglio, 2013

Il Ballo scaligero, della serie: le regìe inutili (ma costose)


Dopo la prima, alcune reazioni abbastanza… premeditate parlavano di una montagna di volgarità, violenza gratuita, degrado materiale e morale dispensati a piene mani: tutti ingredienti che con la poetica di Verdi farebbero semplicemente a cazzotti. Un Ballo inventato di sana pianta, rivoltando l’originale come un calzino, da un regista che si crede un genio. Una roba vomitevole che grida vendetta! Puro trash da teatrini underground. Da denuncia penale per scempio di opera d’arte! E a nulla serviva ricordare a mo’ di giustificazione scempi anche peggiori, come così… o cosà!

Poi, dalla seconda in avanti, e anche ieri sera per la quarta (in un Piermarini con vasti spazi vuoti) tutto è rientrato nella più grigia normalità: successo tiepido o caldino in dipendenza dei gusti, nessuno scandalo, nessuna denuncia, nulla di nulla.

Comincio dalla parte più importante, cioè da Verdi (Michieletto mi perdonerà se lo tratto dopo). Le cose qui, almeno secondo il mio modestissimo parere, non sono andate poi così male come si era stigmatizzato in precedenza.

Daniele Rustioni (beato lui) non è ancora Toscanini e chissà se lo diventerà mai. Però, eccettuato qualche eccesso di irruenza che lo ha portato in un paio di occasioni ad esagerare con il fracasso, nel complesso giudicherei la sua direzione fra il sufficiente e il discreto, avendo mostrato una apprezzabile dimestichezza con questa partitura fra le più difficili di Verdi. Ecco, se volessimo proprio fare una classifica basata sul demerito, allora lui verrebbe dopo colleghi come Battistoni e Wellber, tanto per far due nomi di giovani comparsi in tempi recenti sul podio scaligero.

Avendo Álvarez datala buca, è stato Piero Pretti (secondo cast) a ripetersi dopo un sol giorno di riposo nel ruolo chiave. Che dire? La voce non è propriamente di quelle che lasciano il segno, e probabilmente la parte ancora non gli è entrata, come dire, nel sangue: ha alternato cose interessanti a momenti di chiara difficoltà, soprattutto all’inizio. Nei duetti con Amelia ha dovuto soccombere, sovrastato dalla voce di lei.

La quale lei era Sondra Radvanovsky, una che ha un vocione da far tremare i palchi, anche se la capacità di controllarlo non sembra delle più sviluppate. Però nei momenti topici o critici in cui deve fare accapponare (in senso positivo, sia chiaro) la pelle dello spettatore, lei è splendidamente riuscita nell’impresa. Uno su tutti, il Miserere d’un povero cor, con quella sbudellante salita al DO acuto, che le ha meritato un’autentica ovazione a scena aperta.

Zeljko Lucic ha una voce sguaiata proprio di natura, adatta magari a brutti ceffi wagneriani come Hunding o Hagen, per dire. Il suo Renato è francamente troppo truce. Alla vita che t’arride dovrebbe in effetti… arridere un po’ più di dolcezza; a Eri tu un po’ più di cuore esacerbato. Invece, sempre un piglio da energumeno.

L’Ulrica di Marianne Cornetti è abbastanza convincente: l’esperienza, anche nel ruolo specifico, garantisce sempre prestazioni all’altezza.

Non così dicasi di Patrizia Ciofi, un Oscar piuttosto incolore e con pochi decibel. Fernando Rado e Simon Lim, così come Alessio Arduini perlomeno si son fatti sentire chiaramente anche dal loggione.

In conclusione – sto ripetendomi come un disco rotto, lo so - una prestazione complessiva sufficiente erogata però da un fornitore di fascia alta, anzi (secondo lui) al top. Come se la Lexus, al prezzo e con la prosopopea della Lexus, ti rifilasse una… Tata (smile!)
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Ed ora passo a Michieletto, che qualcuno sostiene – anche con plausibili argomenti – essere stato vittima di vili attacchi premeditati e di complotti di palazzo (leggasi appunto: loggione…)

Intanto, leggendo questa intervista, qualcuno potrebbe addirittura trovarvi la confessione del reato, il distillato più puro ed esiziale di quella degenerazione della professione di portatore in scena di opere musicali che va sotto il nome di Regietheater:

(per il regista è quindi) importante trovare un racconto che serva il dramma.

