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31 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.28 – Tjeknavorian - Müller-Schott

Per il terz’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Emmanuel Tjeknavorian ci mette in tavola un menu costituito da due piatti del tardissimo ‘800: lo Dvořák del 1894 e il Sibelius del 1898. Auditorium non proprio esaurito, ma quasi, e sempre pieno di entusiasmo. In platea Oreste Bossini racconta il concerto per Radio3.

La serata si apre nel nome di Jan Sibelius, con la sua Prima Sinfonia, cui il 34enne compositore si volse proprio sul finire del secolo dopo aver composto diversi poemi sinfonici a sfondo nazionalistico-patriottico. Il suo fu un approccio innovativo sia rispetto a Ciajkovski (cui peraltro fu debitore) ma anche rispetto a Mahler, del quale non condivideva l’idea di impiegare la sinfonia per raccontare l’universo.

E questa Prima in effetti sembra rifarsi al sinfonismo classico, sul quale innestare elementi della tradizione musicale del suo Paese. In Appendice riporto una succinta guida all’ascolto, basata su un’esecuzione di papà Loris con i suoi filarmonici armeni nel 1997, quando il piccolo Emmanuel aveva sì e no un paio d’anni…

Per l’Orchestra è la prima esperienza con questo lavoro non proprio conosciutissimo e meno ancora eseguito, così il Tjek (sempre a memoria!) la guida da par suo, mettendo in risalto non solo i suoni, ma anche i silenzi lunghi e brevi (rappresentati in partitura da corone puntate e apostrofi di respiro).

Così ne esce un risultato mirabile, che ridà un meritato lustro a questo Sibelius francamente troppo snobbato dai modernisti con la puzza al naso.

Dopo la chiusura con i sommessi pizzicati degli archi il Tjek tiene ancora una decina di secondi di silenzio, poi inutile dire dell’accoglienza trionfale che accomuna Kapellmeister e Musikanten.

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Ha chiuso la serata un compagno di… sonate del Tjek, il 49enne Daniel Müller-Schott con il suo violoncello, impegnati nel Concerto op.104 di Antonin Dvořák. Qui vediamo una pregevole esecuzione di Daniel in terra danese con Kitajenko.

Il suono del violoncello di Müller-Schott (Goffriller 1727) è di assoluta purezza, cosa che avrebbe stupito lo stesso Dvořák, che non aveva mai nascosto la sua idiosincrasia per quello strumento, considerato piuttosto rozzo proprio nella qualità sonora (!?) Ma certo il merito è anche dell’esecutore, dalla tecnica trascendentale e dalla sensibilità sopraffina. Il Tjek (eccezionalmente con la partitura sotto gli occhi) lo ha assecondato al meglio, avendo con lui, come detto, una consuetudine di lunga data.

Qualche neo purtroppo si è manifestato in orchestra, dalla zona dei corni (citiamo il peccato e non il peccatore) che non consente di giudicare perfetta questa performance.

Ma alla fine non impedisce il manifestarsi di acclamazioni e ovazioni da parte di un pubblico in delirio, ripagato con un prezioso e accorato bis, seguito da un ultimo trionfale omaggio per tutti.   

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Appendice. La prima sinfonia di Sibelius

Inizia con un’Introduzione lenta (à-la-Haydn… Andante ma non troppo) in MI minore con inflessi modali. È un languido recitativo del clarinetto (21”di cui si ricorderà Nino Rota per il suo Padrinosul tappeto in SI del timpano che getta musicalmente le basi per i temi che compariranno nel seguito.

Segue l’Allegro energico (1’33”) dalla struttura di forma-sonata eterodossa, principiante nella tonalità relativa di SOL maggiore con esposizione di un primo tema che si anima nel dialogo fra archi e fiati, che conduce ad un crescendo sfociante (2’41”) in un generale accordo sulla sesta abbassata di MIb, seguito da uno in MI naturale, poi ancora in FA e poi in FA# per sfociare (2’47”) ancora in SOL maggiore, dove il tema è reiterato a piena orchestra e poi ancora ribadito (3’09”) nella sottodominante DO maggiore.

Da qui un subitaneo passaggio a SI maggiore apre la strada al secondo tema (3’30”) protagonisti gli strumentini con sereni svolazzi; poi (4’29”) l’atmosfera si abbruna a SI minore, dove ancora i legni si slanciano in un furioso crescendo – pare lo Scherzo della nona beethoveniana… - che si spegne (4’50”) in modo traumatico. Tre semiminime di SI pizzicato degli archi chiudono di fatto l’esposizione.

