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08 aprile, 2017

2017 con laVerdi – 15


Il concerto di questa settimana vede un gradito ritorno (Pietari Inkinen) e un atteso debutto (Saleem Ashkar) in un Auditorium piacevolmente affollato. In programma due opere del pre- e del tardo-romanticismo.

Il poco più che quarantenne Saleem Ashkar è concittadino di tale... Gesù: infatti è nato a Nazaret (terra d’origine di Maria&Giuseppe) una delle enclavi più popolose di arabi israeliani (venne annessa di forza allo stato di Israele, insieme a tutta la Galilea, originariamente destinata dall’ONU allo Stato Arabo di Palestina, dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948-49). Insieme al fratello minore Nabeel (violinista nella West-Eastern Divan Orchestra fondata da Barenboim e Said) è quindi un rappresentante del variegato movimento che persegue una civile e rispettosa convivenza fra arabi ed ebrei in Palestina: purtroppo con risultati non troppo incoraggianti, a giudicare dai fatti. Ma continuiamo a sperare...

Il Quarto di Beethoven è banco di prova da far tremare i polsi, ma il simpatico Saleem mostra di padroneggiarlo con assoluta sicurezza: lo suona come fosse... Scarlatti, musica in punta di piedi, glorioso settecento italiano; neanche le proterve provocazioni dell’orchestra nell’Andante con moto lo mettono a disagio, e solo nel conclusivo rondo si assiste finalmente ad un serrato dialogo fra solista e orchestra.

Accoglienza calorosissima e così lui, che ha già suonato l’intero corpus delle 32 sonate beethoveniane, ci propone come bis l’Adagio cantabile della Patetica (eccone un’interpretazione di un altro berlinese d’adozione come lui).
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Si chiude con la Seconda di Jan Sibelius. Composta negli anni 1901-2, durante e dopo un soggiorno a Rapallo, è secondo me un esempio luminoso di velleitarismo vacuo, una cosa tanto-fumo-e-poco-arrosto, un coacervo di reminiscenze di Ciajkovski, Dvorak, Mahler, Scriabin, Rachmaninov, più qualche prosaico motivo popolare finnico, per compiacere i compatrioti (e ottenere un vitalizio!) Dove la forma sinfonica viene bistrattata assai e dove si cerca l’effetto a buon mercato, in assenza di contenuti di un qualche spessore.

Ne sono esempio: il primo movimento, che sembra una fantasia di motivi giustapposti fra loro senza alcuna narrativa, e il finale, intriso di un’insopportabile quanto vuota retorica! Appena appena digeribili i due movimenti interni, ma ciò non basta a risollevare il livello davvero modesto dell’opera.  

Inkinen, per carità di Patria, cerca di far buon viso a cattivo gioco, ma trasformare una mappazza in un capolavoro è impresa onestamente impossibile, così non resta che applaudire lui e gli esecutori per la loro abnegazione.

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