Eccola là: il regista deve inventare un soggetto suo proprio – ecchissenefrega se l’originale va a farsi benedire - per giustificare la sua salata parcella messinscena di un’opera d’arte! Ciò si configurerebbe come adulterazione o, se si preferisce, come commercio di prodotti contraffatti: reati puniti dalle vigenti leggi, come lo spaccio di Rolex, o Lacoste, o vanGogh falsi.

E poi, perché mai si dovrebbe spostare l’ambientazione rispetto all’originale? Ecco qua:

Cambiare l'ambientazione ha come obbiettivo potenziare il dramma, renderlo più efficace, creare le circostanze per una messa in scena più vivida rispetto all'etichetta di un conte del 1600 con cui oggi nessuno di noi può condividere nulla.

Quindi quei sentimenti, quelle pene, quegli amori, quegli odi, quei sospetti e quelle ipocrisie del 1600 che, nobilitati e poetizzati dall’arte di Verdi, sarebbero stati perfettamente comprensibili e condivisibili dal pubblico di ben 250 anni dopo (= 150 anni fa) al punto che ne andava in delirio, oggi farebbero solo cadere le braccia a noi scafati del terzo millennio? E invece tornerebbero a toccarci il cuore e a commuoverci se appiccicati a qualche tamarro dei giorni nostri? Senza cambiare una virgola di parole e musica?
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Però, si sa, le interviste che pubblicano i quotidiani sono sempre da prendere con le molle: non sai mai se ciò che è messo in bocca all’intervistato sia uscito per davvero dalla bocca sua, o non da quella dell’intervistatore, se non addirittura da quella del redattore dell’articolo (per dire, il 99% di ciò che si scrive abbia detto Berlusconi viene regolarmente smentito il giorno dopo dal diretto interessato… smile!)

Così, per meglio accertare le idee e l’approccio del regista, proviamo a scorrere un’altra intervista, che però ha tutti i crismi dell’autorevolezza (Franco Pulcini) e soprattutto ha avuto verosimilmente la piena certificazione da parte dell’interessato, essendo ciò che si può leggere sul Programma di sala (le parti cui farò riferimento sono trascritte verbatim).

E qui Michieletto parte davvero con il piede giusto, quando afferma:

Un regista deve servire il racconto, la sua drammaturgia, l’archetipo narrativo.

Beh, intanto si ammetterà che è un filino diverso da quel trovare un racconto che serva il dramma

Ora, non tutte le opere si prestano all’individuazione di archetipi narrativi, ma certamente ci si presta molto bene il Ballo, quindi fin qui tutto OK: Michieletto a) si propone di derivare, dal racconto particolare di Somma&Verdi, l’archetipo (cioè un modello universale, astratto) per poi b) da questo far scaturire la sua personale versione di quel racconto originale, versione che sia più e meglio godibile dal pubblico di oggi. Se l’archetipo è derivato correttamente, per conseguenza anche la sua nuova materializzazione (se a sua volta correttamente desunta dall’archetipo) sarà coerente con l’originale.

Ora, da dove cominciamo? Beh, direi dalla figura del protagonista, leggendo ciò che ne dice Michieletto:

Riccardo è un leader politico occidentale, idolatrato da alcuni e odiato da altri. Tipico di chi gestisce il potere. Del resto ai due congiurati ha fatto uccidere il fratello e sequestrato un castello. Per alcuni quindi è un criminale che si è sporcato le mani, un uomo senza scrupoli che per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi; per altri invece, sedotti anche dalla propaganda, è un salvatore da amare ed adulare (vengono descritti come “una servil genìa che sta lambendo l’idolo e che non sa il perché”). Come leader politico, Riccardo ha bisogno delle conferme, del consenso. Da queste riflessioni ho cominciato a pensare a lui come a un importante politico occidentale alla vigilia della sua rielezione, durante la campagna elettorale, nel momento della massima tensione nervosa.