Il lungo sviluppo – in realtà appare come un intermezzo che porta alla luce muovi motivi - inizia (4’55”) ancora in SI maggiore, con un momento di calma in LAb (5’30”) seguito da un lungo passaggio caratterizzato da successive scale discendenti e poi da un magmatico crescendo (6’23”) che sfocia maestosamente (7’25”) in SOL maggiore, con una nobile perorazione degli archi, che porta all’eterodossa ripresa del primo tema, che ascoltiamo (8’10”) dopo il convulso crescendo.

In tempo Tranquillo (9’01”) ecco il ritorno a MI minore che introduce la coda, culminante (10’09”) in una melodrammatica cadenza in fortissimo, chiusa da due accordi in pizzicato degli archi. 

Il secondo movimento è un Andante (ma non troppo Lento) nella distante tonalità di MIb maggiore. I violini (10’53”) espongono la prima parte del languido tema principale, costituita da due sezioni, la seconda ripetuta. Ora (12’02”) i fiati, poi supportati da viole e celli, rispondono proponendo la conclusione del tema.

I fagotti (12’25”, Un poco meno andante) – seguiti poi dagli altri legni - intonano ora una triste melopea in SOL minore che poi si trasforma (12’58”) in un accorato appello, costituito dall’incipit del tema principale seguito da dolorose cadute chiuse da una pesantissima discesa di quattro ottave, fino al FA sotto il rigo di basso.

Ora (13’55”) una transizione sul DO minore caratterizzata da sestine ribattute di flauti e oboi ci conduce alla sezione centrale del movimento (14’24”, Molto tranquillo) una specie di oasi in LAb maggiore, con tanto di esternazioni ornitologiche degli strumentini. La cui visione sfuma (15’33”, Adagio) per lasciar subito posto al ritorno del tempo primo e all’atmosfera della precedente sezione, in DO minore e poi in SOL minore, che una fugace riapparizione del LAb (17’37”) cerca invano di contrastare.

Attacca quindi un vorticoso crescendo (Poco a poco stringendo) che conduce ad un climax in cui si distinguono pesanti strappi dell’orchestra, finchè (18’52”) in DO minore esplode una delle varianti del tema principale (Ciajkovski? Wagner?) che poi (19’07”) sfuma nel MIb d’origine portando ad una serena conclusione di questo viaggio tormentato.

Ecco poi lo Scherzo, tonalità DO maggiore, classicamente ripartito A-B-A (Scherzo-Trio-Scherzo). Di stampo vagamente bruckneriano, nel piglio da moto perpetuo. Sul pedale ostinato di viole e celli sono i timpani (DO-SOL) ad annunciare (20’52”) il motto dello Scherzo, subito imitati dai violini. Corni e legni (20’55”) ne espongono il tema scalpitante che vaga in orchestra fra svolazzi di strumentini, sestine di celli e folate ascendenti e discendenti dell’arpa. Dopo un passaggio più disteso degli archi, torna il motto (21’42”) ad aprire una nuova sezione dello Scherzo, culminante (22’00”) in volate di legni e poi di archi, sempre innescate dall’incipit del motto.

Si arriva così (22’35”) al classico Trio, Lento (ma non troppo), in MI maggiore, aperto, ancor più classicamente, dai corni. Poi (22’59”) è il flauto ad esibirsi in un cullante motivo impreziosito da trilli; ancora una pausa (23’30”) e i legni riprendono il motivo di attacco de Trio, poi raggiunti dagli archi che si dilungano sulla dominante SI. Il ritorno al Tempo I preannuncia la conclusione del Trio, sancita da veloci scale discendenti degli archi, chiuse sul DO.

Riecco quindi (24’33”) ripresentarsi lo Scherzo nella sua interezza, chiuso da una perentoria coda, protagonista il motto.

Il Finale reca tra parentesi la dicitura (quasi una Fantasia). Ed in effetti la sua struttura è abbastanza… fantasiosa, per lo meno rispetto ai sacri canoni classici, consistendo in due temi principali (tipo forma-sonata) che vengono dapprima esposti e successivamente poi ripresi e variati, di fatto sviluppati.

La tonalità è ovviamente in MI minore e il movimento Inizia (25’50”) con un’Introduzione in tempo Andante, come già il primo. E da quello mutua subito il motivo di apertura della Sinfonia, esposto dagli archi, ai quali rispondono i flauti con la frase chiusa dai corni e fagotti sull’accordo di SI minore e ancora oboi e poi flauti e clarinetti con corni e fagotti a chiudere in SOL minore.