Certo, ad una lettura superficiale, parrebbe una descrizione abbastanza fedele del protagonista del dramma. Ma basta un minimo-minimo di approfondimento per far scricchiolare questa vision del regista.

Tanto per cominciare, Riccardo non è un leader politico, eletto dal popolo (anzi, da una parte, e nemmeno maggioritaria, se parliamo degli USA, di esso). E quindi non è né poco né tanto condizionato dalla maggioranza (o peggio, minoranza) che lo ha eletto. È una pubblica autorità, nominata da Sua Maestà Britannica come Governatore di una provincia coloniale (non dimentichiamo che in origine era addirittura un RE!) Io deggio su’ miei figli vegliar, perché sia pago ogni voto, se giusto… Quindi, una persona investita di un’autorità che le viene dall’alto, non da una parte del popolo, ma che ha come fine primo e ultimo il bene dell’intero popolo che gli è stato affidato. (I governanti eletti dal popolo affermano la stessa cosa, ma in realtà fanno interessi di parte, o di classe, o di lobby, cosa del resto assolutamente legittima, in democrazia perlomeno…)   

Ancora: proprio perché a Riccardo il potere viene dall’alto, l’insinuazione che Michieletto prospetta, interpretando i casi personali di Sam&Tom (per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi) appare quanto meno azzardata. Primo: lui non ha dovuto affatto salire al potere, ma vi è sceso (nel senso che ci è stato messo da una decisione superiore). Secondo: dal contesto si dovrebbe evincere che condanne a morte e sequestri di beni altro non fossero che regolari sentenze di tribunali, che il Governatore ha semplicemente controfirmato, non avendo ragioni per cassarle. La prova di ciò? L’atteggiamento di Riccardo che rifiuta di controfirmare la sentenza di bando per Ulrica, che testimonia della sua magnanimità e serenità di giudizio: non dimentichiamo che tale era la personalità di Gustavo III, l’archetipo (smile!) del personaggio di Somma&Verdi.

A proposito della maga-santona-imbonitrice, suvvia: nessun uomo politico farebbe mai visita - in campagna elettorale poi - al suo show, né a viso aperto, né in incognito (sai il rischio!) E di certo non prenderebbe quell’occasione per comunicarle la grazia e consegnarle un bell’assegno come risarcimento, chiudendo la puntata con una manifestazione di propaganda (della serie: come perdere le elezioni)! Invece, ancora una volta, un sovrano o un suo nominato dotato di un minimo di humor se lo può benissimo permettere, non dovendo temere di perdere voti ma – qui, più che al ballo – potendosi mostrare come governante illuminato e benigno.

Quindi la campagna elettorale e la conseguente tensione nervosa c’entrano con la vicenda di Riccardo narrata da Somma&Verdi proprio come i cavoli a merenda (ahi, ahi, caro Damiano!) E una conseguenza di ciò è la natura stessa del ballo. Leggiamo cosa si inventa al proposito Michieletto:

Nella mia idea, questo “ballo splendidissimo” è il party conclusivo della campagna elettorale: un momento di esaltazione dell’immagine pubblica di Riccardo, sintetizzato dallo slogan da lui dichiarato nel primo atto (“Incorrotta gloria”).

E nella citata intervista così si era espresso:

La necessità di consenso lo porta (Riccardo) a organizzare un party elettorale che catalizzi su di sè l'attenzione, e una campagna mediatica condotta a colpi di slogan promozionali, che nello spettacolo diventano simboli scenici importanti.

Conclude il nostro, sempre a proposito del ballo:

La solita storia propagandistica: un potere per il popolo, per chi soffre, per chi non riesce ad arrivare alla fine del mese… Quella scritta s’incendia alla fine. L’epitaffio conclusivo “Notte d’orrore” non è solo la sua fine, ma anche la fine della sua immagine, col crollo delle sue sagome, che cadono a terra con lui.