In tempo Meno andante (27’34”) celli e bassi chiudono l’Introduzione preparando il terreno all’Allegro molto dove presto compare (28’08”) nei bassi e nelle viole il primo tema, agitato e poi dilagante in orchestra, fra archi e fiati che si rincorrono, in un continuo crescendo (Poco a poco più Allegro) fino a raggiungere, dopo cinque schianti poderosi, un climax (29’04”) su un RE acuto, dal quale i violini precipitano fino ad un SI sotto il rigo.

È arrivato il momento (29’19”, Andante assai) di conoscere il secondo tema, una nobile melodia nel solare DO maggiore, intonata dai violini, che si distende ulteriormente (30’21”, Poco a poco meno Andante) fino a chiudersi (31’06”) con gli strumentini.

Inizia ora lo sviluppo del primo tema (31’18”, Allegro molto, come prima) che sembra travolgere tutto, fino ad un climax (32’08”) da cui subito riparte ancor più vigoroso (Poco a poco più Allegro) e quindi (32’37”) si fa sempre più ostinato, con schianti successivi che portano finalmente (32’54”) ad un progressivo acquetarsi dell’atmosfera, presagio dell’arrivo (33’06”) in tempo Andante (ma non troppo) dello sviluppo del secondo tema.

Che ora torna in LAb maggiore, poi trascolora a REb, ancora a SOLb e poi a SI maggiore (34’26”) dove a lungo si distende maestoso, fino poi (36’55”) a scendere sul MI della finale apoteosi, chiusa - dopo tre schianti in MI minore dell’intera orchestra, come accadde al primo movimento - con due pizzicati degli archi.


03 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 8

Mentre ancora risuonavano in Auditorium le note del Messiah eseguito giovedi sera da laBarocca di Ruben Jais, ecco un classico Mozart seguito da due poemi sinfonici (Sibelius - Strauss) dare forma all’8° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio Jaume Santonja, da quest’anno uno dei Direttori Ospiti dell’Orchestra.

Insieme a lui entra subito in scena l’israeliano Tom Borrow, ex-bambino-prodigio e giovane speranza del pianismo internazionale, per inoltrarsi nel complesso groviglio del K488 mozartiano, un concerto invero innovativo nella forma e nei contenuti. (Una mia personale esplorazione dell’opera – poggiante su un’esecuzione della coppia Horowitz-Giulini alla Scala - si può leggere qui, inserita in un commento ad un concerto de laVerdi del 2015.)

Borrow – a dispetto dell’età o proprio a causa di essa – è tanto perfetto tecnicamente quanto algido emozionalmente: il suo Mozart scorre senza un’increspatura, ma quasi roboticamente, ecco. Gli applausi non sono mancati, certo, perché Mozart accontenta sempre. C’è da dire che il pubblico ieri era proprio scarsino (c’è chi dice a causa dello sciopero dei mezzi pubblici) e forse il ragazzo si è un filino deconcentrato: fatto sta che non ci ha nemmeno regalato un bis… 
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La seconda parte della serata è occupata, come detto, da due poemi sinfonici, di fatto due opere prime (o quasi…) nel genere reso famoso da Franz Liszt.

Il primo è En Saga, composto in origine da un 27enne Jan Sibelius nel 1892, ma poi riveduto, corretto e… ristretto (-142 battute su 952) 10 anni più tardi (guarda caso, dopo aver ascoltato Strauss dirigere il suo Don Juan!) e da allora entrato in quest’ultima versione nei repertori delle principali orchestre. La versione originale è stata riportata alla luce da poco, e si può ascoltare – anche per compararla alla seconda – in questa incisione finnica che le presenta entrambe. Volendo, si può andare ancor più indietro, e ascoltare il Settetto (frutto peraltro di una contestata ricostruzione americana) che fu verosimilmente il primo germoglio della composizione.

Il titolo dell’opera resta un mistero: letteralmente si tratta di una storia, o di una leggenda, o di un’avventura, ma Sibelius si rifiutò sempre di esplicitare un programma extra-musicale per la sua composizione (siamo all’eterno dilemma dell’estetica musicale, che si perpetua da Hanslick, come minimo, in poi…) Peraltro (vedi Mahler) nel corso degli anni ne lasciò immaginare addirittura un paio (!): il DNA della Finlandia e le saghe islandesi (Saemund & Snorri, per intenderci). Ma ogni volta poi concluse (ancora seguendo Mahler) che questa musica altro non esprime se non ciò che è inesprimibile con segni o parole (per citare Goethe: Das Unbeschreibliche, Hier ist’s getan): sensazioni interiori e stati d’animo o stati della mente del compositore.

Sì, però: siamo sicuri che l’ascolto di queste note ingeneri in noi precisamente le stesse sensazioni e gli stessi stati mentali (entrambi a noi ignoti) che spinsero Sibelius a vergarle, quelle note? Mah, visto che nemmeno l’Autore ci può e vuole aiutare a raggiungere l’obiettivo, che possiamo fare? Forse ci conviene – ancora una volta – abbandonarci alla musica senza pregiudizi, per sentire… l’effetto che fa sulle nostre corde interne: certo, scoprendone allo stesso tempo, se esiste, una narrativa, un racconto (per l’appunto, una… saga?) che ha per protagonista non un eroe o un ideale, o gli stati d’animo del compositore, ma solo i temi, i motivi musicali che ricorrono all’interno del brano.     

E quest’opera giovanile di Sibelius si fa apprezzare proprio per la ricchezza dei temi e per il racconto di cui essi sono protagonisti. Proviamo ad esplorarla sommariamente - osservando la partitura - in questa incisione di Ashkenazy con la Philharmonia. Qui segue una raccolta dei principali temi e motivi dell’opera:

L’introduzione (Moderato assai) ci porta all’orecchio sommessi arpeggi degli archi sulla scala di LA minore, mentre i violini primi tremolano la quinta vuota LA-MI: su questo tappeto sonoro un fagotto e i corni espongono un classico lamento (motivo-A, MI-FA-MI-FA…)  

A 20” appare nei legni un nuovo motivo-B in DO maggiore, dalla natura ostinata, che viene interrotto (41”) da un’irruzione sul LAb dei flauti, reiterata poco dopo (53”) in presenza, nella tromba, del motivo-C, che anticipa le caratteristiche di attacco dei due primi temi. E in effetti i tre motivi esposti finora diventeranno germogli, per così dire, di temi o incisi che riappariranno nel corso del brano.

A 1’11” gli archi riprendono ad arpeggiare, passati adesso in DO# minore, preparando in questa tonalità l’arrivo (1'19") nel fagotto e archi bassi del Tema-1, dall’aspetto mesto e dolente. L’atmosfera si ravviva (1’54”) con quattro battute di improvviso crescendo e stringendo dell’orchestra, in cui spiccano saltellanti semiminime dei flauti, che ci portano a RE minore (o al modo dorico) introdotto (2’01”) da altri arpeggi degli archi. Si è così preparato il terreno per l’entrata (2’10”) del Tema-2 in corni e celli; questo tema mutua dal Tema-1, trasponendola in alto di un semitono, tutta la prima parte, per poi svilupparsi ulteriormente (2’26”) accompagnato ancora dalle saltellanti semiminime di tutti i legni. Ritroveremo verso la fine questo tema in posizione preminente. Un nuovo crescendo e stringendo (2’51”) è interrotto inopinatamente (2’58”) con la ripresa del tempo precedente, che però porta ora ad una rapida transizione che prepara il passaggio al tempo Allegro (3’21”).

Siamo tornati – momentaneamente – al DO maggiore, ed ascoltiamo, in clarinetti e primi violini, il nuovo Tema-3, che mutua l’incipit e poi lo sviluppo precisamente dalla seconda frase del Tema-2. Si passa a DO minore (3’40”) per lo sviluppo del tema, che (4’16”) innesca negli archi una rapida scalata che porta (4’20”) all’arrivo del Tema-4, esposto dalla prima viola. Esso si caratterizza per riprodurre al suo interno un arco di note mutuato (trasposto) dal motivo-B dell’Introduzione. Spentosi il Tema-4, ecco comparire prepotentemente (5’12”) negli archi il Tema-5, subito sviluppato dai legni e poi reiterato dagli ottoni e chiuso perentoriamente. 