Anche qui purtroppo il nostro inventore di personaggi e di soggetti (inventore è peraltro eccessivo: i mega-poster di contenuto politico li ha già usati tale Vick nel suo recente Macbeth fiorentino…) ha preso un bell’abbaglio. Intanto, il ballo del Governatore (come quello del RE che lo ispirò) non è una manifestazione di parte o di partito (tipo una festa dell’unità sotto elezioni o una convention elettorale americana). Al contrario, è una manifestazione di popolo (cui certo non è estraneo il desiderio dell’autorità di dare lustro alla propria immagine di potere illuminato); anzi, è fatta proprio per il popolo, è un (piccolo o grande) regalo che il Governatore fa ai suoi governati; lui non ha bisogno di essere rieletto, né di raccogliere fondi per la sua campagna elettorale, al contrario spende risorse pubbliche per far contento il popolo intero. E lui parrebbe nemmeno volervi intervenire, al ballo: se lo fa, è per sfidare i presunti congiurati (Renato è il primo ad essere scettico sulla di lui presenza) e per rivedere Amelia, non certo per mettersi in bella mostra davanti ai suoi… sudditi. Insomma: il ballo è una specie di appuntamento tradizionale, sia pure nell’ambito del panem et circenses che caratterizza lo scenario descritto e musicato da Somma&Verdi.

Ma soprattutto il finale di Somma&Verdi è le mille miglia lontano dal proporci il crollo di Riccardo e la fine della sua immagine: è vero esattamente il contrario, my dear Michieletto!  

Sulla personalità di Riccardo così si esprime il regista:

Inoltre è un uomo in conflitto fra il suo essere pubblico e la sua sfera privata. C’è il Riccardo che sta sotto ai riflettori, brillante e sorridente mentre firma autografi e distribuisce strette di mano. Poi c’è il Riccardo che vediamo quando i riflettori sono spenti: la sera arriva per tutti, e Riccardo, spente le luci della ribalta, è un uomo solo; questo il suo dramma di potente. Ama la donna del suo migliore amico, annulla nella risata il suo nervosismo, tradisce un certo forzato esibizionismo, è un narcisista pieno di sé, con tratti infantili.

Mah, qui qualcosa di vero ci può stare, ma il libretto e la musica per la verità ci mostrano un uomo abbastanza genuinamente ottimista, sereno e disincantato; un poco esibizionista forse, ma per nulla nervoso. Di sicuro: nessuno stress da elezioni! Certo: innamorato e, come sempre, l’amore, in specie se è difficile, porta con sé le sue inevitabili pene.

Ecco, fin da qui purtroppo si deve rilevare come il processo tipo1->archetipo->tipo2 operato dal regista sia inficiato da qualche grande o piccola imprecisione, che finisce per rendere abbastanza incoerenti tipo1 (Somma&Verdi) e tipo2 (Michieletto).
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Veniamo ora alla figura di Amelia (e con lei a quella di Renato). Il punto cruciale si tocca nelle scene dell’atto secondo, che hanno suscitato le maggiori e più scomposte reazioni negative di una parte del pubblico della prima.

Intanto: il campo abbominato (quello dei patiboli, nell’originale) e l’erba miracolosa che vi cresce sono evidenti allegorie (anche senza dover scomodare Freud) che ciascuno può interpretare come crede. Allo stesso modo, il vaneggiamento di Amelia - che sente qualcuno piangere davanti a lei - e soprattutto l’apparizione (allo scoccare di mezzanotte) della testa di una delle persone giustiziate in quel campo, potrebbero avere mille significati, tranne però uno solo: essere delle presenze reali, da rappresentarsi con il più crudo verismo.

Tutta la scena dell’arrivo dei congiurati, con le due sorprese (quella di Sam&Tom di trovarsi di fronte Renato e non Riccardo e poi quella generale della rivelazione dell’identità di Amelia) è - parliamoci chiaro - la parte del libretto di Somma tra le più gratuite e le meno plausibili dell’intera opera (anche se ha dato modo a Verdi di comporci una delle più straordinarie pagine di musica). Sarà anche stata voluta così dal librettista (per irridere i carbonari mazziniani, essendo lui un monarchico simpatizzante per la Società Nazionale Italiana) ma è un fatto che sul piano della logica fa acqua da ogni punto la si guardi.

Se immaginiamo che i congiurati si convincano che Renato (e non Riccardo) fosse l’uomo che avevano inseguito, allo scoprire che la donna con lui è Amelia non avrebbero motivo per gridare (o cantare) allo scandalo: poiché sarà pure strano che due coniugi si trovino in piena notte in quel postaccio ma, visto che son lì da soli - del miele sulle rugiade (a) corcar(si) - fino a prova contraria non si vede perché il fatto in sé dovrebbe poi finire sulle prime pagine dei giornali (cosa che invece sarebbe plausibilissima se i congiurati – come è capitato a Renato - avessero colto in flagrante Amelia con Riccardo).

Se invece immaginiamo che i congiurati restino convinti che fino a poco prima lì ci fosse, con Amelia, proprio Riccardo, allora certamente avrebbero motivo per canzonare Renato e per far circolare lo scandalo (avente per oggetto le corna, null’altro, si badi bene) per la città. Ma in cambio non si capirebbe perché si accontentino dello scandalo, invece di inseguire in ogni dove la loro vittima, che non può certo essersi di molto allontanata…

Delle due versioni la seconda è quella diciamo… meno strampalata (e anche più accreditata): vero è che nell’atto terzo Renato non rivela a Sam&Tom la ragione del suo passaggio nelle loro file, ma chiunque sarebbe portato – a quel punto - ad ipotizzare che sia proprio la questione di corna.

Ora, che fa Michieletto? Intanto sposa decisamente una delle due alternative (e fin qui possiamo seguirlo): precisamente la prima, cioè la meno credibile, che comporta che i congiurati si convincano di aver preso un abbaglio, avendo scambiato il segretario per il Governatore. E che si chiedano perplessi cosa ci stessero a fare due coniugi in un posto come quello. Ed ecco che Michieletto pensa di migliorare il libretto mostrandoci una ragione più che plausibile perché si possa da ciò sollevare un grande scandalo, altrimenti davvero miserello e gratuito: siamo in un luogo frequentato da puttane e ai congiurati Amelia si rivela precisamente come una di loro, e il marito come un magnaccia! Ecco come il regista, nell’intento (lodevole?) di chiarire la situazione allo spettatore un po’ interdetto, si inventa la presenza delle prostitute:
 
Quando Renato presume di aver scoperto il tradimento da parte della moglie, ci sono tanto la gelosia e la rabbia per essere stato tradito proprio con un amico, quanto il fatto che i congiurati gli ridano in faccia per la situazione imbarazzante di essere stato scoperto con la consorte di notte in un luogo particolare, in una periferia tra le prostitute. Ecco lo scandalo. Vedrai domani, cantano, “che baccano sul caso strano e che commenti per la città”: finirai sui giornali, sarai sbeffeggiato, la tua immagine è finita. Amelia viene ridicolizzata perché sembra una delle prostitute che erano in quel luogo. Amelia infatti era stata rapinata della pelliccia e, per celare la sua identità, indossa l’impermeabile bianco della prostituta. Che ci stanno a fare lì, si chiedono i congiurati, quei due? Giochetti di scambisti? Una signora inquieta alla ricerca di novità eccitanti?

Qui il problema non è che Michieletto porti in scena delle luride battone (ciascuno di noi può avere la sua idea di come Verdi avrebbe giudicato la cosa) una delle quali rapina Amelia della pelliccia, lasciandole in cambio il suo soprabitino da sgualdrina. No, qui il problema è squisitamente artistico-estetico. Domanda: è il Ballo per caso un’opera verista? Ahinoi e ahilui, Michieletto – almeno per queste scene dell’atto secondo - pare proprio aver risposto di SI (!?) L’errore che il regista ha commesso qui è, per così dire, di aver voluto strafare, inserendo indebite componenti iper-realiste e veriste in una scena che è invece tutta pervasa da introspezione psicologica e da indecifrabile quanto comica ambiguità.

Per dire, un accenno alle prostitute (purchè fatto con… discrezione e senza farle intervenire nell’azione) avrebbe anche potuto indicare il senso di colpa di Amelia, che si sente (almeno spiritualmente) un’adultera; il che da lontano (ma plausibilmente, secondo un’analisi freudiana) potrebbe apparirle come il primo passo verso la prostituzione (ecco come finiscono le adultere, le suggerirebbe il suo subconscio…) Invece Michieletto si immagina una scena perfettamente e compiutamente verista – quindi totalmente estranea alla natura dell’opera – solo per raggiungere uno scopo tutto sommato secondario: spiegarci in modo più convincente di Somma il perché del riferimento allo scandalo fatto dai congiurati.