Ora tocca al Tema-4 tornare (6’30”) in primo piano, sottoposto poi ad altri consistenti sviluppi. A 7’54” sembra di piombare nella nebbia più fitta: i soli archi, suonando in tremolo sul ponticello, evocano una specie di indistinto ronzio, dal quale si esce (8’14”) ritrovandoci inaspettatamente in SOL# minore: dove (8’21”) torna ad imperversare il Tema-5. Che poi (8’47”) svaria in MI minore per preparare il ritorno (8’56”) al DO minore, dove il tema viene reiterato, prima di cominciare a spegnersi (9’21”) quasi sfaldandosi progressivamente. Ora è il Tema-4 a dare gli ultimi sussulti (9’46”) nei violini e poi nelle viole, contrappuntate dai legni, poi ancora (10’14”) in violini e viole; sussulti che non arrestano tuttavia l’inevitabile collasso del tema. Adesso è il Tema-5 a tornare mestamente nell’oboe (10’44”) e poi nel flauto (11’15”) che, scortati dal clarinetto, ne testimoniano la fine. Otto battute degli archi (12’24”, Lento assai) e quattro del corno ne siglano la sepoltura, poi (13’05”) negli archi, quindi nel corno, si conclude il compianto.

Tutto finito? Non proprio: come dice Macbeth, dopo la visione di Banqo? La vita riprendo… Ecco, anche qui (13’39”) si ricomincia a vivere. È l’oboe (Moderato) a riprendere l’arco sonoro della terza battuta del Tema-5 e ad innescare un progressivo crescendo culminante in un fragoroso tutti orchestrale che salta dal MIb al DO minore e prepara (Allegro molto) l’ingresso trionfale dei corni (14’17”) sul Tema-2. Che si sviluppa poderosamente culminando (14’49”) nell’esposizione, in DO maggiore, di una variante (Tema-2b) della seconda sezione del tema originale, variante che evoca sogni (sfumati?) di gioventù. L’orgia sonora prosegue fino ad interrompersi bruscamente (15’51”) per poi spegnersi sul MIb. 

Moderato e tranquillo: è il clarinetto solo a scrivere (16’25”) sul Tema-2 accompagnato dal motivo-A negli archi, un epitaffio in MIb minore, dove però ricorre (17’33”) la variante, ora patetica (Tema-2b) in modo maggiore. Infine (18’16”) sono i violoncelli (poi solo il primo) a riprendere sommessamente il Tema-4, sul MIb minore di clarinetto e archi, con il timpano a finire (quasi niente) sul morendo degli archi.  
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Adesso che lo conosciamo un po’ meglio, potremmo anche azzardare una descrizione sommaria della macro-struttura del brano: che si apre con un’Introduzione cui segue l’Esposizione dei 5 temi principali (Tema-1 e Tema-2 sempre in Moderato assai; Tema-3, Tema-4 e Tema-5 in Allegro); quindi Tema-4 e Tema-5 sono sottoposti ad uno Sviluppo che si chiude sul Lento assai. Segue (Moderato, poi Allegro molto) una grandiosa Ripresa del Tema-2 (con Tema-2b). Infine la mesta Coda, con il Tema-2 e poi il Tema-4.

Che dire, un racconto musicale godibile, costruito con sapienza e ispirazione, che Santonja ha cercato di valorizzare, mettendone in risalto i contrasti, fra le zone di quasi-silenzio degli archi e le esplosioni degli ottoni. Certo, è difficile trasformare un buon-lavoro in un… capo-lavoro.
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Come è invece Don Juan, composto da Richard Strauss (nato 18 mesi prima del collega finnico) a soli 24 anni. Qui, almeno sulla carta, rispetto a Sibelius le cose sono un po’ meno equivoche, poiché il titolo dell’opera non lascia adito a dubbi: Strauss intende programmaticamente proporci la sua musicale visione della personalità del burlador (versione Lenau, peraltro). Del quale sbozza in altrettanti temi musicali il piglio scanzonato e irriverente, le pulsioni della libido e gli slanci ideali.

Dopodichè starà pur sempre a noi giudicare la riuscita del suo sforzo compositivo: e decideremo se apprezzarlo per la coerenza della musica con il soggetto ispiratore, oppure (come alla fine magari accade) semplicemente per l’irresistibile fascino che da quella musica emana, del tutto indipendentemente dalla presenza di (e dalla fedeltà a) quel medesimo soggetto ispiratore…

E chissà che non scopriamo che dietro, o sotto, la crosta dello spunto extra-musicale esiste in realtà un rigoroso impianto formale (esposizione e sviluppo dei temi) che regge l’intera costruzione.

Grande prestazione dell’Orchestra, che in questo repertorio ha pochi rivali. Santonja ha saputo cavarne il meglio, assecondato dalle prime parti che hanno qui ruoli da protagonista. Per lui applausi convinti anche da parte di Dellingshausen&Co.