E senza accorgersi di aprire così un’autentica voragine sulla credibilità delle vicende successive del dramma. Sì perché, oltre ai congiurati, anche Renato non può non sospettare che la moglie fosse lì non per fargli le corna, ma nell’esercizio di un… secondo lavoro! Ma allora, accipicchia, il buon Riccardo non è più il suo cornificatore unico, bensì uno dei tanti utilizzatori finali delle prestazioni di quella troia di sua moglie! E perché quindi dovrebbe essere lui, e non lei, la prima e unica vittima della sua sete di vendetta? Insomma, il resto del Ballo qui va precisamente a… meretrici (smile!)

Il sospetto che tutto ciò sia quindi una premeditata provocazione del regista (perché Michieletto è di sicuro tutto fuorchè scemo) non mi pare proprio campato in aria. E se ne tira dietro un altro: che la frase dell’intervista citata all’inizio non fosse affatto un’invenzione dell’intervistatore…
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Il processo tipo1->archetipo->tipo2 relativo alla maga Ulrica doveva essere facile-facile, datosi che questa è, fra tutte, la figura indubbiamente più semplice da attualizzare: perché, in fondo, è essa stessa già un archetipo! Eppure Michieletto ha voluto anche qui esagerare, trasformando una veggente e lettrice di carte, di tarocchi e mani in una santona guaritrice di paralitici e di affetti da HIV. Roba da circo equestre! 

Quanto alla caratterizzazione di Oscar - cui Michieletto toglie la dignità di travesti, presentandolo proprio come una donna, e pure professionalmente super-attiva e diligente - mi pare che abbia più difetti che pregi: il personaggio finisce col perdere tutta la sua verve da Cherubino; e soprattutto la musica di cui Verdi lo riveste mi pare del tutto incoerente con l’immagine che ce ne dà il regista, della classica segretaria-racchia-tuttofare-innamorata-del-capo. Infine, si tenga presente che l’equivoco sul sesso di Oscar potrebbe essere, nell’originale, un raffinato accenno alle tendenze omosex di Gustavo III, un’allusione che il regista cancella del tutto.     

Bene, fin qui abbiamo fatto a Michieletto l’esame di teoria e – a mio modestissimo parere – il regista di Scorzè non se l’è cavata per nulla bene: dopo aver impostato correttamente il lavoro, ha finito per contravvenire alle sue stesse premesse, con una serie di scelte discutibili e incoerenti con i suoi presupposti e, ciò che più conta, con l’originale.
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Passiamo quindi all’esame di pratica.

La prima parte del primo atto è presentata con grande efficacia, non c’è che dire. Salvo per gli smaccati riferimenti alla campagna elettorale, che fatalmente gettano sull’ambiente di Riccardo una luce, come dire… faziosa: lì non c’è il popolo, cui il Governatore elargisce magnanimi favori, ma soltanto i fan del candidato che devono aiutarlo nella campagna (e magari qualcuno che invece gli vuol fare le scarpe…) Beh, la distanza dall’originale non è proprio da poco, si ammetterà.

La maga Ulrica, nell’originale, è di pelle nera (dell’immondo sangue dei negri scrive Somma, attirandosi sdegnate accuse di razzismo). Perché noi invece vediamo una megera bianchissima e biondissima? Cos’è, una specie di affirmative action alla rovescia? (smile!)

E poi, chi può mai pensare che uno show televisivo americano di un santone-predicatore venga introdotto da una sigla musicale fatta dalle prime 22 battute della scena sesta del primo atto? Sai quanti trafelati zapping di gente con le mani sui coglioni? (stra-smile!)

Qui mi permetto di fare un appunto tecnico a Michieletto: ad uno spettatore che non conosca bene il libretto risulta del tutto incomprensibile la scena in cui Silvano si ritrova… miracolato. Nessuno riesce a distinguere il momento in cui Riccardo (che è circondato da un nugolo di persone, e nemmeno si capisce quando entri in scena) scrive il biglietto da infilare nella tasca della giacca del suo marinaio. E anche poco dopo, quando Amelia è a colloquio con Ulrica, la presenza di parecchie altre comparse oltre a Riccardo fa perdere gran parte dell’efficacia drammatica di quella scena.