30 settembre, 2022

laVerdi 22-23. 1

Il primo concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano della stagione principale 22-23 vede il gradito ritorno sul podio di Stanislav Kochanovsky, che ormai da anni opera regolarmente in Italia e a Milano in particolare. Programma di impaginazione tradizionale, aperto e chiuso da due delle composizioni strumentali più celebri di Modest Musorgski che incastonano l’unico concerto solistico composto da un 38enne Jan Sibelius.

Ecco quindi Una notte sul Monte Calvo, di cui viene eseguita – credo sia la prima volta per laVerdi - la versione originale (quella non ancora inquinata – in senso buono! – da Rimski). Quindi da chiamarsi correttamente La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo. Rimando qui ad una mia breve disamina delle diverse versioni di questo brano. 

Kochanovsky ce lo propone proprio in tutta la sua barbarie (i critici di Musorgski – Rimski compreso – la scambiarono per totale insipienza nell’orchestrare) solo saltuariamente interrotta da squarci di luce notturna. E l’Orchestra ne segue il gesto sobrio ma efficace, accolta dal pubblico (piacevolmente assai folto e con incoraggiante presenza giovanile) con calore e partecipazione.
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Il 37enne armeno Sergey Khachatryan arriva poi per cimentarsi con il Concerto per violino di Sibelius. Nel quale lo vediamo esibirsi, sempre con Kochanovsky, poco più di tre anni fa in Olanda.

Lui sembra mettere nelle corde del suo Guarneri del Gesù del 1740 la pietas e la dignità di tutto un popolo. Ne esce un Sibelius crepuscolare ma non decadente, sofferto (l’Adagio di molto davvero da trattenere il respiro) esuberante ma non sguaiato nell’Allegro, ma non tanto conclusivo. Kochanovsky lo supporta al meglio, mitigando i tutti orchestrali e per il resto lasciando al solista il massimo del rilievo.

Strepitoso successo, con lunghi applausi ritmati, ripagato da Sergey con un bis dedicato alla sua patria, che ancora oggi attende giustizia dalla storia.
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Ha chiuso la serata Quadri di un’esposizione, nella lussureggiante trascrizione orchestrale di Maurice Ravel, della quale rimando pure ad una mia passata e sommaria esegesi.

Una prestazione superlativa (i fiati soprattutto in grande spolvero, meritatamente fatti alzare più volte dal Direttore per gli applausi finali) che ha chiuso in bellezza questo ritorno alla normalità (speriamo non ci siano… ricadute) dopo la disgraziata parentesi del Covid. 

24 giugno, 2021

laVerdi tutta in minore

Dopo quasi tre anni Kolja Blacher torna in Auditorium in entrambe le sue vesti: di solista al violino e di direttore. In programma - come da tradizione - un pezzo breve introduttivo, un concerto solistico e una sinfonia. Tre brani qui accomunati dal tono minore.

Si inizia con Valse triste di Jan Sibelius, componente delle musiche di scena (6 brani, pochi minuti) per un dramma di Arvid Järnefelt (cognato di Sibelius) intitolato ottimisticamente (Kuolema) alla morte! Lo spettro del marito deceduto si affaccia sulla camera da letto della moglie malata per portarsela via. É annunciato da una musica arcana che sveglia la donna, che si mette a danzare, insieme ad apparizioni che si manifestano via via per ballare con lei questo improbabile walzer a metà fra sogno e incubo. Dopo una pausa di... riposo, attacca una danza sfrenata che culmina nell’apparizione della Morte, che reclama il suo pegno.

Seguiamo l’esecuzione di Eduard vanBeinum al Concertgebouw: per me la più rispettosa dell’agogica prescritta. Si attacca in Lento con i soli archi e con i contrabbassi in pizzicato (suoneranno sempre così delle minime puntate e solo verso la fine prenderanno l’arco, per poche battute); la tonalità del motivo iniziale è cangiante da FA# minore (16”) attraverso il RE (29”) a SOL maggiore (40”); quindi ancora lo stesso motivo è presentato in SOL minore (44”) poi, via MIb, sfocia in LAb maggiore (1’09”). All’indicazione deciso (1’15”) ma senza che il tempo cambi, ecco farsi largo, in staccato negli archi, la tonalità di SOL maggiore, con violini e celli che insistono sulla dominante RE, e si muovono fra questa e la tonica superiore, chiudendo su essa dopo una languida digressione sulla scala minore.

Qui (2’04”) flauto (poi contrappuntato dal clarinetto) e violini primi espongono il delicato tema principale, subito ripetendosi:

Poi (2’26”) segue una salita sulla relativa MI minore, che dal SOL scende al FA (2’44”) per una pausa in corona puntata; da qui (2’52”) si va sul FA#, dove ritroviamo (2’58”) il passaggio udito all’inizio. Ma la frase è bruscamente interrotta (3’13”) dalla ripresa del tema principale nel flauto, cui ancora risponde il clarinetto (senza ripetizione) seguito dalla salita in MI minore.

Questa però adesso sfocia, sul primo vero cambio di tempo (Poco risoluto, 3’34”, contrabbassi finalmente con arco!) in un perentorio nuovo tema in SOL maggiore (salita da dominante a sopratonica e appoggio sulla tonica) sfociante in Mi minore:

Subito riproposto ma con successiva scalata (3’45”) per toni interi fino al MI e successiva discesa cromatica sulla mediante SI. Cui segue una nuova impennata sul SOL acuto (3’55”) e discesa cromatica sulla dominante RE.

Il tempo accelera ancora (4’02”, Più risoluto e mosso) e gli archi si esibiscono in accordi ribattuti di SOL minore; poi sempre più veloce (4’07”, Stretto) sugli arpeggi (sempre di SOL minore) degli archi bassi riascoltiamo, in note aumentate, il motivo iniziale, stavolta sul RE minore.

Si torna a Lento assai (4’23”) dove abbiamo ancora 4 battute di RE minore prima che 4 violini soli esalino, prendendo il testimone dal RE dei corni, un ultimo respiro (4’33”): SOL-FA#-SOL, minore.

In sostanza il brano ha un’agogica piuttosto semplice: apre in Lento e poi, a partire dal Poco risoluto, accelera continuamente fino a morire sul ritorno finale del Lento. Per il resto, solo variazioni minuscole e assai brevi.  

Chi comincia a derogare dalla lettera di Sibelius è Vladimir Ashkenazy con la Chamber Orchestra of Europe. Che comincia ad abbandonare il Lento già sulla scansione dei RE (1’28”) e poi decisamente accelera sul tema principale (2’17”). Parrebbe quasi che il russo abbia seguito le orme di Sergiu Celibidache, qui con la RAI Milano.

Per curiosità ascoltiamo invece cosa combina Ole Schmidt con la Royal Philharmonic: interpreta l’indicazione deciso (a 1’43”) come un Allegro subito, raddoppiando la velocità fin dalla scansione dei RE che precede l’entrata del tema principale. Torna poi bruscamente a Lento (2’38”) per la riproposta della frase iniziale, quindi altro colpo di reni (3’23”) sulla ripresa del tema principale; e da qui a rotta di collo fino al Lento dell’epilogo (4’25”).  

Alfred Scholz con la London Festival fa la media fra il Lento e il Poco risoluto e poi la applica da inizio a fine, in un improbabile e continuo Allegretto!

Infine ecco Herbie con i Berliner: addirittura Lentissimo! Poi però - e al momento opportuno! (4’38”) - si scatena in un’orgia parossistica...
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Blacher? Intanto va detta la cosa più importante: come ha già fatto in passato, qui lui presenta una versione del brano per soli archi. Ma non quella della primissima esecuzione, cui Sibelius aggiunse successivamente i tre fiati e i timpani... bensì una moderna, orchestrata dal violoncellista Georg Oyen. Che lascia un retrogusto un po’ amarognolo, poichè privarlo dei pur sporadici interventi dei fiati (flauto e clarinetto soprattutto) toglie al brano quel tocco decadente che è la sua principale caratteristica: e qui due campioni come Manachino e Ghiazza avrebbero davvero fatto la differenza!

Quanto ai tempi, Blacher - che ha suonato sulla sedia della spalla, facendo traslocare Santaniello su quella del concertino - ha sostanzialmente rispettato la lettera di Sibelius, solo anticipando di poco l’accelerazione al Poco risoluto.
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Mendelssohn è l’autore del Concerto per violino in cui si cimenta direttamente Blacher. Ma non è quello celeberrimo in MI minore (che ascoltammo proprio da lui nel marzo del 2018) ma il meno famoso (ed eseguito) in RE minore. Lo avevamo ascoltato qui nel lontanissimo dicembre del 2012 interpretato da Vadim Repim con l’Orchestre de la Suisse Romande.