Nella scena del campo abbominato Michieletto si presta anche a critiche a buon mercato, del tipo: ma perché Riccardo, arrivato in BMW, non ci carica Amelia e se ne va, invece di scappare a piedi, lasciando lì la sua lussuosa auto e la sua amante in preda a malviventi? Qui ci si inoltra in uno stucchevole ginepraio di ipotesi, del tipo: sulla strada ci sono posti di blocco di congiurati e lui deve scappare a piedi per un sentiero fra roveti e immondizia (lei no, per via dei tacchi-13). Ma allora: possibile che i congiurati non riconoscano poi che quella è l’auto di Riccardo? Fosse così, andrebbe però a… meretrici (smile!) tutto il discorso sullo scandalo Renato-Amelia nella versione così alacremente  e ingegnosamente costruita dal regista. Risposta: sì, possibile, perché si tratta di una delle tante auto-blu della flotta del Governatore, a disposizione di tutto il suo staff… E via inventando un’obiezione e una giustificazione dopo l’altra, mentre la musica di Verdi… se ne va inascoltata!   

Poi, non contento della sua dettagliata spiegazione del libretto, Michieletto ci mostra apertamente il significato dei versi Ve’, se di notte qui colla sposa l’innamorato campion si posa, e come al raggio lunar del miele sulle rugiade corcar si sa! mostrandoci una simulazione di ciò che avviene in quel lurido luogo, mediante alcune effusioni finocchiose di congiurati sulla medesima BMW. Avanspettacolo puro!

L’estrazione del nome dell’assassino di Riccardo è un altro esempio di quel misto di velleitarismo e di ingenuità che caratterizza la messinscena di Michieletto. Sì, d’accordo, sappiamo bene che sono dei bambini ad estrarre le palline dei numeri vincenti del superenalotto e della lotteriaitalia, e di tutte le riffe di questo mondo. Ma qui il miserevole concetto che il regista ci trasmette è che le colpe dei padri (anzi delle madri) ricadono sui figli! Mammamia…

La scena finale, con tutte quelle sagome di Riccardo che mandano i congiurati in confusione, appare assai suggestiva e ben realizzata. L’idea di sdoppiare corpo (morto) e anima di Riccardo, facendone cantare l’anima nell’atto della lettura, da parte di Amelia, del dispaccio del Governatore è assai poetica e interessante. Senonchè lascia l’effetto che delle ultime volontà di Riccardo venga a conoscenza solo la donna, e non l’intero popolo.

Il che è coerente con l’idea portante di Michieletto (il crollo della figura di Riccardo, accompagnato dall’incendio dei poster elettorali) ma stride maledettamente con la musica di Verdi, che è invece un’autentica apoteosi per il Governatore ingiustamente ucciso. Il conclusivo Notte d’orror! non è certamente il pollice-verso del popolo contro il suo capo, al contrario, rappresenta l’esecrazione per un delitto odioso e per la fine immeritata della guida tanto amata (cui si associano, ipocritamente, anche gli stessi congiurati!)  
   
Ecco, anche l’esame di pratica non mi sembra proprio sia stato superato.

Insomma, una regìa che – come altre di Michieletto – parte da lodevoli presupposti, ma poi finisce per smentirli, poco o tanto, lungo la strada. Ecco perché personalmente non mi sento di promuoverla, pur non arrivando a stroncarla a prescindere. È semplicemente un’interpretazione che non arreca alcun valore aggiunto all’originale, ed anzi paradossalmente lo rende più astruso ed incomprensibile per lo spettatore medio.   

Caso mai, direi che il regista ha qui perso l’occasione per fare una bella profezia su qualche membro della… Casa Reale Britannica (stra-smile!!!)
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Adesso basta Scala per un po’ (conveniva forse che chiudesse per ferie dopo il successo del doppio Ring…) e proiettiamoci verso Pesaro (passando, via-radio, per Bayreuth).