Composto all’età di 12 anni, fa parte di quella produzione mendelssohn-iana orientata prevalentemente agli archi (vedi le 12 sinfonie): erano questi, oltre al pianoforte, gli strumenti che davano vita ai concerti in casa Mendelssohn. Così anche quest’opera vede il solista accompagnato esclusivamente da questa sezione dell’orchestra.

Anche qui, come Prima Sinfonia udita poco tempo fa, troviamo un Mendelssohn tutto pieno di furore adolescenziale, che si manifesta nei due Allegro esterni, mitigato dal languido Andante centrale. La struttura è simile a quella del futuro fratello (composto 22 anni più trdi) anche in dettagli come l’attacca che collega il secondo e il terzo tempo.

Blacher si fa sistemare due leggii: uno per sè come solista (e anche questo è un segno della scarsa dimestichezza con quest’opera) e uno, opposto al primo, per sè come direttore. Girandosi ora verso il pubblico (solista) ora verso l’orchestra (direttore). 

Apprezzabile la sua interpretazione (la tecnica certo non si discute) che però non rimuove da questo brano (se si esclude qualche squarcio nell’Andante) l’impressione di una certa freddezza, o di accademismo che guarda più al passato che al futuro.
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É Mozart a chiudere la serata con la stra-celebre K550. Il che consente anche alla sezione fiati dell’Orchestra di avere doverosamente la sua parte. Blacher dirige senza bacchetta e affronta questo capolavoro con gran cipiglio e tempi sempre ben serrati. E poi non ci fa mancare uno solo dei da-capo, inclusi quelli del movimento finale.

Per lui e i ragazzi un gran trionfo con gli ormai consueti applausi ritmati. Replica questa sera.

08 aprile, 2017

2017 con laVerdi – 15


Il concerto di questa settimana vede un gradito ritorno (Pietari Inkinen) e un atteso debutto (Saleem Ashkar) in un Auditorium piacevolmente affollato. In programma due opere del pre- e del tardo-romanticismo.

Il poco più che quarantenne Saleem Ashkar è concittadino di tale... Gesù: infatti è nato a Nazaret (terra d’origine di Maria&Giuseppe) una delle enclavi più popolose di arabi israeliani (venne annessa di forza allo stato di Israele, insieme a tutta la Galilea, originariamente destinata dall’ONU allo Stato Arabo di Palestina, dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49). Insieme al fratello minore Nabeel (violinista nella West-Eastern Divan Orchestra fondata da Barenboim e Said) è quindi un rappresentante del variegato movimento che persegue una civile e rispettosa convivenza fra arabi ed ebrei in Palestina: purtroppo con risultati non troppo incoraggianti, a giudicare dai fatti. Ma continuiamo a sperare...

Il Quarto di Beethoven è banco di prova da far tremare i polsi, ma il simpatico Saleem mostra di padroneggiarlo con assoluta sicurezza: lo suona come fosse... Scarlatti, musica in punta di piedi, glorioso settecento italiano; neanche le proterve provocazioni dell’orchestra nell’Andante con moto lo mettono a disagio, e solo nel conclusivo rondo si assiste finalmente ad un serrato dialogo fra solista e orchestra.

Accoglienza calorosissima e così lui, che ha già suonato l’intero corpus delle 32 sonate beethoveniane, ci propone come bis l’Adagio cantabile della Patetica (eccone un’interpretazione di un altro berlinese d’adozione come lui).
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Si chiude con la Seconda di Jan Sibelius. Composta negli anni 1901-2, durante e dopo un soggiorno a Rapallo, è secondo me un esempio luminoso di velleitarismo vacuo, una cosa tanto-fumo-e-poco-arrosto, un coacervo di reminiscenze di Ciajkovski, Dvorak, Mahler, Scriabin, Rachmaninov, più qualche prosaico motivo popolare finnico, per compiacere i compatrioti (e ottenere un vitalizio!) Dove la forma sinfonica viene bistrattata assai e dove si cerca l’effetto a buon mercato, in assenza di contenuti di un qualche spessore.

Ne sono esempio: il primo movimento, che sembra una fantasia di motivi giustapposti fra loro senza alcuna narrativa, e il finale, intriso di un’insopportabile quanto vuota retorica! Appena appena digeribili i due movimenti interni, ma ciò non basta a risollevare il livello davvero modesto dell’opera.  

Inkinen, per carità di Patria, cerca di far buon viso a cattivo gioco, ma trasformare una mappazza in un capolavoro è impresa onestamente impossibile, così non resta che applaudire lui e gli esecutori per la loro abnegazione.